Una
raccolta di racconti apposta per quelli che quando sentono “racconti” storcono
il naso e dicono “no, a me non piacciono”. Pigrizia mentale, preconcetti,
semplice ignoranza, non so. Ricordo anni fa, era uscito un mio libro e un dotto
cugino mi chiese di che cosa si trattasse; alla mia risposta “tre racconti”
disse: “ah, sempre cose per ragazzi”? E insegna letteratura all’università. Va
be’, io adoro i racconti. Adoro scriverli e leggerli. Ci sono racconti che mi
si sono stampati in testa e dopo decenni, tanti, me li ricordo ancora per filo
e per segno. Ad esempio, L’eresia catara
di Pirandello, Una parente d’acquisto
di Beatrice Solinas Donghi, uno russo che non ho mai più trovato e di cui non
so l’autore (se qualcuno mi potesse aiutare: una coppia di studenti va a fare
una passeggiata in un parco fuori città e si scambia effusioni, sono seguiti da
un gruppo di proletari che li circondano, immobilizzano il ragazzo e violentano
la ragazza; quando se ne vanno, lui, piangendo, la violenta a sua volta. Direi
inizio ‘900), La bella incantatrice di Oliver Onions, e altri. Elizabeth Strout,
di cui ho letto Resta con me che non
mi aveva convinto del tutto, padroneggia con grande perizia questo modello
narrativo e costruisce un “pararomanzo” formato da una serie di racconti
autonomi, che hanno come elemento comune proprio il personaggio eponimo. In alcuni
Olive Kitteridge, colta in momenti diversi della sua vita, è protagonista, in
altri personaggio di contorno, in altri ancora semplice pretesto (è un’insegnante
di matematica in pensione, e molti personaggi sono stati suoi allievi). Altro elemento
unificante è la cittadina di Crosby, nel Maine, in cui si svolgono quasi tutte
le vicende, tranne un’incursione a New York. Ambientazione fascinosa, tra un
mare solcato dalle barche dei pescatori di aragoste e un fiume sulle cui rive
camminare prima dell’alba, piano bar e ristoranti con vista, dove tutti si
conoscono o almeno si salutano incontrandosi. Olive è una donna spigolosa, che
incute paura agli allievi e concede poco alle smancerie, piena di difetti ma
anche di sentimenti profondi e comprensione umana. Nasconde delle ferite
segrete, come del resto suo marito, suo figlio e tutte le altre persone che
attraversano le pagine per lo spazio di un racconto: spazio perfetto per
ritrarre una vita di scorcio nel presente, in modo che si possa intravedere il
suo passato e intuire il suo futuro. Molti sono i personaggi che di volta in
volta si presentano alla ribalta, e per il tempo del loro assolo ci svelano con
sincerità gli abissi nascosti nei loro cuori. La mia preferita, per quel che
può interessare, è Angie la pianista che cerca di annegare nell’irish coffee lo
spreco della propria vita e del proprio talento. Elizabeth Strout scrive magnificamente,
affronta i temi difficili dei rapporti interpersonali, familiari, della morte e
dell’invecchiamento, della solitudine, dell’amore, del tradimento e della
vigliaccheria, in molti punti mi sono commossa (sì, pure una pellaccia come me,
nemica delle emozioni, ha i suoi momenti di debolezza) ma né indulge in
psicologismi, assolutamente assenti per fortuna, né si compiace in descrizioni
crepuscolari o depresse. La sua prosa è energica come Olive, e altrettanto
coraggiosa. Olive Kitteridge è uno di
quei libri che ti fanno pregustare il momento in cui potrai finalmente aprirlo,
e ti fa detestare quello in cui lo chiudi definitivamente.
Elizabeth Strout, Fazi 2009, traduzione di S. Castoldi
Elizabeth Strout, Fazi 2009, traduzione di S. Castoldi