Nell’onda
della nostalgia si potrebbe inserire anche questo Le sorelle scarlatte, che ho acquistato senza premeditazione,
attirata dal bellissimo titolo e dall’altrettanto bella immagine di copertina
(per quanto straimitate le scelte di Sellerio rimangono sempre inimitabili).
Nulla sapevo di Francisco García Pavón (Tomelloso 1919 – Madrid 1989),
inventore del Capo della Guardia Municipale di Tomelloso nella Mancia, Manuel
Gonzáles detto Plinio, per cui mi sono trovata senza preavviso in un mondo
assolutamente insospettato. La prima edizione spagnola è del 1969, quella
italiana del 2010 (ignoro se ce ne siano state di precedenti e non ho voglia di
andare a verificare). Ma la distanza tra il mondo di oggi e quello descritto
nelle Sorelle scarlatte è molto,
molto di più di quarant’anni, potrebbe essere di cento e non ci sarebbe niente
da stupirsi. Plinio, che ha acquisito fama in alcuni casi risolti in
precedenza, viene chiamato a Madrid per fare luce sulla scomparsa di due
anziane gemelle, dette scarlatte in quanto rosse di capelli, che hanno
trascorso la giovinezza a Tomelloso. Si porta dietro un veterinario-Watson, don
Lotario, alloggia in un albergo dove vanno i tomellosani in trasferta,
frequenta un caffè vicino alla stazione degli autobus dove i tomellosani
emigrati cercano facce note in arrivo dal paese, incontra a ogni piè sospinto
altri tomellosani che hanno affari da sbrigare nella capitale, come il Faraone,
produttore di vino come tutti i gli abitanti del paese mancego. E la
contrapposizione città-campagna, come quella modernità-vita secondo le
tradizioni, è uno dei leit-motiv del
romanzo, ma non il più importante né il più significativo. Anche Madrid, per
dirla tutta, non sembra proprio una metropoli avveniristica, malgrado Plinio
lamenti il traffico, l’indifferenza reciproca dei madrileni, la fretta che
impedisce di vedere chi passa accanto, o registri fenomeni che lo colpiscono,
come una coppia mista: Entrò un negro giovane e bello con una spagnola
piccola dalle gambe storte. Se ne stavano molto appiccicati. Ordinarono da
bere. Sembrava che la negra fosse lei. La vicenda va avanti lentissima con
una moderata accelerazione finale, Plinio può tornarsene al paese a festeggiare
una nuova vittoria, non c’è tragedia ma dramma sì, e anche commedia, e persino
qualche sfumatura di farsa. Ma il mistero della scomparsa per Garcia Pavón è
solo un pretesto per costruire uno spaccato sociale e perché Plinio possa
esplorare luoghi e personaggi. Lo straordinario appartamento delle gemelle,
immenso e carico di particolari bizzarri e macabri, lo chalet di Carabanchel e
la campagna che diventa periferia, i caffè enormi e affollati, il panorama
lontano di Madrid, un tempo città di
provincia, fra il castigliano e l’orientale, con un non so che di malcelata
povertà, mentre invece i grattacieli
che oggi spezzano questo mediocre paesaggio urbano appartengono a un altro
mondo, ad altre concezioni del tutto estranee a ciò che c’era prima: chiese,
palazzi o strade galdosiane. Sono un nuovo manifestarsi della povertà e della
mancanza di gusto, perché lo spagnolo
oscilla sempre tra il conservatorismo più tetro e l’improvvisazione pazzoide.
Le gemelle scarlatte, nubili, da tutti definite “pulite, pulitissime” e “delle
sante”, la portinaia e la cameriera, “tipi” quasi da commedia dell’arte, gli
studenti sgavazzoni con le straniere facili, il repubblicano sconfitto, la
vedova scaltra e calda, soprattutto il Faraone, portatore e teorico di un
vitalismo tanto eccessivo da essere quasi mortuario, da banchetto funebre. E
d’altra parte di morte e di morti, anzi con i morti, si parla sovente in questo
libro, non i morti ammazzati del poliziesco ma quelli familiari e quotidiani
che si accumulano sulle spalle di chi continua a vivere. Le donne se sono vecchie sono ridicole, se sono moglie e madri sono angeli, se sono sul limite ambiguo dei "quasi cinquan'anni" sono smaniose e libertine, mentre le ragazze sono esibizioniste e facilmente imbabbionabili. Molti sono i temi d’interesse
che vengono portati alla luce dalla ricerca di Plinio, primo fra tutti la
ferita mai rimarginata della guerra civile, e le sue terribili conseguenze
sulla vita degli individui oltre a quella del popolo spagnolo in toto. Il romanzo è stato scritto e
pubblicato in epoca franchista, nessun vento di fronda lo attraversa, i
personaggi si presentano dicendo “sono sempre stato di destra” come patente di
buona condotta, e se non l’avessi letto nella bibliografia di García Pavón
niente mi avrebbe potuto far sospettare che sia uscito nel 1969. Vi circola
un’aria viziata di appartamenti e caffè pieni di fumo e di sentori di cucina,
di scantinati mal aerati, non si sta mai all’aperto, al massimo in cortile o
sulla soglia di casa. Lascia un gusto di vino rosso spesso e di cacciagione con
intingoli molto gustosi, lascia soprattutto il contrario della nostalgia per
quei tempi. Grazie al cielo che non sono nata lì né allora. García Pavón è un
ottimo scrittore, un giallista sui
generis, portato alla riflessione su ogni aspetto della vita e con
l’ambizione di dipingere un quadro sociale, il che gli riesce benissimo. Ma è
portatore di una mentalità terribilmente legata a modelli di virilismo,
maschilismo, antimodernismo, chiusura, che ora fanno arrossire persino a leggerli
ma lui esprimeva senza pudore, senza filtri, come se il resto del mondo fosse
già così oltre che non riusciva neppure a vederne il didietro in fuga. Io
raccomando vivamente Le sorelle scarlatte,
è un libro che si legge bene, può
indurre alla riflessione come è successo a me, ma è non necessario per trarne
godimento. In ogni caso non perdetevi le pagine 163-164 che mi piacerebbe
citare in toto perché rappresentano un’anomalia storica, una teoria sulla
natura della donna fuori tempo massimo che fa quasi tenerezza per il candore
con cui è esposta. Mi limito a queste poche righe: Le donne sono la terra stessa fatta persone, sempre a rasentare il
piatto, il lenzuolo, il sangue e il latte. Sono la nostra coperta, il nostro
grumo di sangue, placenta, pesce, cacchetta di neonato, coperta, benda,
lavacro; carne fatta figura che rasenta la terra. […] Noi camminiamo, la testa
piena di pensieri ambiziosi, astrazioni, musica purissima, assoluto, ma sempre
sotto o sopra di loro, sempre al ritmo delle loro natiche e del loro fiato, dei
loro lenti sacrifici, del loro zuru-zuru che ci incatena a questa povera terra
su cui viviamo per un po’ nel mondo. Ahi Francisco García Pavón. Ti sia
lieve la terra e grazie per avermi fatto fare una risata sincera leggendoti a
pgg. 163-164 dell’edizione Sellerio, e avermi fatto provare l’emozione
dell’antinostalgia.
L’ottima
traduzione di Maria Nicola conserva una gustosa patina d’antan che contribuisce molto alla gradevolezza della
lettura.