mercoledì 28 maggio 2008
L'attimino fuggente 3
Certe volte mi sembra che il mio santo protettore sia Giuliano l'Apostata. Sconfitto dalla storia, nel torto più marcio, superato, e amaramente incapace di accettarlo. Questo mi succede a proposito dell'italiano parlato, quotidiano, che mi infligge continue dolorose pugnalate e concerti per unghie e gessetti su vetri e lavagne. Quasi mi vergogno a confessare che a ogni "buona giornata" mi si arricciano i denti, ogni "assolutamente" o "certo che sì" mi strappa un lacerto di serenità, per non parlare del mio arcinemico del momento, il "fare sesso" che condisce ogni frase di ogni telefilm e film e soap ecc ecc di questi tempi. (Nota tristissima: oggi, al Circolo dei Lettori, ho sentito Marina Jarre, esimia sia come scrittrice che come donna, usare quest'ultima espressione due o tre volte. So che ha ragione lei, non serve a nulla opporsi, bisogna lasciarsi andare e accettare, ma soffro troppo. Oltre tutto, entrando nel merito, capisco che "fare sesso" può sembrare un'onorevole alternativa all'ottimismo di "fare l'amore", la blanda grossolanità di "scopare", l'ipocrisia di "andare a letto", ma non c'è spiegazione razionale che possa compensare la piatta burocratica utilitaristica bruttezza di quest'espressione di stramoda). Non sono una passatista per principio, mi piacciono certi neologismi espressivi e amo le frasi gergali e dialettali, amo e uso anche le parolacce, non è una questione di gusto. E' fondamentalmente che la moda mi fa un certo orrore. L'idea che da un momento all'altro tutti comincino a usare determinate parole o espressioni perché le ha usate un faccione televisivo, mi fa senso. Anche se il faccione è Fabio Fazio, persona di soave astuzia, non gli perdono di avere lanciato il "grazie molte" che ormai mi perseguita fin dal giornalaio. Ci sono mode ormai patetiche, come il reperto dei tardi anni '70 "fiondarsi" che trovo sgradevole ma veniale, forse perché ricordo benissimo di averlo letto per la prima volta in "Porci con le ali", talmente legato all'air du temps dei suoi tempi che ormai gli si perdona tutto. Ma queste brutture infettive più del raffreddore sono deprimenti, ci schiacciano tutti nel nostro piccolo mondo schiavo di una piccola moda televisiva. Un brutto specchio in cui specchiarsi. Ovvio che ci sono cose e comportamenti assai peggiori, più nocivi, ma il linguaggio mi colpisce sempre tanto. Mi fa soffrire perché ritrovo i modi di dire aborriti anche nelle persone che mi piacciono. E finisce che prima o poi scappano anche a me, e allora il perdono diventa davvero impossibile.
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giovedì 15 maggio 2008
Quanno ce vo'...
Max Citi su ALIA EVOLUTION pone l'interessante questione "quanta violenza è lecito – accettabile, di buon gusto, intelligente – usare" scrivendo. L'argomento era troppo stimolante, avevo troppo da dire per potermi limitare a un breve commento, per cui lo riprendo qui.
Non sono del tutto d'accordo con le conclusioni di Max quando dice preferisco che la violenza non venga direttamente sceneggiata ma costituisca un ulteriore elemento di tensione. Non sempre la minaccia vaga mi basta. E' verissimo che il più delle volte l'esplicitazione, l'atto finiscono per assumere una sfumatura comica o deludente: se a lungo l'autore mi tiene sulle spine con il timore del morto vivente e poi alla fine quello arriva e si mangia le vittime, be', l'anticlimax mi strappa un sorriso, se la paura si risolve in un fiume di sangue può essere un sollievo. Ma questo vale per le storie di tensione, e per i miei gusti se il finale non deve essere troppo esplicito, d'altra parte la minaccia deve essere forte, e non eccessivamente impalpabile. Non mi piacciono le storie in cui si capisce pochissimo, le atmosfere troppo sospese, mi irrita l'eccesso di non detto e non descritto. Sono forse un po' priva di immaginazione, ho bisogno di aiuto. E comunque, nelle storie normali, non mi ritiro davanti alla violenza anche descritta, anche insistita. Non mi dà noia se la scrittura è all'altezza, e ovviamente il contesto narrativo la richiede.
Faccio degli esempi. Uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più è Mo Yan, di cui conservo religiosamente, e mi porto sempre dietro, un autografo. Per dirvi quanto l'ammiro, una volta l'ho visto a un convegno meraviglioso di scrittori orientali tenutosi qui a Torino alcuni anni fa, e io, che in alcune circostanze tra cui giganteggia quella di proporsi, sono timidissima di mettermi in mostra, ho approfittato del momento in cui era stato posteggiato in un angolo dal suo traduttore e sono andata a dirgli tutta la mia appassionata stima, che ovviamente non poteva capire, e gli ho anche stretto la mano, tipo bacio alla reliquia. Più che le sue storie ammiro la sua scrittura, violentemente espressionista, e anche semplicemente violenta. Ebbene, alcune persone cui ho consigliato Sorgo rosso mi hanno chiesto se ero matta, se per esempio non mi aveva dato fastidio la descrizione di come un personaggio viene spellato vivo. Io non me lo ricordavo neanche, almeno come descrizione violenta. Ricordavo solo la bellezza di un romanzo che mi aveva colpita a fondo. Così dopo aver letto Il supplizio del legno di sandalo ho fatto attenzione a chi lo consigliavo. E' un romanzo violento, con descrizioni accurate di torture, ma siccome è la storia di un boia, è impensabile che potesse essere scritto in altro modo. E si ricollega a un romanzo che ho amato tantissimo anni e anni fa, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, pubblicato per la prima volta nel 1945, che comincia con un impalamento, lo stesso supplizio del legno di sandalo di cui parla Mo Yan. E anche allora, ricordo che un amico cui avevo imprestato il libro si era lamentato di questo impatto violento.
Ora, questo non vuole dire che mi diletto di impalamenti e scuoiamenti in quanto tali, ma che leggendo non dimentico mai che la violenza è scritta, è parte del gioco che si instaura tra il lettore e lo scrittore, e come qualsiasi altra scelta un po' estrema, tipo erotismo o eccesso di realismo, chiedo solo che sia ben raccontata e c'entri con la vicenda, insomma che forma e contesto mi convincano. Al cinema, per dire, certi tipi di violenza mi disturbano molto di più, ma anche lì non tutti, e anche se ci ho riflettuto meno penso che sia sempre una questione di "come" è rappresentata. Per esempio, negli ultimi mesi ho apprezzato molto La promessa dell'assassino di Cronenberg e Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, entrambi film piuttosto crudi e crudeli. Certo, per tornare alla scrittura, gli eccessi sono sempre controproducenti, il rischio che il lettore scoppi a ridere esclamando "bum!" è forte. Ma quando riesce, quando colpisce senza disgustare, è molto efficace. Più di una volta, scrivendo, ho cercato di osare un po' di più, di andare un pochino oltre quello che mi veniva spontaneo. Se la cosa mi sia riuscita non so, ma non è che ci ho provato, ne sentivo la necessità. Credo che scrivendo sia importante andare sempre un po' oltre, naturalmente non solo nel campo della violenza, ma in tutte quelle direzioni che richiedono di forzare un pochino la propria natura.
Non sono del tutto d'accordo con le conclusioni di Max quando dice preferisco che la violenza non venga direttamente sceneggiata ma costituisca un ulteriore elemento di tensione. Non sempre la minaccia vaga mi basta. E' verissimo che il più delle volte l'esplicitazione, l'atto finiscono per assumere una sfumatura comica o deludente: se a lungo l'autore mi tiene sulle spine con il timore del morto vivente e poi alla fine quello arriva e si mangia le vittime, be', l'anticlimax mi strappa un sorriso, se la paura si risolve in un fiume di sangue può essere un sollievo. Ma questo vale per le storie di tensione, e per i miei gusti se il finale non deve essere troppo esplicito, d'altra parte la minaccia deve essere forte, e non eccessivamente impalpabile. Non mi piacciono le storie in cui si capisce pochissimo, le atmosfere troppo sospese, mi irrita l'eccesso di non detto e non descritto. Sono forse un po' priva di immaginazione, ho bisogno di aiuto. E comunque, nelle storie normali, non mi ritiro davanti alla violenza anche descritta, anche insistita. Non mi dà noia se la scrittura è all'altezza, e ovviamente il contesto narrativo la richiede.
Faccio degli esempi. Uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più è Mo Yan, di cui conservo religiosamente, e mi porto sempre dietro, un autografo. Per dirvi quanto l'ammiro, una volta l'ho visto a un convegno meraviglioso di scrittori orientali tenutosi qui a Torino alcuni anni fa, e io, che in alcune circostanze tra cui giganteggia quella di proporsi, sono timidissima di mettermi in mostra, ho approfittato del momento in cui era stato posteggiato in un angolo dal suo traduttore e sono andata a dirgli tutta la mia appassionata stima, che ovviamente non poteva capire, e gli ho anche stretto la mano, tipo bacio alla reliquia. Più che le sue storie ammiro la sua scrittura, violentemente espressionista, e anche semplicemente violenta. Ebbene, alcune persone cui ho consigliato Sorgo rosso mi hanno chiesto se ero matta, se per esempio non mi aveva dato fastidio la descrizione di come un personaggio viene spellato vivo. Io non me lo ricordavo neanche, almeno come descrizione violenta. Ricordavo solo la bellezza di un romanzo che mi aveva colpita a fondo. Così dopo aver letto Il supplizio del legno di sandalo ho fatto attenzione a chi lo consigliavo. E' un romanzo violento, con descrizioni accurate di torture, ma siccome è la storia di un boia, è impensabile che potesse essere scritto in altro modo. E si ricollega a un romanzo che ho amato tantissimo anni e anni fa, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, pubblicato per la prima volta nel 1945, che comincia con un impalamento, lo stesso supplizio del legno di sandalo di cui parla Mo Yan. E anche allora, ricordo che un amico cui avevo imprestato il libro si era lamentato di questo impatto violento.
Ora, questo non vuole dire che mi diletto di impalamenti e scuoiamenti in quanto tali, ma che leggendo non dimentico mai che la violenza è scritta, è parte del gioco che si instaura tra il lettore e lo scrittore, e come qualsiasi altra scelta un po' estrema, tipo erotismo o eccesso di realismo, chiedo solo che sia ben raccontata e c'entri con la vicenda, insomma che forma e contesto mi convincano. Al cinema, per dire, certi tipi di violenza mi disturbano molto di più, ma anche lì non tutti, e anche se ci ho riflettuto meno penso che sia sempre una questione di "come" è rappresentata. Per esempio, negli ultimi mesi ho apprezzato molto La promessa dell'assassino di Cronenberg e Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, entrambi film piuttosto crudi e crudeli. Certo, per tornare alla scrittura, gli eccessi sono sempre controproducenti, il rischio che il lettore scoppi a ridere esclamando "bum!" è forte. Ma quando riesce, quando colpisce senza disgustare, è molto efficace. Più di una volta, scrivendo, ho cercato di osare un po' di più, di andare un pochino oltre quello che mi veniva spontaneo. Se la cosa mi sia riuscita non so, ma non è che ci ho provato, ne sentivo la necessità. Credo che scrivendo sia importante andare sempre un po' oltre, naturalmente non solo nel campo della violenza, ma in tutte quelle direzioni che richiedono di forzare un pochino la propria natura.
sabato 3 maggio 2008
Allegria di naufragi
Sono giorni che ci giro attorno, ci rifletto e mi mancano le parole, poi stamattina il titolo di Ungaretti mi è scoppiato in testa e ho capito perché questo disastro elettorale che mi ha colpita due volte con la stessa violenza, prima con le politiche poi con Alemanno sindaco di Roma, mi ha lasciata sì sbigottita ma non disperata. Premetto che durante la penultima legislatura, quando Berlusca impazzava in Italia e fuori ecc ecc con tutto quello che ricordiamo benissimo, ho vissuto con una cappa di piombo sulla testa che mi amareggiava anche i momenti privati di allegria. Adesso, ovviamente, ci sarà molto da pensare, errori da analizzare e mutamenti di cui prendere atto, e lasciamo perdere quello che ci toccherà vedere, sentire e leggere nei prossimi anni sulla nostra bella patria azzurra–nera–verde. La differenza è questa: dopo anni di penosa e angosciante malattia, dopo meno di due anni di agonia, il nostro caro è finalmente defunto. Il dolore è profondo ma c'è anche una specie di sollievo per la fine della sofferenza, quella lieve euforia che prende davanti alla morte quando segue un iter naturale. Il disastro è talmente totale che non resta altro che l'allegria del naufrago, appunto. Adesso si tratta di elaborare il lutto il più in fretta possibile e poi aggiornare la visione del mondo, la comprensione di qualcosa che va al di là delle strategie elettorali, radicali sì o no, la scomparsa del PRF, e via discettando su virgole e accenti come filologi bizantini sulle mura di Costantinopoli nel 1453. E non per mimetizzarci con gli altri, come in questi anni di rincorsa della destra e di revisionismi e baci a tutte le pile e le pantofole che odorassero d'incenso. No, ricominciare partendo da se stessi (parlo per me ovviamente) separando il grano dal loglio, le idee scadute da quelle ancora valide, verificare la solidità delle basi su cui stavamo più o meno scomodamente seduti da troppo tempo, spalancare gli occhi per vedere la realtà come è e non come abbiamo sempre pensato che sia. Cliccare su refresh.
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