Per ingannare il tempo in attesa di un libro di cui parlare, un reperto archeologico: un racconto del 1986
IL SESSO DI FIDIA
Le
luci si riaccesero nell'aula e gli studenti si mossero sulle sedie. Durante la
proiezione delle diapositive il silenzio era stato perfetto, ma ora si sentiva
un brusio confuso e rumore di quaderni che sbattevano, borse che venivano
chiuse, fruscio di cappotti.
"Se
qualcuno ha delle domande da fare, sono a vostra disposizione" disse il
professore fregandosi gli occhi per riabituarsi alla luce.
Il
silenzio che seguì era vagamente imbarazzante, e tutti si sentirono sollevati
quando una ragazza delle ultime file si alzò per parlare. Era molto giovane;
questo mi stupì perché in genere il corso di storia dell'arte greca non veniva
seguito dalle matricole.
"Professore,
vorrei sapere" esordì con voce sottile ma sicura "se Fidia era una
donna sposata, con una casa, dei figli, una vita regolare insomma, o se va
considerata un'irregolare, una che dovette rinunciare alla sua vita di donna
per seguire la vocazione artistica. Insomma, in una società misogina come
quella greca, una donna come Fidia veniva accettata, sia pure per
l'eccezionalità del suo talento, o era emarginata perché non rispondeva al
modello di donna dell'epoca?"
Le
ultime parole della ragazza furono coperte da una risata che cominciò in
sordina, raggiunse un livello irrefrenabile e si smorzò a poco a poco, man mano
che gli studenti si accorgevano dell'espressione del professore, il quale, con
gli occhi spalancati e gli occhiali davanti alla bocca aperta, sembrava sul
punto di cadere svenuto. Mi volsi a guardare meglio la ragazza. Era piccola,
minuta, graziosa in un modo un po' provinciale e impacciato, vestita in modo
anonimo, con un paio di jeans e una felpa azzurra su una camicia bianca. Gli
studenti seduti accanto a lei cominciarono a parlarle tutti insieme, e la sua
espressione, all'inizio stupita e un po' indignata, cambiò rapidamente in una
smorfia di confusa disperazione; si chinò ad afferrare una giacca appoggiata
allo schienale della sedia, e stringendola tra le braccia insieme a libri e
quaderni, uscì di furia dall'aula senza scusarsi né salutare nessuno.
Il
professore non era ancora riuscito a chiudere la bocca, ma si era rimesso gli
occhiali sedendosi di schianto sulla poltrona dietro la cattedra.
"Ci
sono altre domande?" riuscì alla fine ad articolare, e quando nessuno
degli studenti rispose, mormorò: "Allora andate pure, le lezioni
riprenderanno come sempre lunedì prossimo alla stessa ora."
Tutti
uscirono ridendo e commentando ad alta voce l'episodio. Io ero assetata e mi
diressi al bar interno; dopo aver fatto la coda alla cassa e al banco, cercai
un posto per sedermi. Non vi erano tavolini liberi, ma vidi la ragazza che
aveva fatto quella ridicola domanda seduta da sola davanti a un bicchiere di
coca-cola. Deposi tazza e teiera e mi sedetti accanto, decisa ad
attaccare discorso per scoprire qualcosa di lei. Mi incuriosiva moltissimo.
Notai che aveva una fede alla mano sinistra e che era meno giovane di quanto mi
era sembrata nella penombra dell'aula; aveva i capelli scuri e un po'
arricciati, tagliati senza grazia. Mi guardò con aria depressa e tirò su col
naso; forse aveva pianto. Non sapevo quale pretesto trovare per attaccare
discorso, ma fu lei a cominciare a parlare.
"Secondo
te" disse con quella sua vocina che avevo già notato poco prima "i professori
si ricordano della faccia degli studenti che vedono a lezione?"
"Non
saprei" risposi "probabilmente di quelli che frequentano sempre, sì."
"Ma
di uno studente visto una volta sola, e che ha fatto una domanda che li ha
colpiti in modo particolare?"
Decisi
di fingere di non sapere a che cosa volesse alludere, per non metterla in
imbarazzo.
"Magari
si ricorderanno la domanda, e non lo studente."
La
ragazza rimase un po' in silenzio, con l'aria sempre più depressa.
"Ho
fatto una figura terribile" disse infine "proprio col professore al
quale avevo l'intenzione di chiedere la tesi. Mi sono iscritta solo quest'anno
all'università perché mi sono sposata presto e ho anche un bambino, e ho appena
cominciato a frequentare, con lo scopo preciso di laurearmi in storia
dell'arte greca. Ma adesso dovrò cambiare programma, non avrò mai più il
coraggio di presentarmi davanti al professore dopo questa figuraccia!"
"Raccontami,
forse non è così grave come sembra."
La
ragazza raccontò, e io ipocritamente la stetti ad ascoltare; devo confessare
che, anche raccontata con quel tono angosciato dalla protagonista, la storia mi
sembrò veramente assurda, e le scoppiai a ridere in faccia.
"Be',
io ho fatto le magistrali, il greco non l'ho mica studiato, e neanche la storia
dell'arte. Ma sono stata in viaggio di nozze in Sicilia, ho visitato Segesta,
Agrigento e Selinunte e così ho pensato che dovesse essere una bella materia da
studiare, mio marito mi ha incoraggiata, e io ci tenevo molto..."
Mi
accorsi che aveva le lacrime agli occhi e temetti che scoppiasse a piangere
al bar, per una storia così ridicola,
oltre tutto. Alla fine si riprese e ricominciò a parlare con voce lamentosa.
"Avevo
anche pensato che sarebbe stato un bel nome, e di buon augurio, per una
bambina! perché voglio una bambina, appena Marco andrà all'asilo. Ero così
contenta di averle già trovato il nome!"
"Puoi
sempre chiamarla Enea" dissi, pentendomi non appena ebbi chiuso la bocca.
Lei
mi lanciò uno sguardo sospettoso e scosse il capo.
"Non
mi sembra un bel nome," mormorò, come se non volesse offendermi "però
lo terrò presente."
Mi
sentii un verme e decisi che la conversazione era durata abbastanza.
"Devo
andare" dissi, "ho una lezione tra dieci minuti. Non te la prendere
troppo per questa storia, se lasci passare un po' di tempo il professore non si
ricorderà certo più di te, e ti darà la tesi senza fare difficoltà."
Ma
anche se la dimentica il professore, pensai, se ne ricorderanno gli altri
studenti, questa storia entrerà di sicuro nella leggenda e sarà tramandata da
generazioni di universitari. Mi dispiaceva per la ragazza, così sciocchina e
mortificata, ma anche il diritto di essere stupidi si paga, ed è giusto così.
"Ti
ringrazio di avermi ascoltata" disse, "mi sei stata di grande aiuto.
Avevo veramente bisogno di parlare con qualcuno. Spero di non essere stata
troppo noiosa. Adesso vado anch'io, la baby-sitter deve andarsene alle sei. Non
avrò mai il coraggio di raccontare a mio marito che cosa ho combinato il mio
primo giorno di università."
Pensavo
anch'io che era meglio se non raccontava niente. E se continuava a frequentare,
era meglio che non facesse più domande. Ma non dissi nulla, la salutai e me ne
andai, senza avere il coraggio di chiederle il suo nome: come avrei potuto
spiegarle che mi chiamo Consuelo?