lunedì 30 maggio 2016

Un bel libro in un bel posto: Margherita Giacobino, Ritratto di famiglia con bambina grassa a Rocca Canavese

 Ieri, incontro molto piacevole con Margherita Giacobino nella bellissima cappella di Santa Croce di Rocca Canavese, per parlare del suo romanzo Ritratto di famiglia con bambina grassa. Un grazie di cuore a Maurizia Vittone e tutto il Comitato Amici di Santa Croce, al pubblico attento e più che partecipe (menzione speciale a Margherita, mesi quasi sei, attenta e sorridente per tutto il pomeriggio), e anche alla pioggia che si è presa una pausa al momento giusto.
Parlare di un libro nei luoghi cui è legato è davvero emozionante. E ancora di più lo è se si sente che il pubblico è coinvolto al punto da mettersi in gioco, da condividere la propria parte di vita e di esperienza legata ai luoghi, ai tempi e alle parole di Margherita Giacobino che hanno saputo ridare vita a un mondo e ricostruirlo prima dentro di sé per poi consegnarlo agli altri, i lettori, con amore, rispetto e potenza immaginativa.
Un bel pomeriggio in un bel posto per parlare di un bel libro, c'è un modo migliore di passare la domenica?

lunedì 23 maggio 2016

Un bell'incontro al Salone del Libro: Istos Edizioni - Felici Editore

Andando in giro per il Salone del Libro si possono fare begli incontri e preziose scoperte. Succede in tutte le edizioni, e anche quest'anno la scoperta è stata la Istos Edizioni, nella persona del suo simpatico editore, Carlo Scorrano. Istos Edizioni, quando non va in giro per saloni, se ne sta a Pisa. Nata nel 2014, dopo un anno si è intrecciata con la Felici Editore, storica casa editrice con un passato di più cinquant'anni. Istos Edizioni è il marchio scelto per la narrativa contemporanea, italiana e straniera: gialli, storie di vita, avventure, viaggi, e  dedicato ai bambini dai tre fino ai quattordici anni con la collana Libri Volanti. Felici Editore identifica il settore divulgativo scientifico nel campo medico, della pedagogia e psicologia, e dell’arte, e approfondisce il legame con il territorio.

Io ho letto Delitti dal futuro, gradevolissima antologia di nove racconti a cura di Gian Filippo Pizzo che mescola il mistero e la ricerca di una soluzione con l'ambientazione in un futuro mai troppo lontano né troppo diverso dall'oggi, ma sempre caratterizzato da qualche scarto scientifico che cambia le carte in tavola. Così appassiona e incuriosisce l'ucronia di Maxima culpa di Andrea Carlo Cappi, in cui il giovane Antonio Stanislawsky si trova, non per scelta, ad arruolarsi nell'esercito vaticano impegnato a difendere i pozzi petroliferi della Vatican Oil Company nei Territori Liberati dell'Iraq, mentre in Italia l'ordine pubblico e privato è assicurato dall'OVRA in sostegno del governo alleato del Vaticano... In questo mondo sbilenco e inquietante Antonio si trova a dipanare un mistero complesso con abilità, per la nostra completa soddisfazione. In Ambiguità di Sefano Carducci e Alessandro Fambrini si affrontano le nuove possibilità della manipolazione genetica, mentre in La tavola della legge di Michele Piccolino all'avvocato Alberto Scerbo viene affidato un cliente particolare che lo mette di fronte a un paradosso non solo legale. Giovanni Burgio con Il profumo del peccato mette in campo un'abilità investigativa davvero insolita in un inquietante scenario di scambio di identità, e Gabriele Falcioni e Francesca Gallo in Un distintivo in rosso portano alle estreme conseguenze i tagli alla forza lavoro, fino a arrivare alla fabbrica che ha bisogno solo di un direttore e una segretaria (con le unghie lunghe). Insomma non si tratta di hard science fiction, niente astronavi né pianeti da conquistare, ma un futuro tanto più inquietante in quanto assomiglia troppo al presente. Tutti gli autori se la cavano brillantemente e la lettura di Delitti dal futuro è veloce e appassionante. Gli autori: Vincenzo Bosica, Giovanni Burgio, Andrea Carlo Cappi, Stefano Carducci, Gabriele Falcioni, Alessandro Fambrini, Antonino Fazio, Francesca Garello, Michele Piccolino, Pierfrancesco Prosperi, Franco Ricciardiello. 

L'altra lettura sorprendente e davvero ottima è Galileo! Un dialogo impossibile, testi di Nadia Ioli Pierazzini, Francesca Riccioni e Vittoria Balandi, con disegni di Tuono Pettinato (al secolo Andrea Paggiaro). Nomi illustri e molto qualificati se si pensa che Nadia Ioli Pierazzini, oltre alle altre qualifiche, ha ideato la Ludoteca Scientifica, una collezione di giochi e esperimenti interattivi. Sì, perché Galileo! è un testo a fumetti in cui sono rappresentati e spiegati temi come La gravità e il piano inclinato, Il galleggiamento e il termometro di Galileo, Il canocchiale e le osservazioni del cielo, Il pendolo e la misura del tempo, La riflessione e la diffusione della luce, Mille modi di far suoni e voci, con disegni allegri e dinamici che illustrano agilmente gli esempi chiari, in cui si alterna la voce di Galileo a quella di altri personaggi tra cui alcuni molto illustri, con felici e spassosi anacronismi. A fronte delle pagine illustrate ci sono brani tratti dalle opere di Galileo relative alle osservazioni scientifiche in oggetto. Alla fine c'è anche la sorpresa dello spiritoso poemetto satirico Contro il portar la toga in cui Galileo Galilei si scaglia contro i "dottori" che lo criticano, e conclude che gli uomini son fatto com'i fiaschi. Un libro bello, molto bello, adatto per spiegare in modo divertente ai bambini concetti complessi legandoli alla loro esperienza, ma adattissimo anche per adulti curiosi e magari intimoriti dai testi scientifici troppo ponderosi. 



giovedì 19 maggio 2016

Il tempo, le parole e la vita: L'Istituto per la Regolazione degli Orologi, di Tanpinar

Certe volte, più che scrivere di un libro piacerebbe parlarne con qualcuno, confrontare opinioni e interpretazioni per capire meglio. E' quello che sento a proposito di L'Istituto per la Regolazione degli Orologi di Ahmet Hamdi Tanpinar (Istanbul, 1901 - 1962, in arte Tanpinar). Pubblicato a puntate nel 1954 e in volume postumo nel 1961, è uscito nel 2014 da Einaudi per la prima volta in italiano con la traduzione di Fabio Salomoni e una prefazione di Andrea Bajani, su indicazione di Orhan Pamuk che considera Tanpinar la figura più importante della letteratura turca moderna.

Il romanzo, che ho letto molto volentieri soprattutto dopo l'inizio un po' difficile, è di quelli cui si ritorna con piacere e da cui ci si stacca solo per dovere. Narra la storia di Hayri Irdal, io narrante del tutto inaffidabile, che inizia la sua esistenza di erede di una famiglia impoverita lavorando nella bottega del maestro Nuri Efendi, orologiaio da cui apprende l'arte della riparazione e l'amore per gli orologi. La sua vita procede tra vicende improbabili raccontate con un punto di vista assolutamente sghembo e pronto a contraddirsi, ma la narrazione è talmente viva, scorrevole, fitta di personaggi e invenzioni, che il lettore può abbandonare senza problemi la ricerca della verità e lasciarsi andare allo stupefacente flusso narrativo. La situazione privata e famigliare di Irdal è complessa - due mogli e un numero imprecisato di amanti, figli suoi e della seconda moglie, cognate bizzarre, zie strampalate - e quella professionale lo è ancora di più, scandita com'è da una serie di figure di protettori che lo prendono sotto la loro ala dirigendone le attività professionali. Le figure di maggior spicco sono l'enigmatico, carismatico e manipolatore Halit il Regolatore, che crea l'Istituto per la Regolazione degli Orologi, ente del tutto inutile e onnipervasivo che aspira al controllo totale estendendosi in tutta la società attraverso sistemi demenziali di multe progressive per chi non regola il proprio orologio; il dottor Ramiz, psicanalista che per convertire i turchi alla psicanalisi tiene una conferenza sui sogni durante la quale tutti i partecipanti si addormentano, lui compreso; ma sono vivissimi anche i personaggi minori, i frequentatori dei caffè di habitué tipo quello della Società Spiritica, i colleghi, le donne. Troppi per poterne parlare dettagliatamente. 

Anche i temi sono molti: il confronto tra oriente e occidente, il significato del tempo, la società ottomana in bilico tra modernità e tradizione, il controllo del potere sui cittadini, ma quello che mi ha sconcertata è che si sente forte un sottotesto metaforico che non sono stata in grado di decifrare. Troppa è la distanza temporale e geografica che mi separa da Hayri Irdal per poterlo pienamente comprendere. Basti pensare, ad esempio, all'imposizione del calendario e dell'orario europei di Atatürk e alla crezione dei vari Istituti preposti alla modernizzazione e alla secolarizzazione della Turchia, di cui sicuramente ogni lettore turco si ricorda leggendo, ma che sfugge del tutto a un lettore medio straniero. Il surreale che serpeggia nel quotidiano, i frequenti paradossi, le giravolte continue del protagonista tra felicità e disperazione, miseria e successo, hanno certamente un significato che va al di là della lettera, e che mi piacerebbe molto riuscire a capire meglio per superare quei momenti di confusione che hanno un po' guastato il piacere di quello che rimane un libro estremamente interessante.


lunedì 9 maggio 2016

Gli anni al sole di Consolata Lanza a La Miniera con Roberta Anau

Foto di Elsa Juliani
Ieri bellissima festa a La Miniera di e con Roberta Anau, nella doppia veste di amabile interlocutrice e di cuoca sopraffina oltreché scrittrice, per parlare del mio libro "Gli anni al sole" e soprattutto per condividere le squisitezze in tema cucinate da Roberta. Pubblico folto e caloroso. Un grazie di cuore alla padrona di casa e di Miniera e a tutti quelli che hanno partecipato numerosi e attenti, e soprattutto a Buckfast Edizioni e Elisa Labanca che ha creduto nel libro e l'ha pubblicato. E' stata una giornata perfetta, allegra, serena e piena di vivacità sia umana che canina. Sono molto, molto contenta.
Foto di Roberta Anau
Foto di Donatella Adorno


mercoledì 4 maggio 2016

Un modesto contributo alla campagna elettorale, alla mia maniera



Ripubblico un mio racconto uscito su Torino Leggendaria, un numero monografico della gloriosa rivista Leggendaria dedicato alle scrittrici torinesi nell'ormai lontanissimo ottobre 2003. Vedo in giro manifesti elettorali che mi fanno venire la giassina ai denti, come si dice da queste parti, o la voglia di spaccare il faccione che vi campeggia sopra promettendo sgomberi. Siccome sono una signora non lo faccio, né faccio il nome del proprietario del faccione. Questo è il mio contributo alla campagna elettorale per le prossime elezioni comunali.   
È incluso nella raccolta Racconti fantastici e del margine.



 NEMICI
           I miei nemici non sono un esercito compatto, anonimo, non portano uniforme. Di ognuno so il colore degli occhi, le abitudini, i gesti e soprattutto l’odore. Li riconoscerei al buio. Dormono molto, anche di giorno. Stesi nei loro cartoni luridi giacciono come cadaveri. Respirano appena ma si capisce che sono vivi perché ogni tanto si grattano. Più raramente leggono, o bevono, o lanciano lamenti e invettive contro i passanti.
C’è chi della mia città ha un’immagine legata alla bellezza delle prospettive lungo il fiume, chi al profumo di cioccolata che emanano certi vecchi caffè, qualcuno persino dice che è elegante, o forse lo era, altri ne sottolineano grigiore e austerità. Io mi ci muovo seguendo la mappa dei miei nemici.
E li odio. Odio quelle facce mollicce e i capelli unti, quelle mani tese che puzzano, quelle bocche bavose e gli stracci che li avvolgono. Sono uno sfregio, offendono l’estetica, l’ordine e l’olfatto.
Non ho ancora scatenato l’offensiva. Mi limito a perlustrare notte dopo notte i portici deserti. Ne cerco l’usta. Fortunatamente i portici conservano gli odori, li fissano, così non devo faticare troppo. Li distinguo da lontano. Controllo che siano sempre lì. Li conto.
Sto elaborando una strategia. Ci devo pensare bene perché questa guerra non può che essere vinta definitivamente, senza feriti né prigionieri. Oggi ne ho visto uno nella galleria Subalpina, seduto sui gradini che portano al primo piano. Si era tolto le scarpe, con uno straccio bagnato nell’acqua putrida di una bottiglietta curava le piaghe del suo piede sinistro. Schifo e orrore, tra l’indifferenza della gente accaldata che correva a casa per cena. In piazza Carlo Alberto le rondini stridevano e volavano basse, eccitate, felici. Questo giugno afoso centuplica le puzze malgrado il profumo di tigli che satura l’aria. La mia città potrebbe ancora essere bella, sarà di nuovo bella quando la mia guerra sarà vinta. Quando avrò cancellato la vergogna.
Guerra è una parola che amo, una parola che ha ritrovato la sua forza, il suo significato eroico per chi è nel giusto e sa di esserlo, sa di avere dei valori positivi da proporre e imporre. Come me. Io ho nel cuore e nel pensiero una città splendente, dove non c’è posto per gli amanti della sporcizia. Quando i tempi saranno maturi tutti mi daranno ragione. E dopo verrà la riconoscenza: la città liberata sarà la mia vittoria.
Io so che cosa devo fare, perché odio i miei nemici.

La mattina presto percorro corso Cairoli in direzione del Valentino. La bellezza del lungo Po mi fa piangere. Acque verdi scorrono tra sponde verdi, profumi di rose e ligustri, la collina sfuma nella caligine, i platani stendono i rami maestosi. Ma loro si acquattano persino tra le siepi del viale. Lerci sacchi a pelo, cartacce, resti di cibo, bottiglie di birra e bottiglie di plastica, per non parlare della puzza di piscio, straziano l’ora perfetta. Dove sono i miei nemici quando passo di lì? Tutti fuggiti alla prima luce, per un residuo di pudore, per la coscienza di stonare in quell’armonia? Non basta la fuga per ammansire il mio odio. Sono invisibili, ma le tracce del loro passaggio rimangono. Non se la caveranno scappando.

Bene, la guerra può cominciare. È scoppiato un caldo fuori stagione. Certi odori non si possono più sopportare. Devo agire subito, per dare requie ai nasi della mia città.

La grande battaglia di stanotte ha avuto pieno successo. I nemici sono stati sorpresi nel sonno. Giusto e preciso il mio pugnale li ha colpiti a uno a uno, senza che uno schizzo di sangue mi sporcasse le mani. All’alba, dopo avere ripulito le belle sponde del Po, l’ho gettato in acqua dal ponte di corso Vittorio. Non ha fatto rumore e nemmeno ferito la corrente. Tornando a casa, nel breve momento di frescura, mi è venuta voglia di cantare, ma non sapevo che cosa. Non conosco canzoni. Ho gridato a bocca chiusa: l’ho fatto per te, sei libera.
Libera, preziosa e intangibile come un diamante. Tornerai a profumare di cioccolato e tigli. Di sudore operaio. Di operoso decoro. Riconosci il mio atto d’amore? Capisci che la guerra è pulizia, salute, salvezza?

La mia azione ha avuto una grande eco, i giornali l’hanno amplificata. Ma non esultano, anzi esprimono esecrazione e dissenso. Certo non tutti i problemi sono risolti, rimangono altri nemici a minacciare la serenità delle piazze e delle strade, ma questa lezione gli insegnerà qualcosa. Ora hanno paura. Capiranno che devono abbandonare i loro traffici immondi. Forse troveranno la forza di correggersi. In caso contrario la guerra riprenderà. Sono molti, lo so, i furtivi mercanti di morte e i clienti che scivolano nell’ombra, le donne in vendita e gli uomini che le cercano, con le mani sudate piene di banconote appiccicose. Ma il secondo pugnale è pronto e poi ce ne sarà un terzo e un quarto, tutti ben affilati, luccicanti e silenziosi. Queste caldissime notti di giugno sono piene di promesse. Io prometto che nessuno dei miei nemici avrà scampo.
La forza dell’odio che mi nutre, però, sta scemando. Come se ogni volta che il mio braccio ha colpito avessi sanguinato anch’io, perdendo vigore nell’emorragia. Non è stanchezza, non è pietà di certo, né paura, né sazietà. Un semplice calo di tensione. Normale, in fondo. Preparavo la guerra da tanto, l’ho vinta, e adesso sperimento la tregua. Non mi piace. È inutile e snervante.

Ho fatto un errore. Un piccolo errore, non irrimediabile, ma non me lo posso permettere. C’era questo omuncolo – un risibile scheletrico fantasma, di quelli che senza sosta camminano per la città proponendo le loro cianfrusaglie, fastidiosi, famelici, miserabili mendicanti travestiti da venditori –, e il caso ha voluto che fossimo soli sotto i portici di palazzo Carignano, nell’afa deserta dell’ora di cena. Non era un vero nemico, giusto una zanzara che mi ha punto nel momento sbagliato. Il pugnale è scattato da solo. Un colpo debole, era vivo a stento. È rimasto lì sul marciapiedi bollente. Il suo sangue annacquato ha cominciato subito a puzzare. In piazza Castello la folla assetata delle gelaterie e dei bar ha inghiottito la mia presenza. Però l’ammetto, è stato un errore.
Non deve più succedere. Il mio compito è troppo importante.

I tigli sono ormai sfioriti, l’estate precoce avvolge tutto in una coltre spessa di umidità. Nei giardini, la mattina presto, l’ora migliore per pensare e sentire, il verde delle magnolie, dei ginkgo, dei bagolari, degli ippocastani, dei faggi rinfresca e rallegra, rinforza l’animo, rasserena. In giro ci sono solo quelli che portano a spasso i cani. Anche loro un po’ nemici per lo schifo degli escrementi abbandonati nei viali, ma insomma, ci sono cose che si possono sopportare.
L’obiettivo che ho in testa: la mia città com’era cinquant’anni fa. Naturalmente io non c’ero, ho appena vent’anni, ma ho visto tante foto delle piazze vuote, i tram a cavalli, le donne con l’ombrellino e i guanti, gli uomini con il cappello, niente traffico, nessun nemico in vista. Forse le foto non sono di cinquant’anni fa, forse sono molto più vecchie, di cento, duecento anni. Non so molto di storia. Però so che così com’è adesso non va.
Ora passeggiare sotto i portici è piacevole. Più niente odori nauseanti e cartoni intrisi del luridume dei nemici. Gli altri, le donne e i mercanti, sono meno visibili. Il mio cuore vola per il sollievo.

Stamattina in piazza Castello ho visto uno spettacolo orribile. Su una panchina davanti a Palazzo Madama giaceva un laido vecchio con le gambe nude, circondato da sacchetti di plastica e bottiglie di birra. L’ho riconosciuto, è quello che si lavava le piaghe in galleria. Come ha fatto a sfuggirmi? Un vigile lo ha sollevato gentilmente per un braccio e l’ha condotto via sotto la sua protezione. L’unico nemico sopravvissuto. Non ho potuto seguirli perché si sono allontanati in macchina, ma lo scoverò nel suo rifugio.
Continua a fare caldo. Dormire è impossibile, e io non dormo mai, cammino tutta la notte. Ci vorrebbe un temporale che riempisse d’acqua le strade, spazzasse via l’immondizia, lo sporco che m’intralcia il passo. Certe volte la fatica mi fa crollare su una panchina e per poco mi lascio andare al dormiveglia. Se qualcuno mi vede in quei momenti, che cosa può pensare? Che sono uno dei nemici? Il primo di un nuovo esercito che si infiltra subdolo e testardo nella città liberata? O un disperato relitto della guerra vinta?

Dicono che la mia città sta male, non sa più chi è. Io ho la coscienza di avere fatto quanto potevo per aiutarla. Però adesso sono io a stare male. Mi accorgo che perdo lucidità, caldo e stanchezza mi indeboliscono. Non so se avrò la forza di portare fino in fondo la guerra. I miei concittadini sono ostili, i giornali esprimono sollievo per quella che io considero una tregua e loro la fine. Non riescono a capire.
Forse, se piovesse un po’, gli si schiarirebbero le idee.

Pare che non facesse un caldo simile, a giugno, dal 1822. Mi immagino che allora la mia città fosse proprio come la sogno io, pulita e leggiadra, abitata da signore delicate che passeggiavano sottobraccio a garbati gentiluomini. La cosa più terribile è che l’esercito puzzolente delle larve senza nome sta riconquistando il centro. Tutti quelli che marcivano rintanati nelle orribili periferie corrono a accaparrarsi i posti che io, con il mio silenzioso pugnale, ho liberato. Non vogliono accettare la sconfitta. Russano a bocca spalancata sulle panchine, inalberano i loro miserabili cartelli davanti alle banche, costruiscono parodie di case sui gradini delle chiese. I vigili, invece di cacciarli, sorvegliano il loro sonno. Vorrei tenere gli occhi chiusi per non vederli. L’odore di miseria e di sporcizia è dovunque. Che cosa posso fare io, con due sole mani?

La guerra è perduta. Stanotte, stanati da un temporale, si sono affollati tutti sotto i portici. Via Roma è un dormitorio nauseabondo, via Po e piazza Vittorio sembrano un accampamento di morti. La gente storce il naso ma getta monete nelle scatole da scarpe. Io provo la vergogna della sconfitta. Se non sono spariti loro dovrò sparire io.

Da tre notti dormo sotto i grandi noci del Caucaso che segnano il limite estremo dei Murazzi. È bello sentire vicino il gorgoglio del Po, e in lontananza le voci piene di birra. Ogni tanto scoppiano i lampi, la pioggia flagella il fiume, ma qui sotto le fronde arrivano solo spruzzi e folate. Quelli che affollano i locali gridano e ridono, ci vuol altro per mandarli a casa. Sembra che per loro la città sia solo leggerezza, allegria, alcol. Non sentono la putredine che si impadronisce di tutto? La povertà che monta come un’onda di piena, la strisciante depressione dei cassintegrati? Lo scricchiolio delle fabbriche che crollano? La città che geme, torcendosi nel suo declino? La puzza più forte dell’odore del fiume?
Non sentono niente, non si accorgono di niente. Le ragazze con i sandali dorati, nelle loro sottovesti impalpabili, bevono guardando negli occhi i maschi trionfanti. Vedono solo quegli occhi pieni di offerte. Si offrono a vicenda. Nessuno si spinge fino alla mia tana. Non hanno bisogno dell’ombra degli alberi per stringersi. Hanno grandi automobili, grandi case con l’aria condizionata, grandi felici letti in cui amarsi dopo essersi scelti. Io li spio dal mio giaciglio di cartoni vecchi. Vorrei mescolarmi a loro. Vorrei colpirli tutti e ognuno con l’ultimo pugnale che mi è rimasto.
Invece. Quest’ultimo pugnale è per me. Lo guardo e lo pulisco fino a farlo brillare. Mi incido il braccio destro, per punirmi di non avere portato a termine il compito che mi sono dato. Il braccio sinistro, perché i miei nemici hanno riconquistato il territorio. La gola, perché non ho parole per esprimere la mia disperazione. Me lo pianto nel cuore, per il troppo amore che porto alla mia città, un amore inutile, perdente, maleodorante come gli stracci in cui mi nascondo.
E mi affido al fiume misericordioso. Mi porterà con sé, ma solo per pochi metri. Domani, alle rapide sotto il ponte di piazza Vittorio, qualcuno si accorgerà di me.
– Guarda, – diranno, – ancora una di quelle barbone che bevono e traballano e cadono nel Po e annegano come gattini. Tocca ai pompieri tirarla fuori.

Lo stand più hot del Salone del Libro di Torino 2016

E qui naturalmente ci trovate Gli anni al sole con il suo ciuchino che riflette davanti al mare, oltre a altri bellissimi libri.