Una bellissima e acuta recensione di Desy Icardi sul suo blog Papataridens a proposito di Il cuore in ballo
E tanti saluti da Bolzaretto Superiore!
giovedì 30 novembre 2017
mercoledì 29 novembre 2017
A Louisa May Alcott nel giorno del suo 185° compleanno: molte scuse e una bruciante accusa (anche da parte di Jo March)
Cara Louisa May, sappiamo tutti che la tua fama meritatissima e immortale è dovuta al romanzo Piccole donne, ma io oggi ti voglio parlare di Piccole donne crescono.
Primo, per porgerti le mie sentite scuse per l'uso improprio che è stato fatto del titolo in questi quasi due secoli attraverso gli innumerevoli, abbietti e nauseanti plagi perpetrati da giornalisti senza fantasia né pudore: io quando vedo un articolo intitolato Piccoli *** crescono chiudo il pc, il tablet, il telefonino, il giornale, e mi do al giardinaggio per farmi passare i nervi.
Secondo, per rivolgerti l'eterna, dolorosa, inconsolabile accusa di tutte noi ragazze amiche delle ragazze March: ma come hai potuto? Come ti è venuto in mente un simile obbrobrio? Perché, cara Louisa May, perché quel tesoro di Laurie sposa la gattamorta Amy (e i suoi limoncelli canditi, limoncelle in salamoia nella versione che ha rallegrato la mia infanzia, regalandomi qualcosa in più su cui sognare - che mai saranno le limoncelle, per non parlare della salamoia?) e a Jo, eroina di tutte noi, tocca un vecchio professore tedesco povero, brutto e noiosissimo? Perché? Se ci tenevi tanto a scrivere la scena del rifiuto di Jo alla proposta di matrimonio di Laurie, non potevi sfogarti un po' con le sue disgrazie a New York e poi farli rincontrare maturati e belli, lei con i capelli ricresciuti e lui con la barba? Eh? Rispondi un po', ma ci vorranno delle motivazioni MOLTO convincenti per ottenere il nostro perdono.
Pensaci, lì nel paradiso degli scrittori dove hai sicuramente una posizione di prestigio e non ti perdi in sciocchezze e mondanità. Per consolarti posso dire che né Katharine Hepburn né June Allyson né Winona Ryder né qualsiasi altra attrice abbia incautamente accettato il ruolo di Jo arriverà mai all'altezza del modello. Lei è inarrivabile, con le sue mele in soffitta e i vestiti rammendati. Ma sicuramente anche lei molto incazzata con te per i motivi di cui sopra.
Primo, per porgerti le mie sentite scuse per l'uso improprio che è stato fatto del titolo in questi quasi due secoli attraverso gli innumerevoli, abbietti e nauseanti plagi perpetrati da giornalisti senza fantasia né pudore: io quando vedo un articolo intitolato Piccoli *** crescono chiudo il pc, il tablet, il telefonino, il giornale, e mi do al giardinaggio per farmi passare i nervi.
Secondo, per rivolgerti l'eterna, dolorosa, inconsolabile accusa di tutte noi ragazze amiche delle ragazze March: ma come hai potuto? Come ti è venuto in mente un simile obbrobrio? Perché, cara Louisa May, perché quel tesoro di Laurie sposa la gattamorta Amy (e i suoi limoncelli canditi, limoncelle in salamoia nella versione che ha rallegrato la mia infanzia, regalandomi qualcosa in più su cui sognare - che mai saranno le limoncelle, per non parlare della salamoia?) e a Jo, eroina di tutte noi, tocca un vecchio professore tedesco povero, brutto e noiosissimo? Perché? Se ci tenevi tanto a scrivere la scena del rifiuto di Jo alla proposta di matrimonio di Laurie, non potevi sfogarti un po' con le sue disgrazie a New York e poi farli rincontrare maturati e belli, lei con i capelli ricresciuti e lui con la barba? Eh? Rispondi un po', ma ci vorranno delle motivazioni MOLTO convincenti per ottenere il nostro perdono.
Orchard House, Concord, dove nel 1968 fu scritto Piccole donne |
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martedì 28 novembre 2017
L'Italia come non l'avete mai vista: Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia
Elvis Malaj con Marco Lazzarotto alla libreria Pantaleon di Torino, 23/11/17 |
Felice perché i dodici racconti che lo compongono sono belli, interessanti, ben scritti e originali. Elvis Malaj è giovane e scrive come è giusto che faccia un giovane, ma è felicemente libero dai vezzi che rendono insopportabili, a mio gusto, tanti libri generazionali: niente impronta da scuola di scrittura, per me il peggiore tra i tanti difetti. Si sente che Malaj ha cercato la sua voce e l'ha trovata, ed è una voce forte, personalissima, che spero verrà confermata nelle prossime uscite. E' anche molto ironica e allo stesso tempo mite, attenta ai minimi dettagli, e riesce a risultare divertente anche nel raccontare minimalia.
Importante perché l'autore, che ascoltato dal vivo appare molto lucido e intelligente, riesce a imbastire storie brevissime che ci danno un quadro della vita di un ragazzo albanese (l'essere albanese è al centro di tutti tutti i racconti) alle prese con le difficoltà, gli aspetti buffi, le stranezze, i luoghi comuni e anche i pregiudizi che condizionano i rapporti con gli altri. E soprattutto le altre, le ragazze, universo amichevole e bizzarro con cui confrontarsi continuamente. Non ci sono lamentele né pietismi né rivendicazioni orgogliose, ma attraverso l'autoironia e la velocità di scrittura si rispecchia acutamente la società italiana, nei suoi difetti ma anche nei suoi pregi. Elvis Malaj ha l'occhio tollerante di chi, più che giustamente, non ha complessi d'inferiorità e capisce benissimo con chi ha a che fare.
I racconti sono ambientati in buona parte a Belluno dove l'autore, che ora risiede a Padova, ha trascorso alcuni anni, ma qualcuno anche in Albania. In Vorrei essere albanese, il cui incipit è davvero magistrale, il protagonista Marenglen (acronimo di Marx, Engels e Lenin) deve destreggiarsi con una banda di ragazzini ubriachi e razzisti, ma ha un asso nella manica: quando dovevo minacciare qualcuno non dicevo "chiamo i miei cugini albanesi", dicevo "chiamo la mia ragazza italiana". Da cui peraltro, alla fine riceve una lezioncina del tutto inaspettata. La vergine Maria tratta della controversa iniziazione sessuale di due adolescenti, mentre Il televisore è una doppia vicenda di abbandoni e ritrovamenti, tra Bakshim, un vecchio apparecchio televisivo fuori uso e la sua ragazza Maddalena, sul cui sfondo si intravede la gerarchia degli esclusi che mette in campo albanesi, romeni, marocchini e neri. L'incidente è quello che interrompe la prima cena tra Gjokë e Selvi, la ragazza di cui è sempre stato innamorato, risolvendo un equivoco. Scarpe, dedicato alla mia Albania e ambientato a Bajzë, paese di origine dell'autore, è la storia apparentemente farsesca e boccaccesca di Dedë, cameriere e puttaniere, delle sue scarpe, di un cane e di una ragazzina che va a scuola con la scarpe prestate dalla sorella, ma in controluce fa intuire una miseria che non è solo materiale. La nuova classe, il più tragico, laconico e bellissimo nella sua nervosa velocità, mette in scena l'ansia e lo spaesamenteo di un ragazzo diviso tra la difficoltà di inseririsi in un ambiente nuovo e la vita che preme tutt'intorno. L'uomo con la cravatta con un motivo a fiori forse è salvato da un colloquio ascoltato sull'autobus tra un'infermiera e una sua amica, mentre La Carriola, di nuovo di ambiente albanese, è la scabra rappresentazione di una solitudine infantile estrema. Straordinariamente complessa è la vicenda di Agron e Silvia, protagonisti di A pritni miq, due vitalissimi scriteriati che dopo essere fuggiti insieme per vivere un amore osteggiato dalla famiglia di lei, italiana quindicenne, sperimentano la potenza delle tradizioni albanesi in terra straniera sia nel bene che nel male, si amano, bisticciano e si rappacificano con dialoghi di esilarante semplicità e follia. Il lupo della steppa è ancora una conversazione casuale in treno tra Çoban, scrittore, e un signore pieno di buone intenzioni e di luoghi comuni, mentre Mrika non riesce a godersi le vacanze estive a Durrës. Morte di un personaggio è forse il mio preferito, e leggendolo si scopre il significato del geniale titolo del libro. Kastriot, il protagonista scrittore, per fare contenta sua madre si lancia in un'impresa azzardata e pericolosa, fa un incontro sorprendente con Veronica, il tutto mentre nella sua testa si agita la trama del romanzo che sta scrivendo. Le scene e i dialoghi che scandiscono gli incontri tra Kastriot e Veronica sono veramente straordinari, senza una sbavatura rendono plausibile l'assurdo acchiappando il lettore nelle loro spire.
Elvis Malaj è veramente maestro nel narrare rovesciamenti fulminanti in pochissime parole, nel taglio della scena e della vicenda: senza mai seguire la stucchevole deriva carveriana, ma dimostrandosi semplicemente maestro nel saper chiudere al momento giusto. E mi ha fatto piacere scoprire che sono passata da Bajzë, il suo paese d'origine. Se fossi stata meno frettolosa, se mi fossi guardata meglio intorno, forse avrei incontrato qualche abitante del luogo che parlava italiano, disposto a intrecciare con me una delle meravigliose conversazioni che Elvis Malaj mette in bocca ai suoi personaggi.
P.S. Alla presentazione si è parlato anche dell'orrore, stile aglio per i vampiri, che suscitano i racconti negli editori. So di ripetermi (e non me ne frega niente) in quanto appassionata di racconti sia come scrittrice che come lettrice. Ma non mi ero mai fermata a riflettere sul fatto che ormai si utilizzano eufemismi per la parola racconti, come se fosse un termine osceno. E' stata citata una quarta di copertina in cui si parlava di storie, ma naturalmente la scelta più sicura è short stories. Con quella si fa una doppia carambola e i racconti diventano quasi appetibili, visto che si può parlarne anche nella lingua ufficiale dell'Impero.
domenica 26 novembre 2017
Tre scrittori, un cane, molte galline e due conigli: Auden - Isherwood - Spencer, Il diario di Sintra
Wystam Auden, Christoper Isherwood, Stephen Spender |
Spender e Isherwood venivano dall'esperienza di anni a Berlino, e tutti quanti avevano ben chiaro che stavano vivendo un momento storico molto cupo e preoccupante, Hitler e Mussolini dominavano la scena politica, la possibilità di una guerra si intuiva già, ma curiosamente Salazar non suscitava lo stesso rifiuto degli altri dittatori, e comunque la vita in Portogallo evidentemente sembrava ancora sicura e libera. Ma queste ombre restano negli angoli dell'incantevole paesaggio di Sintra. Ben illuminata invece è la scena in cui si muovono gli scrittori nella variegata e esilarante comunità degli espatriati inglesi di Sintra. La vita mondana è intensa, e i nostri scrittori, già piuttosto noti, vengono accolti e invitati nelle varie case, dove si raccoglie un'umanità osservata e narrata con divertimento e il distacco sufficiente a rilevarne tratti caratteristici e stranezze. In realtà molte delle persone di cui si parla erano intellettuali e scrittori tanto quanto gli autori del diario, ma visti nelle ciance a tavola o su una tazza di tè assumono l'aspetto di una gradevole banda di originali. Quella che domina è una passione per l'occulto e lo spiritismo. Ottime signore anziane raccontano particolari scabrosi delle loro vite precedenti, gli inviti per le sedute spiritiche fioccano, e i nuovi arrivati non si sottraggono. Registrano conversazioni e tic, dipingendo un quadro vivacissimo della vita a Sintra.
Accanto allo scambio di visite si svolgono altre attività, in particolare gite al Casinò di Estoril, dove
la passione per il gioco e per l'azzardo travolge alternativamente tutti i protagonisti. Poi c'è la popolazione locale, non solo i borghesi incontrati nei salotti, ma soprattutto le cameriere e le cuoche, il giardiniere, gli artigiani con cui è indispensabile interagire. Il cibo, i prezzi. E gli animali: il vorace cagnolino Teddy, le galline che muoiono a dozzine, i conigli che si riproducono secondo le aspettative, di cui si deve occupare Heinz che costruisce per loro sontuose cucce e casette. E i castelli, i panorami, le spiagge, Lisbona, tutto quello che nei brevi brani dei molti autori balza fuori dalle pagine con la forza della presa diretta. Il risultato, l'ho già detto, è irresistibile.
Io confesso che ho avuto una passioncella per Christopher Isherwood e l'ho letto con grande piacere, sia nelle sue opere giovanili che in quelle del periodo californiano. E' un autore che mi piace e questo sicuramente ha influito sul fatto che quando ho trovato il volume su una bancarella l'ho immediatamente comprato (senza grande sforzo, perché costava 1 euro - e non è vecchio, è uscito nel 2014). Inoltre ho di Sintra ricordi molto gradevoli di un posto davvero bello (tra i molti che vi hanno trascorso del tempo c'è anche H. C. Andersen). Ma secondo me risulta divertente anche per chi non ha mai letto niente dei tre autori, quello che lo rende così piacevole è la ricostruzione di un mondo, della vita di un gruppo di expat, certo svagati ma non abbastanza da non vedere quello che succedeva nel resto d'Europa.
La traduzione è disinvolta a dir poco, spesso frettolosa. Avendolo letto nella versione cartacea sono stata colpita dai fastidiosi difetti nell'impaginazione (doppi spazi vistosi, cambiamenti di spaziatura tra i caratteri). Nell'insieme si sente molto la mancanza di un buon editing, il che dispiace perché il testo merita moltissimo e di questi tempi in cui il libro boccheggia e arranca, sarebbe doveroso curare de minimis.
martedì 21 novembre 2017
Eccolo qui, sta per arrivare: Il cuore in ballo, Buckfast Edizioni
Eccolo qui, è il decimo, è allegro, è bello, fa venire voglia di ballare, fa ridere e fa piangere.
C'è Angelica, c'è Decembrina, c'é Jerry Vinzanola del Bronx, c'è Amapola, c'è don Ferruccio, c'è Porzia Milletarì, c'è Luca il carinissimo, c'è Ginni la donna vincente, e molti altri.
E soprattutto c'è Bolzaretto Superiore.
Spero che faccia piacere e piaccia.
Sta per arrivare, è vicino, vicinissimo.
Ne riparliamo!
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lunedì 20 novembre 2017
La casa dell'infanzia è piena di storie e di segreti: Ismail Kadare, La bambola
Una breve nota a proposito dell'ultimo libro di Ismail Kadare, La bambola. Breve perché è brevissimo (127 pagine con molti spazi) e anche perché ho le idee un po' confuse al proposito, ma non voglio passarlo sotto silenzio. Suppongo sia tradotto dal francese perché ho letto che da quando si è trasferito in Francia, nel 1990, scrive in quella lingua (ma sulla questione delle traduzioni di Kadare leggete questo interessantissimo articolo di Francesca Spinelli), però l'ottima traduttrice Liljana Cuka Maksuti è albanese e vive a Roma. La scelta editoriale è di tacere sia sulla lingua d'origine che sul titolo e l'anno di pubblicazione originale. Va be', sarà un mistero in più ad avvolgere con le sue morbide spire La bambola.
Perché di un testo misterioso si tratta, o magari sono io che non ho capito niente.
Confesso che l'ho comprato perché si svolge a Argirocastro, bellissima città che a Kadare ha dato i natali e dove sorgeva la casa della sua famiglia paterna in cui si svolgono molti degli episodi che racconta. Distrutta da un incendio nel 1999, in seguito è stata ristrutturata (ma quando ci sono stata io, nel 2013 o 2014, non era ancora visibile). La casa è il centro della narrazione, molto più della madre (la bambola del titolo) che dovrebbe essere la protagonista. Ecco, per togliermi il dente dico subito che questa della madre mi è parsa la parte più debole del libro. Descritta come una bambola di carta, incapace di comprendere e di parlare, non si riesce bene a farsene un'idea anche se il figlio vuole fare capire come sia stata piegata e rachitizzata dalla vita. Entrata a diciassette anni nell'enorme casa della famiglia del marito (fornita persino di una prigione privata!), subito in silenzioso contrasto con la suocera, trascurata dal marito cui interessa solo fare continui lavori di ristrutturazione, pone ogni tanto timide e preoccupate domande al figlio, precoce nella scrittura e nella pubblicazione.
La parte che mi è piaciuta di più è proprio quella relativa alla vita e alle abitudini a Argirocastro negli
anni lontani della sua infanzia, ai rapporti tra gli abitanti, ai segreti delle grandi case, alcune delle quali ancora oggi perfettamente conservate, visitabili e veramente affascinanti (tra cui quella, modesta, di Henver Hoxha). Ci sono particolari divertenti e sorprendenti, e conferme, come per esempio l'inserimento e la vicinanza della popolazione zingara nella vita cittadina. Con pochi tratti Kadare dipinge una società per noi molto esotica, ed estremamente interessante.
Ma accanto ai ricordi dei genitori, dei nonni, fratelli zii ecc, Ismail Kadare srotola quelli che gli interessano assai di più, l'inizio della sua vocazione di scrittore, gli amici e poi via via i primi successi, i viaggi e i ritorni, le morti e gli amori. Si vede benissimo che in fondo l'argomento che lo appassiona è Ismail Kadare. C'è una certa reticenza forse dovuta a motivi autobiografici, e una frammentarietà che in certi punti riesce un po' fastidiosa. Ho avuto come l'impressione che procedesse un po' svagatamente, senza un preciso progetto. La traduzione è bella e fluida, ma in certi punti è difficile capire il senso: non so se questo effetto di vaghezza dipenda dal testo originale. Comunque la lettura è gradevole, piena di spunti interessanti, veloce e avvolgente. E se vi viene voglia di andare a Argirocastro, seguite l'impulso, ne vale la pena.
Perché di un testo misterioso si tratta, o magari sono io che non ho capito niente.
Confesso che l'ho comprato perché si svolge a Argirocastro, bellissima città che a Kadare ha dato i natali e dove sorgeva la casa della sua famiglia paterna in cui si svolgono molti degli episodi che racconta. Distrutta da un incendio nel 1999, in seguito è stata ristrutturata (ma quando ci sono stata io, nel 2013 o 2014, non era ancora visibile). La casa è il centro della narrazione, molto più della madre (la bambola del titolo) che dovrebbe essere la protagonista. Ecco, per togliermi il dente dico subito che questa della madre mi è parsa la parte più debole del libro. Descritta come una bambola di carta, incapace di comprendere e di parlare, non si riesce bene a farsene un'idea anche se il figlio vuole fare capire come sia stata piegata e rachitizzata dalla vita. Entrata a diciassette anni nell'enorme casa della famiglia del marito (fornita persino di una prigione privata!), subito in silenzioso contrasto con la suocera, trascurata dal marito cui interessa solo fare continui lavori di ristrutturazione, pone ogni tanto timide e preoccupate domande al figlio, precoce nella scrittura e nella pubblicazione.
La parte che mi è piaciuta di più è proprio quella relativa alla vita e alle abitudini a Argirocastro negli
anni lontani della sua infanzia, ai rapporti tra gli abitanti, ai segreti delle grandi case, alcune delle quali ancora oggi perfettamente conservate, visitabili e veramente affascinanti (tra cui quella, modesta, di Henver Hoxha). Ci sono particolari divertenti e sorprendenti, e conferme, come per esempio l'inserimento e la vicinanza della popolazione zingara nella vita cittadina. Con pochi tratti Kadare dipinge una società per noi molto esotica, ed estremamente interessante.
Ma accanto ai ricordi dei genitori, dei nonni, fratelli zii ecc, Ismail Kadare srotola quelli che gli interessano assai di più, l'inizio della sua vocazione di scrittore, gli amici e poi via via i primi successi, i viaggi e i ritorni, le morti e gli amori. Si vede benissimo che in fondo l'argomento che lo appassiona è Ismail Kadare. C'è una certa reticenza forse dovuta a motivi autobiografici, e una frammentarietà che in certi punti riesce un po' fastidiosa. Ho avuto come l'impressione che procedesse un po' svagatamente, senza un preciso progetto. La traduzione è bella e fluida, ma in certi punti è difficile capire il senso: non so se questo effetto di vaghezza dipenda dal testo originale. Comunque la lettura è gradevole, piena di spunti interessanti, veloce e avvolgente. E se vi viene voglia di andare a Argirocastro, seguite l'impulso, ne vale la pena.
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letteratura albanese
domenica 19 novembre 2017
In ricordo di Elisabetta Chicco Vitzizzai
Questo è un post che non avrei mai voluto dover pubblicare. E mi viene in mente un solo modo per ricordare un'amica, una donna bellissima, una scrittrice tanto raffinata quanto ironica: parlare, e continuare a parlare, delle sue opere, cominciando dalla mia preferita.
Il più bel vizio è la vita
Questa nuova fatica di Elisabetta Chicco Vitzizzai, pubblicata da Instar, è un libro agile che dà piacere a ogni parola, perché ogni parola è studiata e limata da una scrittura priva di qualsiasi sbavatura o compiacimento. Non si tratta di un romanzo ma della ricostruzione di un mondo perduto, la Torino (e dintorni) degli anni che stanno tra il ‘45 e gli anni ’60 del secolo scorso. L’autrice è figlia di un pittore, Riccardo Chicco, molto conosciuto a Torino sia per l’eccellenza delle sue opere (una è in copertina) che per essere stato un vero personaggio: nella parole della figlia fondamentalmente era un esteta e un pittore, accessoriamente un amante, sempre un seduttore. Marginalmente anche insegnante di storia dell’arte al liceo classico, dove io sono stata sua allieva. È naturale che la sua figura campeggi in queste pagine, ma in effetti non è l’unica né la principale. Tutta la famiglia della protagonista, una Elisabetta prima bambina poi adolescente, è dipinta con tratti nettissimi e precisi, e senza sconti. Sono pagine divertenti e divertite, abbastanza perfide. C’è la bella madre, piena di carattere ma del tutto priva di senso materno, c’è la zia Eva che mantiene la linea vivendo di whisky e sigarette, la tremenda zia Titina (la figura più esilarante e spaventosa) dedita alle opere di bene, gli zii, i vicini di casa, le figure di una Torino che si lascia alle spalle la guerra.
È la Torino del Sollazzo Gastrico, della Turris Eburnea, della Tampa Lirica, dell’Escargot, nomi che forse non dicono molto ai più ma fanno sobbalzare chi quei tempi li ha vissuti o ne ha sentito parlare da zii e fratelli maggiori, l’altra faccia della Torino deprimente, grigio ostaggio della Fiat, in cui si aggirano personaggi trasgressivi e anticonformisti, come appunto Riccardo Chicco o Carol Rama e altri presentati dalle semplici iniziali. Torino è sempre stata assai più complessa e divertente di quel che il luogo comune voleva. Come supremamente divertenti sono gli episodi e i personaggi di questo libro, in apparenza svagato collage di ricordi, in realtà monumento alla distanza che permette di vedere un’epoca passata per quel che è, fuori dal compiacimento, dalla nostalgia. Non “come eravamo” ma “come erano”, bizzarri, ridicoli, cattivi, unici, umani, comunque nostri, e per fortuna che noi siamo diversi. Almeno fino a quando una nipote dalla penna intelligente, perfida e spiritosa come quella di Elisabetta Chicco Vitzizzai non deciderà, in un lontano futuro, di raccontarci. La parsimonia era una delle esecrabili virtù di famiglia. […] L’indole sospettosa e l’eccessiva precisione erano un’altra caratteristica di famiglia. […] Zia Luda sembrava una sedia liberty. Di quelle sedie allampanate, smunte, scivolate nei braccioli e nello schienale. […] Le due figlie di zia Luda, Mati e Matè, sembravano due poltrone imbottite, solide e goffe. […] La Cicci faceva un mestiere ormai in declino, la mantenuta. […] Zia Titina aveva una vera passione per le deformità e le collezionava si può dire con gusto ed esaltazione feticistici. Viene freddo al pensiero e insieme si scoppia a ridere.
Vedi anche L'amore come sai, Trasgressioni, Gli ossibuchi di Nietszche, Eros in bicicletta, Dio ride
Il più bel vizio è la vita
Questa nuova fatica di Elisabetta Chicco Vitzizzai, pubblicata da Instar, è un libro agile che dà piacere a ogni parola, perché ogni parola è studiata e limata da una scrittura priva di qualsiasi sbavatura o compiacimento. Non si tratta di un romanzo ma della ricostruzione di un mondo perduto, la Torino (e dintorni) degli anni che stanno tra il ‘45 e gli anni ’60 del secolo scorso. L’autrice è figlia di un pittore, Riccardo Chicco, molto conosciuto a Torino sia per l’eccellenza delle sue opere (una è in copertina) che per essere stato un vero personaggio: nella parole della figlia fondamentalmente era un esteta e un pittore, accessoriamente un amante, sempre un seduttore. Marginalmente anche insegnante di storia dell’arte al liceo classico, dove io sono stata sua allieva. È naturale che la sua figura campeggi in queste pagine, ma in effetti non è l’unica né la principale. Tutta la famiglia della protagonista, una Elisabetta prima bambina poi adolescente, è dipinta con tratti nettissimi e precisi, e senza sconti. Sono pagine divertenti e divertite, abbastanza perfide. C’è la bella madre, piena di carattere ma del tutto priva di senso materno, c’è la zia Eva che mantiene la linea vivendo di whisky e sigarette, la tremenda zia Titina (la figura più esilarante e spaventosa) dedita alle opere di bene, gli zii, i vicini di casa, le figure di una Torino che si lascia alle spalle la guerra.
È la Torino del Sollazzo Gastrico, della Turris Eburnea, della Tampa Lirica, dell’Escargot, nomi che forse non dicono molto ai più ma fanno sobbalzare chi quei tempi li ha vissuti o ne ha sentito parlare da zii e fratelli maggiori, l’altra faccia della Torino deprimente, grigio ostaggio della Fiat, in cui si aggirano personaggi trasgressivi e anticonformisti, come appunto Riccardo Chicco o Carol Rama e altri presentati dalle semplici iniziali. Torino è sempre stata assai più complessa e divertente di quel che il luogo comune voleva. Come supremamente divertenti sono gli episodi e i personaggi di questo libro, in apparenza svagato collage di ricordi, in realtà monumento alla distanza che permette di vedere un’epoca passata per quel che è, fuori dal compiacimento, dalla nostalgia. Non “come eravamo” ma “come erano”, bizzarri, ridicoli, cattivi, unici, umani, comunque nostri, e per fortuna che noi siamo diversi. Almeno fino a quando una nipote dalla penna intelligente, perfida e spiritosa come quella di Elisabetta Chicco Vitzizzai non deciderà, in un lontano futuro, di raccontarci. La parsimonia era una delle esecrabili virtù di famiglia. […] L’indole sospettosa e l’eccessiva precisione erano un’altra caratteristica di famiglia. […] Zia Luda sembrava una sedia liberty. Di quelle sedie allampanate, smunte, scivolate nei braccioli e nello schienale. […] Le due figlie di zia Luda, Mati e Matè, sembravano due poltrone imbottite, solide e goffe. […] La Cicci faceva un mestiere ormai in declino, la mantenuta. […] Zia Titina aveva una vera passione per le deformità e le collezionava si può dire con gusto ed esaltazione feticistici. Viene freddo al pensiero e insieme si scoppia a ridere.
Vedi anche L'amore come sai, Trasgressioni, Gli ossibuchi di Nietszche, Eros in bicicletta, Dio ride
mercoledì 15 novembre 2017
Gradisce un assaggino? Piccola anticipazione da "Il cuore in ballo", che sta per arrivare
I love Paris in the springtime
–
I love Paris in the springtime – cantò Angelica, allacciandosi un paio di
scarpe da ginnastica rosse con le stringhe bianche, – I love Paaaris trallala!
Dalla
finestra aperta le rispose un allegro stridore di freni, sbattere di portiere e
nervosismo di clacson. Un pullman rombò a tempo.
–
I love Paris too – frusciarono i pneumatici sull'asfalto.
Che
giornata magnifica, per Angelica. Che profumo di tigli e sambuchi saliva fino
al sesto piano, a saperlo riconoscere, tra i fumi di scarico del corso. Che
incantevole effluvio di felicità. Neanche il fetido sudore dei cassonetti verdi
schierati lungo il marciapiedi riusciva a cancellarlo.
– La mer, qu'on voit danser… pom pom pom
pom, a des reflets d'argent…
Perché
mai sei così contenta, Angelica? Contaci un po', che fa piacere a tutti vedere
una ragazza bella e felice in una mattina piena di sole.
– Que reste–t–il de nos amours, que
reste–t–il de ces beaux jours…
Eh
no, questa canzone non va bene. Conservala per una giornata d'autunno, quando
il cielo sarà rigato di lacrime e il tuo cuore anche. Magari per quando avrai
qualche capello bianco, un paio di rughe attorno alla bocca, lo sguardo più
duro e persino un po' di cellulite sull'alto delle cosce, dove adesso i
pantaloni bianchi scivolano disinvolti senza incontrare alcun impedimento.
Ma
poi spiegami questo, Angi: dove le hai scovate delle tali anticaglie musicali?
Da un rigattiere? Al Balun? Magari rovistando nella soffitta di tua nonna? O
alla radio, nella rubrica L'angolo della nostalgia?
Nello
zainetto trova posto l'agenda zeppa di foglietti scritti in fretta, il
cellulare, un modesto portafogli – anche il contenuto è modesto –, un
assorbente che non si sa mai, fazzoletti di carta, spazzola, matita per gli
occhi, burro di cacao (non c'è bisogno di truccarsi tanto quando si hanno vent'anni
e l'amore in tasca), ma anche, che cosa vedo? un paio di mutandine di ricambio,
dentifricio e lo spazzolino da denti. Dove stai andando, Angelica? Se rispondi
a lavorare, non ci crede nessuno.
Al
portinaio che la salutava sorrise senza parole. Posta non ce n'era, ma tanto la
notizia – l'unica notizia che importasse – era arrivata via email: vieni alla
stazione domattina alle nove e trenta, salta sul treno che andiamo a Milano
insieme. Je t'aime beaucoup, passeremo una notte in albergo – ho un colloquio di lavoro, poi torniamo insieme e
mi fermo da te per qualche giorno. Senza firma, ma ce n'è bisogno? Leo è qui.
Leo mi vuole con sé. Leo arriva per amarmi e rendermi preziosa come il sole
all'alba, come la luna di sera. Come una meringa, perché mi guarda affamato di
me come fossi una meringa, bella piena di panna e bianca e dolce. Proprio lì in
mezzo alle gambe Angelica si sente importante, unica. Non è lì che si concentra
tutto? Come l'occhio del ciclone, come lo scarico della doccia in Psycho, come
il centro del bersaglio quel punto magico attira tutto ciò che gli ruota
intorno e lo inghiotte.
–
L'ombelico del mondooo…
Adesso
basta con le canzoni, Angelica.
–
Tu capisci, Lori, una settimana intera senza dormire, tra amore, prove, amore,
quel minimo di tempo per mangiare e dare un'occhiata al giornale, poi di nuovo
amore, una volta siamo persino andati al cinema…
–
Quando dici amore, intendi sesso?
–
Ma che sesso! Era amore, estasi, purissimo elevarsi allo stato più alto
dell'essere. Compenetrazione di anime e corpi, fusione perfetta.
–
Quando dici compenetrazione, intendi penetrazione?
–
Lori, come fai a non capire? Hai mai scopato con qualcuno che riesce a
trasformare un banale coito in un'esperienza mistica?
–
No, mai. Io sono una ragazza abbastanza fortunata. Quelli con cui scopo io sono
brave persone, che prima si danno da fare poi gli viene voglia di due
chiacchiere, due tenerezze, un caffè, una sigaretta, al massimo un grappino o
uno spinello. Una volta uno ha voluto a tutti i costi andare a fare una
passeggiata notturna lungo il Po, ma al secondo tossico ha capito che era
meglio tornare indietro. Siamo andati in birreria e ha pagato lui.
–
Beh… –. Angelica si scompigliò i capelli cortissimi e si sfregò gli occhi
spargendosi il rimmel sulle guance. – Leo è diverso. Quando arriva è come se si
appropriasse della mia vita e ne facesse un cartoccio. Ma è un cartoccio pieno
di caramelle al miele.
Lori
la guardò ammirata.
–
E adesso, quando vi vedete?
–
Chi lo sa? E' impegnato con uno spettacolo a Parigi per un mese, poi andrà in
tournée. Io sono bloccata qui fino a settembre. Forse riusciremo a incontrarci
per qualche giorno, ma…
–
Ne avete parlato?
–
Oh insomma! Lori, certe volte mi fai proprio scappare la pazienza. Non è una
storia così, lasciamo tutto al caso, all'estro… Un giorno o l'altro mi telefona
o mi manda un'email e io salto su un treno e lo raggiungo.
–
E se sei tu a telefonargli?
Angelica
tirò fuori diecimila lire, agitò lo scontrino verso il cameriere e pagò il
conto. Ormai il loro tavolino era stato raggiunto dal sole e faceva troppo
caldo per rimanere nella piazza polverosa, dove le vampe di afa stingevano la
quinta di colline in una foschia giallastra.
–
Adesso devo andare, scusa. Ti chiamo io appena ho tempo. Non ti offro un
passaggio perché sono a piedi.
Ci
sono volte in cui anche le migliori amiche sono più simpatiche
nell'immaginazione che nella realtà. Angelica riconobbe che sarebbe stato molto
meglio ripassare i ricordi da sola, invece che cercare di riassaporarli in un
franco e intimo colloquio femminile.
Sotto
la doccia, Angelica insaponava con furia le lunghe braccia magre, i gomiti a
punta, le gambe muscolose, i piedi ossuti, il collo sottile (Sembri Alice
quando il collo le cresce a dismisura, e il piccione grida: un serpente! un
serpente! stai cercando di mangiare le mie uova! e non accetta ragioni, non
vuole credere che sia una bambina), tutto tranne dove la memoria di Leo
si è incisa a fuoco. Sui seni la spugna passa con cautela, tra le gambe esita a
fregare. Solo a sfiorarli, la pelle comincia a pulsare, i capezzoli diventano
sensibili, un calore dolente e inquieto si irradia giù per le cosce e su per il
ventre dal centro di tutti i piaceri.
–
Quando dici amore, intendi sesso?
E
vaffanculo, Lori. Anche l'estasi di tutte le Sante Terese del mondo, con i loro
occhi rovesciati, le frecce angeliche puntate verso il pube, il deliquio e il
venire meno, sappiamo benissimo che cominciano proprio di lì, da quel punto
rovente e capriccioso e vorace. Posso chiamare quello che voglio come voglio?
Era sesso ma anche esperienza mistica. Te lo giuro, ho visto il sole roteare e
le stelle, la luna, la via lattea, tutto quel che ti viene in mente di
astronomico, in pieno giorno e in piena notte, indipendentemente dalle
condizioni meteorologiche. Ho visto dio e la madonna e mio padre buonanima, ho
capito il mistero dell'universo e l'origine del mondo. Tutto in una scopata,
sì, proprio tutto nel dolce su e giù, in quella cosa che quando la faccio con
Renato al massimo mi esce un sospiro – ah, sì amore – e invece con Leo mi
lascia muta, pietrificata e santificata insieme, sciolta come un gelato in una
sera d'agosto e trasparente come un ghiacciolo in gennaio. Non me lo spiego, ma
è così.
Angelica
si avvolse nell'asciugamano più ruvido che aveva, se lo sfregò sulla schiena,
si asciugò in fretta e si rivestì in un baleno. Il minimo possibile. Mutandine,
bermuda, canottiera e infradito. C'erano un sacco di cose da risolvere, dopo la
vacanza d'amore. Due esami da preparare. Bollette, conti, scadenze, telefonate
a cui rispondere, e soprattutto ricominciare a esercitarsi, trovarsi con i
colleghi del gruppo, lavorare allo spettacolo che stavano allestendo, ma non
era ancora il momento. Sdraiata sul parquet fresco, braccia e gambe aperte come
una stella di mare dimenticata dalla marea, Angelica si sforzò di pensare.
–
Quando dici compenetrazione, intendi penetrazione?
lunedì 6 novembre 2017
Amici nella steppa: Jan Brokken, Il giardino dei cosacchi
Jan Brokken con Emilia Lodigiani, fondatrice delle edizioni Iperborea |
Il giardino dei cosacchi da cui prende il titolo il romanzo è una dacia poco fuori dalla città dove gli amici trovano rifugio durante le bollenti estati siberiane, coltivando il giardino e l'orto, ricevendo donne e ragazze, fumando pipe tranquille e parlando di sé, della vita e del mondo, proprio come ci si può immaginare due personaggi della letteratura russa, sempre impegnati in eterne discussioni sui massimi sistemi.
Ma siccome sono maschi giovani parlano molto anche d'amore e delle donne che amano. Ecco, le donne in questo libro meritano un discorso a parte. Possiamo dire che non ne escono benissimo. Si dividono grosso modo in due categorie: le prostitute e le adultere. Ora io non penso che l'appartenenza a nessuna delle due categorie abbia qualcosa di disdicevole, anzi, è indice di intraprendenza, coscienza del proprio valore e curiosità, ma qui, essendo il punto di vista esclusivamente maschile, il risultato è un po' riduttivo. Alla prima categoria appartengono le ragazze siberiane, tutte pronte a vendersi per qualche copeco e in genere (con eccezioni come la povera e bellissima Marina O) piuttosto allegre e sfrenate; mentre della seconda fanno parte le donne amate dai protagonisti. Entrambe di ottima famiglia, sposate e madri (Madame X, l'oggetto della passione di von Wrangel, ha sei figli), maggiori di età, si giostrano disinvolte tra amanti (numerosi), mariti e obblighi familiari e mondani, mentre i due amici spasimano, soffrono e le inseguono nelle steppe della Siberia e poi a Pietroburgo, dove alla fine arrivano tutti. E intanto si scambiano buoni consigli, cercando di scoraggiarsi a vicenda perché ognuno dei due è convinto che la donna dell'amico non sia adatta né degna di lui.
Poi ci sono i matrimoni, ma non voglio raccontare troppo qui. Man mano che la vita li allontana sono le lettere a tenerli uniti, e sporadici incontri. Intanto vediamo anche la genesi di alcune opere di Dostoevskij, e il suo rapporto con la scrittura. Vale assolutamente la pena di leggere il romanzo, che comincia un po' sottotono (l'autore deve darci una certa mole di informazioni per poter muovere i suoi personaggi) ma poi decolla e acchiappa e ci trascina sulle strade della steppa, nei salotti rococò della capitale, nelle dacie solitarie e nelle vie polverose delle cittadine siberiane.
Un accurato apparato di note e un paio di mappe aiutano il lettore chiarendo molti nodi, mentre la
bella traduzione è di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo.
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