Un altro amore importante che non frequentavo dai tempi di Brothers e Arricchirsi è glorioso è Yu Hua, i cui romanzi preferiti per me rimangono Vivere! e Cronache di un venditore di sangue. Ora ho letto Il settimo giorno, strano racconto ambientato in un aldilà dall'atmosfera soffice, ovattata, in cui i morti privi di tomba sono respinti dalla Camera Ardente, crematorio oltre il quale c'è l'eterno riposo concesso solo a coloro che dispongo della proprietà tombale, metafora di un capitalismo che non ha pietà per i nullatenenti, e si aggirano scambiandosi narrazioni della propria vita e della propria morte. Tra di essi c'è anche il protagonista, Yang Fei, morto senza rendersene conto.
I defunti che si incontrano in questo luogo privo di confini e di caratteristiche hanno una loro concretezza materiale, sono scheletri di cui si può intuire se sono morti di recente o da lungo tempo dalla carne che ancora si trova attaccata alle ossa, indossano vestiti e chi, come Yang Fei, non ha nessuno che lo pianga, porta al braccio una fascia nera da lutto. E sono molti i personaggi in cui Yang Fei si imbatte, confusi e incerti, in cerca di un'identità. Smarriti in un limbo senz'aria, si chiedono l'un l'altro: chi sono io? e chi sei tu? Tra tutti spicca la luminosa figura del padre adottivo, capostazione attaccato al lavoro e al dovere, esempio di amore disinteressato, altruista e totale, che letteralmente rinuncia due volte a vivere per un figlio che non è suo. D'altra parte la vita di Yang Fei è dominata dal caso, dalla grottesca nascita alla morte senza preavviso, all'amore non cercato e presto perso.
Gli altri personaggi, una miriade tra cui molti suicidi, sono i più disparati, dai bambini buttati nel fiume che cantano come uccellini alla vicemadre del protagonista, spesso toccati da una vena grottesca e surreale, come Topina che si suicida perché il fidanzato le ha regalato un iPhone taroccato e si cuce da sola la veste funebre, ma accomunati da una dolce e affettuosa solidarietà che contrasta con la durezza, la freddezza e la pericolosità del mondo dei vivi. Dove si verificano fatti spaventosi e incontrollati come gli abbattimenti forzati di immobili, mentre le campagne si trasformano in periferie, i centri commerciali prendono fuoco e i ristoranti scoppiano, in un accumulo dove si riconosce la predilezione di Yu Hua per il grottesco, il surreale, il favoloso, l'ironia e naturalmente, come tutti sottolineano sempre, la critica al capitalismo in salsa socialista alla cinese e all'"auri sacra fames" che divora l'ex patria dell'ugualitarismo maoista.
Un romanzo piuttosto veloce con aspetti molto godibili, come la rappresentazione del limbo degl'insepolti, ma mio parere un po' frammentario, meno coinvolgente di altre opere di Yu Hua, e molto pessimista. Però forse questo dipende dal fatto l'ho letto male, senza mai immergermi totalmente e abbandonarmi alla storia, cosa che in questo periodo, per motivi contingenti, mi riesce molto difficile. Comunque, Il settimo giorno è un romanzo che vale sicuramente la pena di leggere.
Bella traduzione di Silvia Pozzi.
mercoledì 25 ottobre 2017
mercoledì 18 ottobre 2017
Il vero amore supera anche le delusioni: Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi
Confesso che mai avrei pensato di poter scrivere quello che sto scrivendo, ma La donna dai capelli rossi (traduzione di Barbara La Rosa Salim) del mio amatissimo Orhan Pamuk non mi è piaciuto per niente. E dirò di più, non mi è interessato per niente, ma questo può dipendere da un mio limite, il fatto che il tema centrale mi ha lasciata freddina. La storia è presto detta, evitando lo spoiler sul finale che comunque qualsiasi lettore appena sveglio (nel senso letterale di non addormentato durante la lettura) si può immaginare senza difficoltà: il protagonista Cem, adolescente borghese che parla in prima persona, abbandonato dal padre militante marxista, per potersi mantenere agli studi passa un'estate come aiutante di uno scavapozzi, Mahmut Usta, in una località di campagna, Öngarën.
Tra i due si stabilisce uno stretto rapporto, e si raccontano a vicenda storie ossessivamente legate al tema padre - figlio, dichiarato fin dalla prima pagina. Cem racconta l'Edipo di Sofocle, Mahmut Usta il Rostam e Sohrab di Firdusi stabilendo l'inizio di una contrapposizione che è il tema di tutto il libro. La sera i due hanno l'abitudine di recarsi al villaggio a prendere un tè. Qui Cem vede una donna per strada e zac! se ne innamora perdutamente. Avrebbe anche un nome, ma Pamuk decide di chiamarla per tutto il libro la Donna dai Capelli Rossi, il che non aiuta a rendere più credibile e coinvolgente la storia. Il destino fa i suoi giochi, e molti anni dopo Cem, diventato un imprenditore edile di successo, torna a Öngarën,
dove tutto è cambiato, Istanbul si è tanto allargata che la campagna è diventata periferia residenziale, ma comunque i nodi si sciolgono e nell'ultima parte è la Donna dai Capelli Rossi a parlare in prima persona, fornendo la sua chiave di interpretazione dei fatti. I temi di fondo, molto insistiti e ribaditi in dialoghi piuttosto innaturali, esprimono tutti un contrasto o un confronto: padre - figlio, ubbidienza - libertà, oriente - occidente, laicismo europeizzato - fede in dio, modernità - ubbidienza.
In realtà il romanzo è pieno dei temi tipici di Pamuk che riaffiorano qua e là: i lavori scomparsi, l'allargarsi irrefrenabile di Istanbul (La stranezza che ho nella mente), le antiche miniature persiane (Il mio nome è Rosso), la contrapposizione oriente-occidente (Il castello bianco), i movimenti politici e i colpi di stato (La casa del silenzio), la donna vagheggiata, elusiva, misteriosa e in fondo inconsistente (Il museo dell'innocenza), con una variante perché qui la donna parla, il sottosuolo, fa una comparsa stile "cameo" per iniziati persino l'occhio in cielo che tutto segue (Il libro nero), non manca qualche cenno al cinema turco della Yeşilçam (Il museo dell'innocenza) ma per qualche ragione mancano di seduzione.
Ma mancano anche i motivi fondamentali per cui Orhan Pamuk è diventato uno degli autori che amo e ammiro di più: l'ineffabile e meravigliosa sensazione di nostalgia che pervadeva gli altri romanzi, anche quelli per me incomprensibili (l'inverno silenzioso di Kars (Neve), il capitolo decimo di Istanbul, le strade struggenti dell'Anatolia in La nuova vita, gli squarci meravigliosi come la descrizione del Bosforo prosciugato in Il libro nero), e soprattutto manca la bellissima scrittura, le frasi così necessarie e perfette da far venire voglia di accucciarvisi dentro. In parte dipende certo dalla traduzione piuttosto piatta (ovvio che non mi riferisco alla sicuramente ottima conoscenza del turco della traduttrice, ma all'italiano in cui si esprime), ma anche il testo iniziale non è eccezionale, pieno di ripetizioni come se l'autore avesse paura che il lettore non capisca bene, frettoloso in certe parti e sbrodolato in altre (per esempio tutta la prima parte a Öngarën è francamente noiosa).
Certo non rinnego il mio amore per Orhan Pamuk, né mai mi pentirò di tutto quello che ho fatto al suo inseguimento. Mi limito a dire che se il nostro incontro fosse cominciato con questo libro non ne avrei letti altri, ma so per certo che avrei fatto malissimo: come tutti i veri amori il nostro è fatto di alti e bassi, di momenti di incomprensione e riavvicinamenti, e adesso aspetto con fiducia e piacere anticipato il prossimo regalo di riappacificazione da parte del mio amato. A uno che ha scritto Neve, Istanbul, Il museo dell'innocenza e Il mio nome è Rosso posso perdonare qualsiasi cosa.
Tra i due si stabilisce uno stretto rapporto, e si raccontano a vicenda storie ossessivamente legate al tema padre - figlio, dichiarato fin dalla prima pagina. Cem racconta l'Edipo di Sofocle, Mahmut Usta il Rostam e Sohrab di Firdusi stabilendo l'inizio di una contrapposizione che è il tema di tutto il libro. La sera i due hanno l'abitudine di recarsi al villaggio a prendere un tè. Qui Cem vede una donna per strada e zac! se ne innamora perdutamente. Avrebbe anche un nome, ma Pamuk decide di chiamarla per tutto il libro la Donna dai Capelli Rossi, il che non aiuta a rendere più credibile e coinvolgente la storia. Il destino fa i suoi giochi, e molti anni dopo Cem, diventato un imprenditore edile di successo, torna a Öngarën,
dove tutto è cambiato, Istanbul si è tanto allargata che la campagna è diventata periferia residenziale, ma comunque i nodi si sciolgono e nell'ultima parte è la Donna dai Capelli Rossi a parlare in prima persona, fornendo la sua chiave di interpretazione dei fatti. I temi di fondo, molto insistiti e ribaditi in dialoghi piuttosto innaturali, esprimono tutti un contrasto o un confronto: padre - figlio, ubbidienza - libertà, oriente - occidente, laicismo europeizzato - fede in dio, modernità - ubbidienza.
In realtà il romanzo è pieno dei temi tipici di Pamuk che riaffiorano qua e là: i lavori scomparsi, l'allargarsi irrefrenabile di Istanbul (La stranezza che ho nella mente), le antiche miniature persiane (Il mio nome è Rosso), la contrapposizione oriente-occidente (Il castello bianco), i movimenti politici e i colpi di stato (La casa del silenzio), la donna vagheggiata, elusiva, misteriosa e in fondo inconsistente (Il museo dell'innocenza), con una variante perché qui la donna parla, il sottosuolo, fa una comparsa stile "cameo" per iniziati persino l'occhio in cielo che tutto segue (Il libro nero), non manca qualche cenno al cinema turco della Yeşilçam (Il museo dell'innocenza) ma per qualche ragione mancano di seduzione.
Ma mancano anche i motivi fondamentali per cui Orhan Pamuk è diventato uno degli autori che amo e ammiro di più: l'ineffabile e meravigliosa sensazione di nostalgia che pervadeva gli altri romanzi, anche quelli per me incomprensibili (l'inverno silenzioso di Kars (Neve), il capitolo decimo di Istanbul, le strade struggenti dell'Anatolia in La nuova vita, gli squarci meravigliosi come la descrizione del Bosforo prosciugato in Il libro nero), e soprattutto manca la bellissima scrittura, le frasi così necessarie e perfette da far venire voglia di accucciarvisi dentro. In parte dipende certo dalla traduzione piuttosto piatta (ovvio che non mi riferisco alla sicuramente ottima conoscenza del turco della traduttrice, ma all'italiano in cui si esprime), ma anche il testo iniziale non è eccezionale, pieno di ripetizioni come se l'autore avesse paura che il lettore non capisca bene, frettoloso in certe parti e sbrodolato in altre (per esempio tutta la prima parte a Öngarën è francamente noiosa).
Certo non rinnego il mio amore per Orhan Pamuk, né mai mi pentirò di tutto quello che ho fatto al suo inseguimento. Mi limito a dire che se il nostro incontro fosse cominciato con questo libro non ne avrei letti altri, ma so per certo che avrei fatto malissimo: come tutti i veri amori il nostro è fatto di alti e bassi, di momenti di incomprensione e riavvicinamenti, e adesso aspetto con fiducia e piacere anticipato il prossimo regalo di riappacificazione da parte del mio amato. A uno che ha scritto Neve, Istanbul, Il museo dell'innocenza e Il mio nome è Rosso posso perdonare qualsiasi cosa.
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mercoledì 11 ottobre 2017
Ill professore che amava la musica: Orazio Di Mauro, Il principio della minima azione
Insolito nei contenuti e nel modo di affrontarli,
Il principio della minima azione di Orazio Di Mauro (con prefazione di Giancarlo Genta) è un romanzo breve, veloce e dinamico come una jam session tra amici.
L'autore ha insegnato a lungo fisica nelle scuole superiori, come il protagonista Michele Owen che racconta in prima persona. La trama è ingannevolmente semplice: un gruppo di maturi ex musicisti - o forse è meglio dire di ex giovani aspiranti musicisti - si dà da fare per rimettere insieme la band giovanile che, a suo tempo, ha prodotto un singolo, Sonia, che ha conosciuto un certo successo alla fine degli anni sessanta. Siamo nel 1994, la vita dei quattro componenti della band è cambiata, ma la richiesta di suonare la canzone per un motivo molto romantico, i vent'anni di matrimonio di una coppia che si è innamorata su quelle note (e guarda caso la donna si chiama proprio Sonia), li riporta improvvisamente al passato.
La narrazione si dipana su due piani: da una parte le dinamiche scatenate dall'incontro con gli amici di gioventù, il rimescolio di ricordi e rapporti non risolti, le reazioni dei familiari di Michele, ovviamente coinvolti nell'avventura; dall'altra il resoconto ironico e disincantato delle lezioni in cui l'insegnante si sforza di far capire ai suoi allievi, recalcitranti o annoiati, le leggi della fisica con esempi tratti dall'esperienza quotidiana, e l'applicazione delle medesime leggi, nella fattispecie quella del titolo, ai casi della vita. L'esperienza diretta dell'autore gli permette di tratteggiare le scene di vita scolastica con efficace e divertito realismo.
Non farò a Il principio della minima azione il torto di rivelare troppo degli scarni fatti: anche se il pregio del libro non sta nell'intreccio, c'è una traccia di mistero che non va anticipato né rivelato. Ma il piacere della lettura di questo romanzo sta nella prosa vivace e frizzante, percorsa da un'ironia che sa trasformarsi, quando ci vuole, in sarcasmo gentile (vedi la descrizione della madre dell'allievo con i jeans stracciati) o in un pudico abbandono alla nostalgia dei ricordi, dei sogni e delle passioni della gioventù. Le pagine, dense di dialoghi, sono costellate di osservazioni e riflessioni sulla società e sulla vita, ondeggiando in un continuo confronto tra realtà attuale e aspettative giovanili. Un grande pregio è che Michele Owen dà al lettore gli strumenti ma nessuna chiave, lasciandolo libero a interpretare la storia.
Il principio della minima azione di Orazio Di Mauro (con prefazione di Giancarlo Genta) è un romanzo breve, veloce e dinamico come una jam session tra amici.
L'autore ha insegnato a lungo fisica nelle scuole superiori, come il protagonista Michele Owen che racconta in prima persona. La trama è ingannevolmente semplice: un gruppo di maturi ex musicisti - o forse è meglio dire di ex giovani aspiranti musicisti - si dà da fare per rimettere insieme la band giovanile che, a suo tempo, ha prodotto un singolo, Sonia, che ha conosciuto un certo successo alla fine degli anni sessanta. Siamo nel 1994, la vita dei quattro componenti della band è cambiata, ma la richiesta di suonare la canzone per un motivo molto romantico, i vent'anni di matrimonio di una coppia che si è innamorata su quelle note (e guarda caso la donna si chiama proprio Sonia), li riporta improvvisamente al passato.
La narrazione si dipana su due piani: da una parte le dinamiche scatenate dall'incontro con gli amici di gioventù, il rimescolio di ricordi e rapporti non risolti, le reazioni dei familiari di Michele, ovviamente coinvolti nell'avventura; dall'altra il resoconto ironico e disincantato delle lezioni in cui l'insegnante si sforza di far capire ai suoi allievi, recalcitranti o annoiati, le leggi della fisica con esempi tratti dall'esperienza quotidiana, e l'applicazione delle medesime leggi, nella fattispecie quella del titolo, ai casi della vita. L'esperienza diretta dell'autore gli permette di tratteggiare le scene di vita scolastica con efficace e divertito realismo.
Non farò a Il principio della minima azione il torto di rivelare troppo degli scarni fatti: anche se il pregio del libro non sta nell'intreccio, c'è una traccia di mistero che non va anticipato né rivelato. Ma il piacere della lettura di questo romanzo sta nella prosa vivace e frizzante, percorsa da un'ironia che sa trasformarsi, quando ci vuole, in sarcasmo gentile (vedi la descrizione della madre dell'allievo con i jeans stracciati) o in un pudico abbandono alla nostalgia dei ricordi, dei sogni e delle passioni della gioventù. Le pagine, dense di dialoghi, sono costellate di osservazioni e riflessioni sulla società e sulla vita, ondeggiando in un continuo confronto tra realtà attuale e aspettative giovanili. Un grande pregio è che Michele Owen dà al lettore gli strumenti ma nessuna chiave, lasciandolo libero a interpretare la storia.
domenica 8 ottobre 2017
La dura vita delle sorelle Hillock: Beverly Jensen, Il mondo oltre la baia
Ho comprato Il mondo oltre la baia (traduzione di Massimo Ortello) incuriosita dalle informazioni sull'autrice, Beverly Jensen, di questa opera postuma, una storia familiare trattata in forma di romanzo, che si ispira alla vita della madre, Idella Hillock, e della zia, Avis, dalla loro infanzia alla morte.
La vicenda inizia nel 1916 sulle coste del Canada e si conclude negli Stati Uniti, nel 1987. E' una storia corposa anche se frammentaria, che alterna momenti appassionanti con altri abbastanza noiosi, in quanto la vita delle due sorelle non ha molto di eccezionale, soprattutto quella di Idella, indiscussa protagonista. Interessante la descrizione della vita durissima e abbastanza selvaggia che la famiglia Hillock conduce in Canada, dove la madre muore prematuramente di parto lasciando tre figli, un maschio di cui non si parla molto, e le due sorelline di sette e otto anni. Il padre coltiva patate e pesca aragoste per mantenere la famiglia, beve e cerca di consolarsi come può con la ragazza assunta per occuparsi della casa. Crescendo, Idella non ce la fa più e si trasferisce in Maine, dove lavora come cameriera finché si sposa, ha quattro figlie, per poi dedicarsi alla gestione di uno spaccio commerciale. Si intrecciano alla sua storia quella del marito e della sua famiglia (uno dei personaggi più riusciti è la futura suocera, descritta nel primo, temutissimo invito a cena della fidanzata del figlio), e di altre persone le cui vite si incrociano con quelle delle due sorelle, c'è uno stralunato funerale e una rapina quasi comica, ma insomma l'insieme non convince del tutto e forse non tiene.
Qui vorrei fare un discorso che non so quanto possa interessare chi legge questa recensione, e soprattutto mi coinvolge in prima persona come scrittrice. E' chiaro, leggendo queste 368 pagine, che si tratta di parti slegate messe insieme dai curatori per farne un romanzo compiuto, perché ci sono episodi molto dilatati (la storia della francese Maddie, la rapina, il funerale) e parti assai più riassuntive, esplicative. Ora, questa è una tecnica che ho usato in parecchi dei miei libri (Irene a mosaico, Il cuore in ballo, l'inedito La danza dei fantasmi) anzi, l'ho portato molto più in là inserendo volutamente degli scarti narrativi, degli incisi, delle pause che sicuramente sconcertano il lettore, quindi dicendo che secondo me in questo romanzo, dove dopo tutto non ci sono scarti ma solo cambiamenti di ritmo, non fuziona molto, mi do la zappa sui piedi. Però questa è stata la mia impressione generale. Un romanzo molto ben scritto, con spunti interessanti, ma un po' piatto, senz'anima. Comunque consigliabile a chi ama le storie familiari, i rapporti complessi, le vicende quotidiane, e un'ambientazione curata.
La vicenda inizia nel 1916 sulle coste del Canada e si conclude negli Stati Uniti, nel 1987. E' una storia corposa anche se frammentaria, che alterna momenti appassionanti con altri abbastanza noiosi, in quanto la vita delle due sorelle non ha molto di eccezionale, soprattutto quella di Idella, indiscussa protagonista. Interessante la descrizione della vita durissima e abbastanza selvaggia che la famiglia Hillock conduce in Canada, dove la madre muore prematuramente di parto lasciando tre figli, un maschio di cui non si parla molto, e le due sorelline di sette e otto anni. Il padre coltiva patate e pesca aragoste per mantenere la famiglia, beve e cerca di consolarsi come può con la ragazza assunta per occuparsi della casa. Crescendo, Idella non ce la fa più e si trasferisce in Maine, dove lavora come cameriera finché si sposa, ha quattro figlie, per poi dedicarsi alla gestione di uno spaccio commerciale. Si intrecciano alla sua storia quella del marito e della sua famiglia (uno dei personaggi più riusciti è la futura suocera, descritta nel primo, temutissimo invito a cena della fidanzata del figlio), e di altre persone le cui vite si incrociano con quelle delle due sorelle, c'è uno stralunato funerale e una rapina quasi comica, ma insomma l'insieme non convince del tutto e forse non tiene.
Qui vorrei fare un discorso che non so quanto possa interessare chi legge questa recensione, e soprattutto mi coinvolge in prima persona come scrittrice. E' chiaro, leggendo queste 368 pagine, che si tratta di parti slegate messe insieme dai curatori per farne un romanzo compiuto, perché ci sono episodi molto dilatati (la storia della francese Maddie, la rapina, il funerale) e parti assai più riassuntive, esplicative. Ora, questa è una tecnica che ho usato in parecchi dei miei libri (Irene a mosaico, Il cuore in ballo, l'inedito La danza dei fantasmi) anzi, l'ho portato molto più in là inserendo volutamente degli scarti narrativi, degli incisi, delle pause che sicuramente sconcertano il lettore, quindi dicendo che secondo me in questo romanzo, dove dopo tutto non ci sono scarti ma solo cambiamenti di ritmo, non fuziona molto, mi do la zappa sui piedi. Però questa è stata la mia impressione generale. Un romanzo molto ben scritto, con spunti interessanti, ma un po' piatto, senz'anima. Comunque consigliabile a chi ama le storie familiari, i rapporti complessi, le vicende quotidiane, e un'ambientazione curata.
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giovedì 5 ottobre 2017
I racconti di un Premio Nobel: Kazuo Ishiguro, Notturni
Che bella raccolta di racconti questi Notturni di Kazuo Ishiguro! Mi hanno
riconciliato con l’autore che, devo dire, con Non lasciarmi mi aveva tirato un colpo basso. Qui ci sono cinque
storie che si dipanano intorno alla musica e alla difficoltà dei rapporti tra
uomo e donna. Alla fragilità dei matrimoni. Alla differenza tra ciò che siamo e
ciò che crediamo di essere, tra ciò che vogliamo e ciò che riusciamo a essere.
Alle parole che sprechiamo nell’illusione di dirci qualcosa.
E malgrado gli argomenti sono anche molto spassose, il tono è leggero e distaccato, gli ambienti tratteggiati in modo vivido, i dialoghi naturali. Pensare che Ishiguro è uno dei pochi autori che sia riuscito a farmi lacrimare, per di più in luogo pubblico, cosa di cui mi sono vergognata caldamente e che non gli perdono tanto. Per la cronaca si trattava del finale di Quel che resta del giorno, io ero seduta in un caffè all’aperto di Diafani, nell’isola greca di Karpathos, c’era parecchia gente in giro e gli occhiali neri non sono bastati a nascondere le lacrime che mi gocciolavano giù.
Altri suoi libri, a parte il già citato Non lasciarmi sul quale mi astengo, non mi hanno colpita particolarmente e me li ricordo poco.
Nel primo racconto, Crooner, un musicista di un’orchestra da caffè in Piazza San Marco a Venezia incontra un famoso cantante giunto a una svolta nella sua carriera, e impara che certe volte nemmeno l’amore basta a tenere insieme due persone. Come rain or come shine è l’esilarante e malinconica fotografia di un matrimonio che si barcamena tra disperazione e incapacità di vedere più in là del proprio naso, e di un’amicizia altrettanto miope, rassegnata e bislacca. In Malvern Hills troviamo di nuovo una coppia di sposi vista attraverso gli occhi di un musicista distratto e egocentrico, che preferirebbe molto non sapere niente di quello che è costretto a ascoltare. Notturno è la più bizzarra, e anche la mia preferita: un musicista abbandonato dalla moglie si sottopone a un’operazione assurda, trascorre la convalescenza in un albergo di gran lusso, incontra un’attrice squinternata ma il suo testardo rifiuto di accettare la realtà disperde quel po’ di calore che si era creato tra di loro. In Violoncellisti un suonatore da caffè racconta la storia di un’altra stralunata coppia di musicisti, un giovane ungherese e una matura americana, che nasconde una sorpresa di quelle che fanno ridere e lasciano un po’ d’amaro nel cuore.
Bei racconti, ripeto, capaci di mantenersi sul filo del rasoio di una narrazione distaccata eppure di sottile pathos. Bella traduzione di Susanna Basso.
(pubblicato su questo blog il 7/3/12)
E malgrado gli argomenti sono anche molto spassose, il tono è leggero e distaccato, gli ambienti tratteggiati in modo vivido, i dialoghi naturali. Pensare che Ishiguro è uno dei pochi autori che sia riuscito a farmi lacrimare, per di più in luogo pubblico, cosa di cui mi sono vergognata caldamente e che non gli perdono tanto. Per la cronaca si trattava del finale di Quel che resta del giorno, io ero seduta in un caffè all’aperto di Diafani, nell’isola greca di Karpathos, c’era parecchia gente in giro e gli occhiali neri non sono bastati a nascondere le lacrime che mi gocciolavano giù.
Altri suoi libri, a parte il già citato Non lasciarmi sul quale mi astengo, non mi hanno colpita particolarmente e me li ricordo poco.
Nel primo racconto, Crooner, un musicista di un’orchestra da caffè in Piazza San Marco a Venezia incontra un famoso cantante giunto a una svolta nella sua carriera, e impara che certe volte nemmeno l’amore basta a tenere insieme due persone. Come rain or come shine è l’esilarante e malinconica fotografia di un matrimonio che si barcamena tra disperazione e incapacità di vedere più in là del proprio naso, e di un’amicizia altrettanto miope, rassegnata e bislacca. In Malvern Hills troviamo di nuovo una coppia di sposi vista attraverso gli occhi di un musicista distratto e egocentrico, che preferirebbe molto non sapere niente di quello che è costretto a ascoltare. Notturno è la più bizzarra, e anche la mia preferita: un musicista abbandonato dalla moglie si sottopone a un’operazione assurda, trascorre la convalescenza in un albergo di gran lusso, incontra un’attrice squinternata ma il suo testardo rifiuto di accettare la realtà disperde quel po’ di calore che si era creato tra di loro. In Violoncellisti un suonatore da caffè racconta la storia di un’altra stralunata coppia di musicisti, un giovane ungherese e una matura americana, che nasconde una sorpresa di quelle che fanno ridere e lasciano un po’ d’amaro nel cuore.
Bei racconti, ripeto, capaci di mantenersi sul filo del rasoio di una narrazione distaccata eppure di sottile pathos. Bella traduzione di Susanna Basso.
(pubblicato su questo blog il 7/3/12)
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Premio Nobel per la Letteratura 2017,
racconti
Un mondo da scoprire: Mia Alvar, Famiglie ombra
Di tanto in tanto ci si imbatte in uno di quei libri che ti avvolgono con le loro parole, ti portano in un mondo nuovo e ti aprono orizzonti sconosciuti. Mi è accaduto con Famiglie ombra di Mia Alvar, scrittrice filippina nata a Manila, cresciuta in Bahrein, con studi a Harvard e alla Columbia, che ora vive a New York.
Sono racconti bellissimi, precisi e vividi, che spaziano su una vita, o seguono i personaggi in lunghi periodi. Non sono facili perché richiedono attenzione e un minimo di conoscenza della storia delle Filippine, anzi, molto meglio, costringono a andare a cercare notizie su personaggi per noi praticamente sconosciuti. Per esempio, io che sono ignorante, ho letto tutto un racconto senza rendermi conto che la protagonista era Corazon, Cory, Aquino, la discussa undicesima presidente delle Filippine, narrata nella sua quotidianità di donna, moglie e madre prima che l'uccisione del marito la proiettasse nella politica in prima persona. Complessa è anche la costruzione sapiente che alterna di continuo i piani temporali, però segnalati chiaramente con le date. Mia Alvar sa disegnare con coinvolgente vivezza personaggi e luoghi che toccano la diaspora filippina. Le storie si svolgono a Manila, nel Bahrein, a New York, e le protagoniste sono donne che lavorano o stanno a casa ma comunque si arrabattano e hanno un vivo senso della comunità e dell'identità di provenienza, anche quando non riescono a dimenticare le differenze sociali.
I personaggi sono indimenticabili. Il ragazzino senza gambe e con una madre discussa che subisce crudelissime persecuzioni dai compagni di scuola, la casalinga Cory Aquino che pensa a tutti tranne che a se stessa nella cornice estranea di un'università degli Stati Uniti vissuta in un quartiere strettamente filippino, l'infermiera moglie del giornalista in carcere di Milagros, il più corposo dei racconti, le ricche mogli dei tecnici emigrati in Bahrein che si illudono di essere democratiche invitando le compatriote lavoratrici una volta la settimana nelle loro case lussuose, e riescono a tenere in piedi la finzione finché una delle beneficiate non scompagina le carte, la quarantenne incolore e senza storia che si imbatte prima un amore inaspettato poi nella più crudele e ingiusta delle sorprese, sono tutti profondi, sfaccettati e dotati di una vita che va al di là delle pagine loro dedicate.
Si sente che Mia Alvar è una che ha letto tutti gli scrittori del momento, ha frequentato le giuste scuole ma per fortuna ha tra le mani un materiale talmente nuovo e interessante che la salva dai cliché letterari statunitensi contemporanei, sovente insopportabili e sempre stucchevoli. Ma è una grande narratrice che sa come attirare e rendere accoglienti le sue pagine e ipnotiche le storie. Spero che riesca a continuare così (anche se il racconto delle due torri, con il fastidioso vezzo della narrazione in seconda persona, è quello che mi è piaciuto di meno e fa un po' temere): questi sono racconti notevolissimi, totalmente riusciti, pieni di cose da dire, insomma necessari.
Mia Alvar è una scrittrice che seguirò volentieri e cui auguro il successo che merita (e ha già avuto negli Stati Uniti e altrove) anche in Italia, dove i filippini sono molti ma tutto sommato poco visibili e poco conosciuti. E grazie, ovviamente, a Racconti Edizioni per averla pubblicata anche qui, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Finirà che dovrò aprire un secondo blog dedicato esclusivamente a questa casa editrice, già sono tante le recensioni che ne ho scritto e a vedere le prossime uscite ne prevedo una raffica in tempi brevi...
Sono racconti bellissimi, precisi e vividi, che spaziano su una vita, o seguono i personaggi in lunghi periodi. Non sono facili perché richiedono attenzione e un minimo di conoscenza della storia delle Filippine, anzi, molto meglio, costringono a andare a cercare notizie su personaggi per noi praticamente sconosciuti. Per esempio, io che sono ignorante, ho letto tutto un racconto senza rendermi conto che la protagonista era Corazon, Cory, Aquino, la discussa undicesima presidente delle Filippine, narrata nella sua quotidianità di donna, moglie e madre prima che l'uccisione del marito la proiettasse nella politica in prima persona. Complessa è anche la costruzione sapiente che alterna di continuo i piani temporali, però segnalati chiaramente con le date. Mia Alvar sa disegnare con coinvolgente vivezza personaggi e luoghi che toccano la diaspora filippina. Le storie si svolgono a Manila, nel Bahrein, a New York, e le protagoniste sono donne che lavorano o stanno a casa ma comunque si arrabattano e hanno un vivo senso della comunità e dell'identità di provenienza, anche quando non riescono a dimenticare le differenze sociali.
I personaggi sono indimenticabili. Il ragazzino senza gambe e con una madre discussa che subisce crudelissime persecuzioni dai compagni di scuola, la casalinga Cory Aquino che pensa a tutti tranne che a se stessa nella cornice estranea di un'università degli Stati Uniti vissuta in un quartiere strettamente filippino, l'infermiera moglie del giornalista in carcere di Milagros, il più corposo dei racconti, le ricche mogli dei tecnici emigrati in Bahrein che si illudono di essere democratiche invitando le compatriote lavoratrici una volta la settimana nelle loro case lussuose, e riescono a tenere in piedi la finzione finché una delle beneficiate non scompagina le carte, la quarantenne incolore e senza storia che si imbatte prima un amore inaspettato poi nella più crudele e ingiusta delle sorprese, sono tutti profondi, sfaccettati e dotati di una vita che va al di là delle pagine loro dedicate.
Si sente che Mia Alvar è una che ha letto tutti gli scrittori del momento, ha frequentato le giuste scuole ma per fortuna ha tra le mani un materiale talmente nuovo e interessante che la salva dai cliché letterari statunitensi contemporanei, sovente insopportabili e sempre stucchevoli. Ma è una grande narratrice che sa come attirare e rendere accoglienti le sue pagine e ipnotiche le storie. Spero che riesca a continuare così (anche se il racconto delle due torri, con il fastidioso vezzo della narrazione in seconda persona, è quello che mi è piaciuto di meno e fa un po' temere): questi sono racconti notevolissimi, totalmente riusciti, pieni di cose da dire, insomma necessari.
Mia Alvar è una scrittrice che seguirò volentieri e cui auguro il successo che merita (e ha già avuto negli Stati Uniti e altrove) anche in Italia, dove i filippini sono molti ma tutto sommato poco visibili e poco conosciuti. E grazie, ovviamente, a Racconti Edizioni per averla pubblicata anche qui, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Finirà che dovrò aprire un secondo blog dedicato esclusivamente a questa casa editrice, già sono tante le recensioni che ne ho scritto e a vedere le prossime uscite ne prevedo una raffica in tempi brevi...
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