domenica 24 novembre 2024

La bambina delle masche di Antonio Graziosi: masche e montanari, un esempio di convivenza riuscita

 Antonio Graziosi | Global Labor Organization (GLO) 

Ho incontrato questo libro ai Portici di carta fortuitamente, attirata dal titolo (ho un debole per le masche!) e ho conosciuto l'autore. Incontro molto fortunato perché "La bambina delle masche - Cinquecento anni nella grande valle" si è rivelata una lettura gradevolissima e molto intrigante. Ambientato nel villaggio montano di Vaures, all'entrata di una grande valle circondata da alte cime, alterna una descrizione precisa e suggestiva dei luoghi a spunti storici che si dipanano lungo cinquecento anni, seguendo da vicino le vicende della famiglia Richelmy, dal capostipite Genesio, fino ai giorni nostri con Vittoria, che rappresenta il punto d'arrivo dei destini della famiglia. Il tutto attraverso le vicissitudini militari, e politiche che malgrado l'isolamento della valle, strategicamente disposta tra Liguria, Piemonte e Francia, (la minaccia costituita prima dai Saraceni poi dagli altri invasori, ultimi dei quali i tedeschi) sconvolgono la vita dei contadini e dei pastori. 

Ora, detto così sembra una trama scontata e serissima, ma quello che proprio mi ha incantata è la geniale maestria con cui l'autore intreccia vicende storiche, umane e magiche, rendendo molto pressante il piacere di continuare la lettura. Sì, perché nella parte alta della valle vive una numerosa comunità di masche (in piemontese, streghe o figure fatate) che non disdegnano di intervenire nelle vicende umane, anzi, nei casi particolarmente gravi, come la bambina nata da un rapporto incestuoso tra fratelli, se ne fanno spesso carico, di modo che l'interazione tra le due comunità è vivace e fruttuosa. E quando ai giorni nostri i paesini della valle, come in tutte le montagne intorno, si spopolano, la vecchia casa dei Richelmy continua a costituire un polo di attrazione che permette il ricongiungimento e la fusione tra le due comunità, quella umana e quella magica.

 Ora questa non è una vera recensione ma solo un consiglio di lettura molto convinto, e non riassumo le vicende individuali dei vari personaggi, peraltro molto ben delineati, lasciando al  lettore il piacere di scoprirle. Non è difficile farsi sedurre dal "realismo magico" di Antonio Graziosi, mai eccessivo ma profondo e oltremodo attraente, e dalla sua prosa chiara e elegante. Il fascino delle valli, poi, da solo giustifica l'abbandono al mistero e alla magia.

E nel caso vi interessasse, su Amazon trovate il mio "Il gioco della masca".










martedì 19 novembre 2024

Un libro un po' diverso dal solito, che vale veramente la pena leggere: Luisa Ramasso, La ragazza che non parlava

 


In questo periodo sono pigrissima per cui continuo con le segnalazioni brevi, e comincio da un romanzo autobiografico molto particolare, molto interessante e pieno di umanità.

Luisa Ramasso racconta la sua vita con grande consapevolezza e semplicità, senza mai cadere nel vittimismo o nell'eccesso di psicologismo. Parla di sé, perché di questo si tratta, ma sempre con gli occhi ben spalancati sul mondo. Nata nel 1960 in una famiglia attiva e compatta, con una sorella maggiore che la segue da vicino e la sostiene, Luisa soffre fin piccola di alcuni sintomi molto debilitanti - mutismo volontario, stereotipie motorie, crisi di angoscia e di pianto, che ora fanno pensare subito all'autismo, ma allora non erano ancora così ben note né riconoscibili come oggi. Solo quando raggiunse i sedici anni Luisa ricevette una diagnosi precisa che le permise poi di fare scelte mirate. 

 Ragazzina notevolmente intelligente e con gli occhi ben aperti sulla realtà in cui si muoveva, la giovane Luisa era molto attenta alle amicizie, aveva idee chiare (anche se pronte a cambiare, come succede a qualsiasi adolescente) su quello che le interessava e quello che avrebbe voluto fare nella vita, al tipo di studi eccetera. I vari momenti della sua esistenza, che nell'infanzia e nella prima giovinezza è semplice, si svolge tra scuola, famiglia, Torino e Rubiana ma poi si allarga negli interessi e nelle attività, sono narrati in modo chiaro, leggero e senza giudizi, prendendo atto dei fatti con quella che pare una serena accettazione. Naturalmente fu seguita da medici e psicologi, e a sedici anni fu riconosciuto il suo autismo. I genitori premurosi e protettivi le offrivano tutta l'attenzione possibile, e la sorella Silvia le era sempre vicina con grandissimo affetto. Crescendo anche i suoi rapporti e le sue attività si ampliarono e si moltiplicarono come per qualunque persona, comprendendo il lavoro (dapprima nella tipografia del padre, poi nella casa editrice Neos fondata dalla sorella), la scoperta della musica e della scrittura, la politica, gli amori, gli incontri, e ci furono anche momenti difficili. Nell'età adulta, il volontariato, la frequentazione di gruppi religiosi e figure carismatiche, la morte dei genitori, i viaggi e i nuovi amici si susseguono fino a oggi.  

Tutta la narrazione riesce a essere accattivante anche se non c'è una trama vera e propria, la voce di Luisa Ramasso narra la sua vita come una serie di episodi, con tono calmo e molta sincerità. Il testo è diviso in brevi capitoli, ognuno con un titolo che ne annuncia e riassume il significato. L'insieme comunica alcune sensazioni nettissime: sincerità coscientemente perseguita, padronanza della scrittura, una voce narrativa robusta e interessante.

Ecco, questa direi che è la caratteristica principale di "La ragazza che non parlava", quello per cui ne consiglio vivamente la lettura: è un testo insolito, fuori dai soliti schemi narrativi, e molto stimolante, sia per la tematica coinvolgente che per la grande perizia con cui è stato concepito e scritto. Certo non è adatto a chi spera di trovare in ogni libro un nuovo Montalbano o un amore travolgente, ma chi legge per scoprire qualcosa che gli apra orizzonti sconosciuti ne sarà molto soddisfatto.   

    

venerdì 8 novembre 2024

I quaranta giorni del Mussa Dagh: qui si parla di guerra, eroismo, sterminio, deportazione, morte, ma anche di amore, figli, speranza.

 



Una lettura molto impegnativa ma di grandissimo interesse. Le 912 pagine di questo romanzo storico, uscito nel 1935, mi hanno acchiappata e trascinata malgrado non sia un'appassionata di storia. Certo, per apprezzarlo è meglio andarsi a leggere qualcosa sul periodo (e sulla geografia di quell'angolo di Mediterraneo tra Turchia e Siria in cui si svolgono le vicende). Per un caso involontario, il periodo è più o meno lo stesso di "High Albania", il resoconto di viaggio di Edith Durham che tanto mi è piaciuto (1908 "High Albania", 1915 questo), ovverossia gli anni in cui il movimento dei Giovani Turchi e la situazione internazionale portarono alla dissoluzione dell'impero ottomano (1922).  

L'argomento è decisamente tragico: in seguito alla presa di potere dei Giovani Turchi, movimento nazionalista e laico, nel 1914 e 1915 ci furono deportazioni e stermini ai danni degli armeni che risiedevano in Turchia, in quello che è definito "genocidio armeno". Gli Armeni risiedevano per lo più nella parte orientale dell'Anatolia (ma mi raccomando, non accontentatevi di queste risicatissime e imprecise notiziole, l'argomento è molto complicato) e qui le persecuzioni coinvolsero tutta la popolazione, L'ordine del governo centrale era di abbandonare tutti i beni mobili e immobili, e dirigersi verso il deserto mesopotamico, dove i deportati morirono di stenti e malattie o furono massacrati. La comunità armena, di religione cristiana, era parecchio ricca, v'erano mercanti e imprenditori, e i residenti turchi potevano appropriarsi di tutto quello che si erano lasciati alle spalle. 

E qui comincia la vicenda del romanzo che rispecchia une pisodio reale: gli abitanti di sei villaggi alla base della montagna del Mussa Dagh, sul golfo di Alessandretta, decisero di ribellarsi all’ordine di prepararsi per la deportazione. Sotto il comando e l'organizzazione di un giovane borghese, nativo del posto ma educato e riesedente a Parigi, sposato con una francese, si rifugiarono sulle pendici del monte dal 21 luglio al 12 settembre 1915, con i viveri che erano riusciti a raccogliere e le armi. L’esercito ottomano tentò più volte di sconfiggere la resistenza della popolazione asserragliatasi sul monte, senza successo. La capacità di organizzazione e le energie impiegate nell'impresa furo eccezionali, ma alla fine i resistenti avrebbero dovuto subire la stessa sorte dei compatrioti, se non fossero riusciti a sfruttare la posizione in vista del mare per attirare l’attenzione delle navi francesi di passaggio nel golfo; in questo modo, dopo una breve trattativa, tutta la popolazione venne imbarcata e portata in un campo profughi a Port Said, in Egitto, 

Questa è la parte storica, ma il fascino del romanzo sta nell'incredibile capacità di Franz Werfel di far muovere una folla di personaggi che vanno dai mendicanti che vivono attorno ai cimiteri ai massimi gradi della politica turca, dal protagonista Gabriel Bagradian alla moglie europea che si trova improvvisamente immersa in una tragedia di cui non può comprendere il senso né la portata, i borghesi acculturati e i contadini analfabeti, i militari, tutti travolti dalla tragedia, divisi nel modo di pensare e di vivere ma accomunati da questo folle progetto di opporsi alla strapotenza ottomana (ormai in gravissima crisi peraltro, e molto prossima alla fine). Nei quaranta giorni della permanenza sul Mussa Dagh innumerevoli sono i drammi che si svolgono e ci vengono narrati, alcuni strettamente personali, ma tutti attorcigliati e esasperati dalla situazione estrema. I personaggi sono indimenticabili, accuratamente creati e descritti, molto credibili. Il romanzo è veramente molto lungo, e forse alcune parti in cui vengono riprodotti i discorsi relativi alle strategie da porre in atto e alle diverse posizioni politiche in discussione richiedono un'attenzione particolare, ma il risultato è magnifico e appassionante, non si può abbandonare. Un romanzo che consiglio sinceramente a tutti i veri lettori, vi aprirà un mondo poco conosciuto e rappresentato in maniera perfetta.  

     

domenica 8 settembre 2024

Una lettura perfetta: Edith Durham, High Albania


Sono in giro, tra tempo risicato e collegamenti internet precari non riesco a scrivere una vera e propria recensione ma devo assolutamente fare una segnalazione del libro che ho letto con passione e interesse crescenti in queste ultime settimane. Tra l'altro, mi piacerebbe che chi legge potesse condividere la vista che ho dal balcone da cui scrivo: a Samotracia, campagna sterminata, ulivi, fichi, gelsi, pioppi, cipressi e ginepri, albizie iulibrissin, acacie, in lontananza querce e la mole imponente del monte Fengari, quello che fa ombra al Santuario dei Grandi Dei e ai loro cupi misteri, persino un paio di palmette (immigrate naturalmente), un numero imprecisato di gatti scheletrici sempre in movimento, la chiesetta bianca del cimitero su una collina, e l'imperdibile audio che l'accompagna: un vastissimo silenzio interrotto da qualche tortora (per fortuna poche e lontane), moltissimi chicchirichì di galli, molti coccodè di galline, frequenti “malaka” dai giovani poliziotti che occupano due stanze nel cortile, ogni tanto chiacchiere a alta voce con fragorosi scoppi di risa, molto gradevoli, e soprattutto verso il tramonto almeno mezz’ora di belati e campanelle quando le pecore tornano dal pascolo e passano vicinissime, ma nascoste dalla vegetazione. 

In questo luogo così bello e pieno di sorprese (le nuvole se ne inventano una nuova in continuazione) ho letto “High Albania” di Edith Durham, scrittrice inglese (1864-1943) di cui non sapevo niente e non avevo letto niente. Ora, prima di andare avanti devo chiarire che non si tratta di un libro di narrativa ma del resoconto di un viaggio compiuto nel 1908, quando tra l’altro il movimento dei Giovani Turchi ottenne dal Sultano il ripristino della costituzione del 1876, dando inizio alla rivoluzione che abbattè l’impero ottomano. Ma “High Albania” non tratta questioni politiche né storiche, narra con grandissima partecipazione e velocità quello che l’autrice vide durante la sua esperienza di donna occidentale che viaggiava sola in territori davvero inusuali.

Ora è passata poco più di una decina di giorni e mi ritrovo a scrivere su un altro balcone, davanti a una foresta di pali della luce dietro i quali un mare azzurro e liscio, solcato da un traffico intenso di traghetti (silenziosissimi) soffre con me per il rumore continuo e insopportabile di auto, bus, camion e fragorosissime moto che ci separano scorrendo senza sosta. Svanita la poesia del silenzio interrotto solo dalle voci degli animali e delle nuvole sul Saos. Va be’, il balcone è comodo e il wi fi nel complesso tiene. Ma a parte queste notazioni personali, resta il fatto che penso che “High Albania” sia un libro da leggere assolutamente se siete curiosi del mondo e delle sue vicende meno conosciute, vicine a noi ma lontane anni luce dagli argomenti di moda. Edith Durham (Londra 1864-1943; cercate notizie su Wikipedia se avete fretta, c’è anche una foto, ma si reperisce molto altro in rete) intraprese questo viaggio nell’alta Albania, cioè nelle montagne che ora la separano da Montenegro, Kossovo e Macedonia del Nord, per il suo piacere, a spese sue, spostandosi a piedi e dov’era possibile a cavallo, accompagnata da una guida locale, arrampicandosi su montagne scoscese e guadando fiumi, usufruendo dell’accoglientissima ospitalità di preti e frati, di notabili o di privati cittadini, sempre pronti a dare ricetto ai viaggiatori secondo le proprie possibilità. Tutti accorrevano per vederla, toccarla, se riuscivano la coprivano di domande (Edith Durham parlava serbo e Marko, la sua guida, le faceva da interprete per le altre lingue locali), quando c’erano autorità di qualsiasi tipo facevano degli incontri in cui si scambiavano informazioni e stupori. È incredibile l’interesse che suscita la situazione di questi territori che ci appaiono più esotici dell’Africa (e ancora oggi non credo siano notissimi). Divisi in tribù, spaccati tra cattolicesimo, ortodossia e islam, facevano parte dell’impero ottomano che odiavano, ma ancora di più odiavano gli slavi, i Serbi, non conoscevano autorità né un governo centrale e ubbidivano solo al Kanun, la legge di Lëke Dukagjini. L’unico legame riconosciuto era quello familiare (nel libro non si parla mai di villaggi, ma solo di case), i rapporti tra uomini erano diretti dall’onore e dal “sangue”,  faide crudelissime e rigidissime che comportavano ammazzamenti senza pietà, le donne erano merci di scambio di proprietà strettamente maschile, venivano talvolta vendute anche prima di nascere, cedute o barattate a seconda delle esigenze familiari. 

In questo mondo incredibile Edith Durham ci fa fare una full immersion con estrema chiarezza e onestà, senza mai dare giudizi né dimostrare emozioni o cedimenti sentimentali, con occhi spalancati e attentissimi ai particolari, tenendosi ai margini come persona e tenendo sempre viva l’attenzione del lettore. Io mi ci sono appassionata malgrado l’abbia letto in condizioni non proprio semplici, e mi è dispiaciuto moltissimo quando l’ho finito. 

Se volete leggerlo in italiano, il titolo è “Nella terra del passato vivente”, Salento Books 2016, in versione cartacea. 

sabato 27 luglio 2024

Proverbi con la coda


 

Fa caldo e ho il cervello in ferie anticipate. Leggo poco e male, nessuna voglia di scrivere recensioni. Così mi diletto a scrivere cazzate. 

Raccogliere cestini

è un hobby da bambini

Raccogliere bicchieri

va bene per i camerieri.

* * * 

Raccogliere tempesta quando si semina vento

è pur sempre un aumento 

del capitale iniziale.

* * *

Rosso di sera bel tempo si spera,

tranne quando si è vicini 

a un bosco di pini.

* * *

Se un bel tacer non fu mai scritto, 

sarà per essere pubblicato 

che Salvini non sta mai zitto?

* * *

Non serve piangere sul latte versato, 

per terra è già bagnato

e se nei dintorni c'è un gatto 

si lecca i baffi soddisfatto. 

* * *

Se in amor vince chi fugge,

di certo un fuorilegge 

farà strage di cuor. 

* * *





domenica 16 giugno 2024

Non fatevi ingannare!!!

 

 

La ragazza in tailleur rosso fuoco si fermò di colpo. Parve riflettere un attimo poi mollò uno schiaffone sulla faccia del giovanotto in completo nero e camicia bianca. Sbam, da destra a sinistra, sbam, da sinistra a destra con il dorso della mano, sbam, sbam, sbam, cinque cattive sberle, senza sforzo perché erano alti uguali. Solo quando la sua mano si mosse per la sesta volta lui si decise a afferrarle il polso. Qualche passante allarmato già li circondava. Ma l’uomo si limitò a voltare le spalle e andarsene, incurante del sangue che gli colava sulla guancia ferita dall’anello di lei. La ragazza frugò nella piccolissima tracolla di vernice, estrasse un mazzo di chiavi e marciò via sui tacchi alti senza neanche lanciarsi un’occhiata attorno.

No, non fatevi ingannare dalla copertina molto rosa, dal cuore, dall’amore, dall’autrice femmina: non è un libro sentimentale né delicato, né dolce né ottimista né lieto. È un libro che racconta alcune delle possibili incarnazioni dell’amore, se vogliamo chiamarlo così. Che parla dell’infinita varietà delle vicende umane, con l’unica speranza di intrattenere chi lo legge, come un racconto davanti al caminetto acceso. Soprattutto non propone messaggi né analisi né denunce. Ma se vogliamo solo contarcela un po’, forse questo libro vi potrà piacere.

domenica 12 maggio 2024

Amori senza rete: il mio ultimo libro per ricordarci che l'amore è un esercizio acrobatico

 


“Quando si parla di amore, tutti quanti sorridono e annuiscono, sicuri di conoscere benissimo l’argomento. Ma l’amore, precisamente, che cos’è? Per ognuno ha un significato diverso, sovente opposto e incompatibile. E così tutti continuiamo a sognare, scrivere, cantare, dipingere, inventare storie sull’amore: è un argomento infinito, di cui non ci si stanca mai.

In questi racconti ci sono alcuni esempi di quello che può essere l’amore, e di come lo si può vivere. Tra adulti o tra adolescenti, tra lacrime e disperazione o nell’esaltazione della felicità, nella sincerità più spietata o nell’inganno affettuoso, usandolo per riscuotere la propria orgogliosa identità o abbandonandosi al culto dei ricordi. Quel che è certo è che si tratta di un sentimento anarchico e irrazionale, di cui non riusciremo mai a ridurre la molteplicità, e che se ne va sovente a braccetto con il suo spaventoso alter ego, l’abbandono. Forse in qualcuna di queste pagine ci si può riconoscere con un sorriso o con una smorfia. Ma lui, l’amore, continuerà a illuderci e farsi beffe di noi, regalandoci ogni tanto cinque minuti di felicità.”

 Questa è la quarta di copertina della mia ultima produzione, che la mia magica e incomparabile editrice, Elisa Labanca, Buckfast Edizioni, mi ha fatto trovare ancora caldo al Salone del Libro. E' una raccolta di sedici racconti che si aggirano attorno all'argomento annunciato dal titolo, ma ho paura che deluderà chi cerca baci, carezze, sposalizi e lieto fine... l'amore è più complicato di così. E magari qualcuno troverà qualche parte un po' forte, ma insomma, la conclusione è sempre la stessa, lo sappiamo tutti che l'amore è lacrime, sangue, dolore, sesso, fa sorridere e sognare ma anche piangere e gridare. Va be', io sono felicissima di vederlo accanto ai suoi fratelli (è il quattordicesimo, a parte le ristampe) e spero che a qualcuno piacerà. Potete trovarlo al Salone del Libro, allo stand della casa editrice Buckfast, e naturalmente in libreria. Non mi resta che augurargli di piacere molto a chi lo legge. A proposito del titolo: senza rete si riferisce al fatto che l'amore è un rischio contro il quale non c'è difesa che tenga, ma anche che qui non si parla quasi mai di internet, l'amore non ha bisogno del digitale per nascere, crescere e diffondersi, lo riconoscono tutti!