lunedì 28 giugno 2010
Stefania Bertola, Il primo miracolo di George Harrison
Una delusione questo libro di Stefania Bertola, scrittrice torinese che amo molto tanto che ho letto quasi tutti i suoi romanzi e non li ho eliminati nel drastico ridimensionamento della mia biblioteca. Inoltre io amo moltissimo i racconti, perciò dall'accoppiata autrice–forma racconto mi aspettavo ore di puro piacere. Invece questi non sono veri e propri racconti, sono per lo più ideuzze, spunti, carini e divertenti ma insufficienti a riempire un libro. Il mio preferito è Santa Violetta, lamento di una santa ignota che vorrebbe avere un giorno onomastico tutto per sé; quello che mi ha delusa di più è La traversata di Torino, a piedi da corso Unione Sovietica all'Auchan dell'autostrada per Milano. Da un argomento come questo, pensavo, chissà che cosa riesce a tirare fuori questa scrittrice così spiritosa, così acuta nel delineare tic e fotofinish di Torino e della sua fauna umana, così sempre intelligente e abile nell'individuare cambiamenti sociali e novità appena spuntate! Invece niente. Un fuoco d'artificio con la miccia umida. Non che i racconti siano mal scritti, affatto, se fossero imparaticci di un'autrice debuttante li troverei ottimi. Ma quella scrittura scintillante che mi faceva ridere da sola o rileggere con lo stesso gusto con cui si scarta per l'ennesima volta un gianduiotto, di cui si conosce già il sapore ma non ci si stanca mai... no, non l'ho trovata qui. Penso che sia quella che si chiama "operazione editoriale", cioè un libro messo insieme con quanto si trova di già fatto nell'attesa che l'autore si sbrighi a sfornare il prossimo. Peccato. Non aggiunge niente a Stefania Bertola e rattrista i suoi fan. Tra i quali continuo a annoverarmi, e aspetto con ansia il prossimo romanzo che spero pieno delle sue squinternate e simpaticissime ragazze, scoppiettante di storie gentilmente assurde, con trovate divertenti a ogni pagina. A la prochaine, Stefania, non ce l'ho con te ma vedi di non deludermi più.
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Valeria Amerano, In pugno alle stelle
Conosco Valeria Amerano ormai da parecchi anni e ho avuto modi di apprezzarne la scrittura nei molti racconti vincitori di premi, ma questo è il primo romanzo suo che leggo. E pur aspettandomi qualcosa di bello, devo dire che la lettura ha superato di molto le mie aspettative. In pugno alle stelle è il romanzo di una famiglia, quella dell'autrice, di cui vengono ricostruite le generazioni fino dalla fine dell'Ottocento, quando il nonno paterno Steo Delmo abbandona la campagna pinerolese per emigrare a Torino, dove diventa tranviere. Sposa la bella Caterina la cui famiglia coltiva fiori in un vivaio detto il Brasil. Di qui si dipanano le vicende di nonni, zii, zie, genitori, fino a quando tra gli altri personaggi spunta anche Anna, alter ego dell'autrice, e si giunge più o meno agli anni ottanta del secolo scorso.
Detto così sembrerebbe un banalissimo memoir familiare, una di quelle opere che si scrivono per indulgere all'epica dei ricordi e alla nostalgia dell'infanzia. Invece è un libro magnifico per la capacità quasi miracolosa di empatia con i personaggi che racconta, nei quali entra senza dare l'impressione di forzarli, di inventarli. Io, che di solito non vado pazza per le storie di famiglia o di memoria, devo riconoscere che questa è speciale. Un punto di forza è la scrittura, ricca, sorprendente, senza mai cadere nel barocco o nel troppo scritto. Quel genere di scrittura che ti fa andare avanti stupita, chiedendoti: ci sarebbe un altro modo di dire questa cosa? No, non c'è, questo è il migliore possibile. Non c'è indulgenza né compiacimento nella descrizione dei tipi umani che compongono la famiglia della scrittrice, ma c'è rispetto e una forma non sentimentale di adesione al passato, uno sforzo di recupero, di interpretazione, di ricostruzione, frutto forse di una nostalgia consapevole dell'impossibilità di afferrare un mondo sparito. Ho sentito più di una volta Valeria Amerano dire che si può scrivere solo di qualche cosa che si è perduto, un'affermazione in cui non mi riconosco ma che il suo romanzo mi ha fatto capire e che sicuramente rispecchia la sua scrittura e ne spiega il fascino.
Rimane da dire che questo libro, uscito nel 2004 per Alzani Editore, non ha certamente avuto la diffusione che meritava. La sua profondità e la sua ricchezza ne fanno un'opera che spicca decisamente al di sopra della media di quello che i nostri editori di punta offrono in abbondanza. Ma non segue la moda della facilità e del noir a ogni costo, della narratività consolatoria, e questo forse renderà difficile che venga riconosciuto il suo valore. Certo varrebbe la pena che qualche casa editrice coraggiosa e soprattutto di gusto lo ristampasse e investisse nella promozione.
Concludo con una citazione, la frase finale: Li ho sempre accompagnati tutti al cimitero, i miei morti, ma non sono mai riuscita a seppellirli.
Detto così sembrerebbe un banalissimo memoir familiare, una di quelle opere che si scrivono per indulgere all'epica dei ricordi e alla nostalgia dell'infanzia. Invece è un libro magnifico per la capacità quasi miracolosa di empatia con i personaggi che racconta, nei quali entra senza dare l'impressione di forzarli, di inventarli. Io, che di solito non vado pazza per le storie di famiglia o di memoria, devo riconoscere che questa è speciale. Un punto di forza è la scrittura, ricca, sorprendente, senza mai cadere nel barocco o nel troppo scritto. Quel genere di scrittura che ti fa andare avanti stupita, chiedendoti: ci sarebbe un altro modo di dire questa cosa? No, non c'è, questo è il migliore possibile. Non c'è indulgenza né compiacimento nella descrizione dei tipi umani che compongono la famiglia della scrittrice, ma c'è rispetto e una forma non sentimentale di adesione al passato, uno sforzo di recupero, di interpretazione, di ricostruzione, frutto forse di una nostalgia consapevole dell'impossibilità di afferrare un mondo sparito. Ho sentito più di una volta Valeria Amerano dire che si può scrivere solo di qualche cosa che si è perduto, un'affermazione in cui non mi riconosco ma che il suo romanzo mi ha fatto capire e che sicuramente rispecchia la sua scrittura e ne spiega il fascino.
Rimane da dire che questo libro, uscito nel 2004 per Alzani Editore, non ha certamente avuto la diffusione che meritava. La sua profondità e la sua ricchezza ne fanno un'opera che spicca decisamente al di sopra della media di quello che i nostri editori di punta offrono in abbondanza. Ma non segue la moda della facilità e del noir a ogni costo, della narratività consolatoria, e questo forse renderà difficile che venga riconosciuto il suo valore. Certo varrebbe la pena che qualche casa editrice coraggiosa e soprattutto di gusto lo ristampasse e investisse nella promozione.
Concludo con una citazione, la frase finale: Li ho sempre accompagnati tutti al cimitero, i miei morti, ma non sono mai riuscita a seppellirli.
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César Aira, Ema, la prigioniera
Finalmente ho potuto leggere un po' quello che mi capitava, seguendo i suggerimenti del piacere e del caso. Ho cominciato con un libro che tenevo lì da un bel po', Ema, la prigioniera di César Aira, edizione originale del 1981, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 1991. Siccome non avevo mai sentito nominare l'autore, ho fatto una piccola ricerca e ho scoperto che questo scrittore argentino, nato nel 1949 a Coronel Pringles in provincia di Buenos Aires, è estremamente prolifico (più di cinquanta libri pubblicati tra romanzi, racconti e saggi), e ha una grandissima influenza sulla scena letteraria del suo paese. In Italia, oltre a questo libro, ho trovato Come diventai monaca, che quando uscì (2007) ebbe alcune recensioni che ricordo vagamente, e Il mago, entrambi usciti da Feltrinelli. Questo romanzo è veramente singolare. Di grande fascino, attira il lettore per pagine e pagine prima che si cominci a rendersi conto che c'è qualcosa che non quadra. Ambientato nell'Ottocento, racconta di un gruppo di militari e forzati che viaggiano per mesi verso un luogo di confine, lontanissimo e remotissimo, quello stesso Pringles che, cercato sulla carta geografica, risulta non molto distante a Buenos Aires. Nella prima parte si parla di un ingegnere francese che poi sparisce, e nella seconda la Ema del titolo diventa protagonista. I militari sono soprattutto dei beoni senza fondo, e anche violenti con i forzati che trasportano su carretti, per non parlare delle donne sempre incinte e trattate peggio che stracci da scarpe. Attorno ai bianchi si muovono gli indiani, via via sempre più importanti e presenti, che sono una delle invenzioni più fantastiche del romanzo: una specie di popolo di dandy, che pensano tutto il tempo all'eleganza, a dipingersi il corpo e i capelli, a bere di tutto, a fare il bagno, a osservare un'etichetta rigida, a fare gite senza motivo in posti strani, a accoppiarsi, suonare e farsi ammirare. Sia gli indiani che il misterioso colonnello Espina del forte di Pringles battono moneta con cui cercano di invadere le nebbiose lontananze in cui vivono. Ema poi è una specie di albero, di pesce guizzante, che sopravvive a tutte le trasformazioni cui la vita la costringe sposandosi a caso con chiunque incontri e accumulando bambini finché alla fine mette su un allevamento di fagiani destinato a diventare un grande business. Il punto che per me è stato fondamentale, dove ho capito che dovevo abbandonare la necessità di sapere se le storie che Aira mi raccontava avevano una pretesa di realismo o erano pura fantasia sganciata dalla verosimiglianza, dalla logica, persino dalla coerenza narrativa, è l'incontro della truppa in marcia con branco di otarie: chiamate les chiennes e descritte come veltri scheletrici e elegantissimi con lunghe code e niente orecchie, con gambe lunghe e andatura sgraziata, be', sono stata costretta a andare a consultare le immagini di google per avere la conferma che le otarie sono tutte diverse, assomigliano solo alle foche di cui sono parenti strette. E Aira, serafico, fa dire al tenente Lavalle: Sono piuttosto decorative, indubbiamente. Lei non ci crederà, ma appartengono alla stessa famiglia delle foche. Non ha visto che non hanno le orecchie? Una simile spudorata indipendenza dalla realtà e questo abbandono all'immaginazione, fantastico e attraente nelle descrizioni dei paesaggi, delle persone, delle ragioni irragionevoli delle azioni, funziona meno bene nei dialoghi che sovente sono tentati dall'elucubrazione filosofica e dalla frase a effetto con risultati piuttosto noiosi, oppure sono io che sono pochissimo propensa alle idee astratte e non ho avuto la pazienza di cercare un significato là dove apparentemente non ce n'è.
Bisogna sicuramente avere voglia di abbandonarsi all'immaginazione, alla sospensione dell'incredulità, essere ben disposti a lasciarsi stupire, ma questo è un romanzo (benissimo tradotto da Angelo Morino, nientemeno) che può affascinare e soprattutto è diverso, diversissimo dalla solita minestrina che ci fornisce l'editoria. Non dico che ne vorrei tutti i giorni ma vale senz'altro la pena di inoltrarvisi, come in una terra davvero straniera e aliena ma ricca di attrattive esotiche.
Bisogna sicuramente avere voglia di abbandonarsi all'immaginazione, alla sospensione dell'incredulità, essere ben disposti a lasciarsi stupire, ma questo è un romanzo (benissimo tradotto da Angelo Morino, nientemeno) che può affascinare e soprattutto è diverso, diversissimo dalla solita minestrina che ci fornisce l'editoria. Non dico che ne vorrei tutti i giorni ma vale senz'altro la pena di inoltrarvisi, come in una terra davvero straniera e aliena ma ricca di attrattive esotiche.
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Premio Alga, last news
Allora, riassunto di molte puntate apparse in altri contesti: il Premio Alga è un'iniziativa interessantissima, giovane, nuova. Cinque libri in concorso più uno fuori collana, giuria formata dai lettori tra i quali saranno estratti ricchi premi, libri in vendita in canali alternativi a 3 €. Ecco gli autori e i titoli: Antonio Achille, La grande Estate (fuori concorso); Claudia Manselli, L'orologiaio; Valentina Imbellone, La casa in mezzo all'erba; Nicola Somenzi, Quando Dio morì; Maura Enrici Bellom, Caffè di cicoria; Consolata Lanza, Trilogia delle donne virtuose. Tutti belli, tutti da leggere, votare e commentare eccetera eccetera. Informazioni più precise sul sito dove potete anche seguire le votazioni parziali. E adesso basta con il Premio Alga, è tempo di cambiare argomento.
sabato 5 giugno 2010
BAD VISIONS, di Danilo Arona
Mai lavorato tanto come in questo periodo dal tempo della maturità. Intesa come esame, non come stato. Comunque, non sono riuscita a scrivere una riga da più di un mese, più di cinque settimane per l'esattezza, mentre avrei voluto scrivere diffusamente del libro di Danilo Arona Bad Visions, che mi ha divertita moltissimo, ma ci riesco solo oggi e per di più in breve. Uso un verbo, divertire, che può sembrare strano riferito a un romanzo (anzi due, La stazione del Dio del Suono e Blue Siren, riuniti nel volume suddetto) horror che si propone di suscitare brividi, non risate. E infatti ho provato molti brividi e non ho riso affatto. Ma mi sono divertita perchè il mio cervello, oltre che la mia pelle e la mia schiena e ogni altro angolo dove si possono provare brividi, è stato ampiamente stimolato, incuriosito, messo alla prova ecc ecc.
Questo perché Danilo Arona toglie da sotto i piedi le sicurezze più salde: spazio e tempo. Che l'identità sia menzognera e incerta ce lo aspettiamo ormai anche dai libri per bambini, quelli di plastica da mettere nel bagnetto. Ma che il tempo trascolori continuamente da ieri a oggi a domani nello stesso istante, e che qui sia anche là ma pure altrove, non è usuale né facile da realizzare in una pagina scritta. Danilo Arona ci riesce eccome, e con la massima naturalezza. Per cui le sue storie di orrore, con ambientazioni che spaziano tra l'Appennino ligure, Ibiza, Barcellona e l'ieri, l'oggi e il domani (La stazione del Dio del Suono), il Kent del Giro di vite di Henry James e le discoteche dove ci si cala qualsiasi cosa (Blue Siren), fanno paura, tolgono il terreno da sotto i piedi, danno la stessa agghiacciante sensazione di instabilità di una scossa di terremoto e nello stesso tempo lasciano il lettore più che soddisfatto.
Consigliato a chi sa godere anche con il cervello.
Questo perché Danilo Arona toglie da sotto i piedi le sicurezze più salde: spazio e tempo. Che l'identità sia menzognera e incerta ce lo aspettiamo ormai anche dai libri per bambini, quelli di plastica da mettere nel bagnetto. Ma che il tempo trascolori continuamente da ieri a oggi a domani nello stesso istante, e che qui sia anche là ma pure altrove, non è usuale né facile da realizzare in una pagina scritta. Danilo Arona ci riesce eccome, e con la massima naturalezza. Per cui le sue storie di orrore, con ambientazioni che spaziano tra l'Appennino ligure, Ibiza, Barcellona e l'ieri, l'oggi e il domani (La stazione del Dio del Suono), il Kent del Giro di vite di Henry James e le discoteche dove ci si cala qualsiasi cosa (Blue Siren), fanno paura, tolgono il terreno da sotto i piedi, danno la stessa agghiacciante sensazione di instabilità di una scossa di terremoto e nello stesso tempo lasciano il lettore più che soddisfatto.
Consigliato a chi sa godere anche con il cervello.
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