domenica 24 novembre 2024

La bambina delle masche di Antonio Graziosi: masche e montanari, un esempio di convivenza riuscita

 Antonio Graziosi | Global Labor Organization (GLO) 

Ho incontrato questo libro ai Portici di carta fortuitamente, attirata dal titolo (ho un debole per le masche!) e ho conosciuto l'autore. Incontro molto fortunato perché "La bambina delle masche - Cinquecento anni nella grande valle" si è rivelata una lettura gradevolissima e molto intrigante. Ambientato nel villaggio montano di Vaures, all'entrata di una grande valle circondata da alte cime, alterna una descrizione precisa e suggestiva dei luoghi a spunti storici che si dipanano lungo cinquecento anni, seguendo da vicino le vicende della famiglia Richelmy, dal capostipite Genesio, fino ai giorni nostri con Vittoria, che rappresenta il punto d'arrivo dei destini della famiglia. Il tutto attraverso le vicissitudini militari, e politiche che malgrado l'isolamento della valle, strategicamente disposta tra Liguria, Piemonte e Francia, (la minaccia costituita prima dai Saraceni poi dagli altri invasori, ultimi dei quali i tedeschi) sconvolgono la vita dei contadini e dei pastori. 

Ora, detto così sembra una trama scontata e serissima, ma quello che proprio mi ha incantata è la geniale maestria con cui l'autore intreccia vicende storiche, umane e magiche, rendendo molto pressante il piacere di continuare la lettura. Sì, perché nella parte alta della valle vive una numerosa comunità di masche (in piemontese, streghe o figure fatate) che non disdegnano di intervenire nelle vicende umane, anzi, nei casi particolarmente gravi, come la bambina nata da un rapporto incestuoso tra fratelli, se ne fanno spesso carico, di modo che l'interazione tra le due comunità è vivace e fruttuosa. E quando ai giorni nostri i paesini della valle, come in tutte le montagne intorno, si spopolano, la vecchia casa dei Richelmy continua a costituire un polo di attrazione che permette il ricongiungimento e la fusione tra le due comunità, quella umana e quella magica.

 Ora questa non è una vera recensione ma solo un consiglio di lettura molto convinto, e non riassumo le vicende individuali dei vari personaggi, peraltro molto ben delineati, lasciando al  lettore il piacere di scoprirle. Non è difficile farsi sedurre dal "realismo magico" di Antonio Graziosi, mai eccessivo ma profondo e oltremodo attraente, e dalla sua prosa chiara e elegante. Il fascino delle valli, poi, da solo giustifica l'abbandono al mistero e alla magia.

E nel caso vi interessasse, su Amazon trovate il mio "Il gioco della masca".










martedì 19 novembre 2024

Un libro un po' diverso dal solito, che vale veramente la pena leggere: Luisa Ramasso, La ragazza che non parlava

 


In questo periodo sono pigrissima per cui continuo con le segnalazioni brevi, e comincio da un romanzo autobiografico molto particolare, molto interessante e pieno di umanità.

Luisa Ramasso racconta la sua vita con grande consapevolezza e semplicità, senza mai cadere nel vittimismo o nell'eccesso di psicologismo. Parla di sé, perché di questo si tratta, ma sempre con gli occhi ben spalancati sul mondo. Nata nel 1960 in una famiglia attiva e compatta, con una sorella maggiore che la segue da vicino e la sostiene, Luisa soffre fin piccola di alcuni sintomi molto debilitanti - mutismo volontario, stereotipie motorie, crisi di angoscia e di pianto, che ora fanno pensare subito all'autismo, ma allora non erano ancora così ben note né riconoscibili come oggi. Solo quando raggiunse i sedici anni Luisa ricevette una diagnosi precisa che le permise poi di fare scelte mirate. 

 Ragazzina notevolmente intelligente e con gli occhi ben aperti sulla realtà in cui si muoveva, la giovane Luisa era molto attenta alle amicizie, aveva idee chiare (anche se pronte a cambiare, come succede a qualsiasi adolescente) su quello che le interessava e quello che avrebbe voluto fare nella vita, al tipo di studi eccetera. I vari momenti della sua esistenza, che nell'infanzia e nella prima giovinezza è semplice, si svolge tra scuola, famiglia, Torino e Rubiana ma poi si allarga negli interessi e nelle attività, sono narrati in modo chiaro, leggero e senza giudizi, prendendo atto dei fatti con quella che pare una serena accettazione. Naturalmente fu seguita da medici e psicologi, e a sedici anni fu riconosciuto il suo autismo. I genitori premurosi e protettivi le offrivano tutta l'attenzione possibile, e la sorella Silvia le era sempre vicina con grandissimo affetto. Crescendo anche i suoi rapporti e le sue attività si ampliarono e si moltiplicarono come per qualunque persona, comprendendo il lavoro (dapprima nella tipografia del padre, poi nella casa editrice Neos fondata dalla sorella), la scoperta della musica e della scrittura, la politica, gli amori, gli incontri, e ci furono anche momenti difficili. Nell'età adulta, il volontariato, la frequentazione di gruppi religiosi e figure carismatiche, la morte dei genitori, i viaggi e i nuovi amici si susseguono fino a oggi.  

Tutta la narrazione riesce a essere accattivante anche se non c'è una trama vera e propria, la voce di Luisa Ramasso narra la sua vita come una serie di episodi, con tono calmo e molta sincerità. Il testo è diviso in brevi capitoli, ognuno con un titolo che ne annuncia e riassume il significato. L'insieme comunica alcune sensazioni nettissime: sincerità coscientemente perseguita, padronanza della scrittura, una voce narrativa robusta e interessante.

Ecco, questa direi che è la caratteristica principale di "La ragazza che non parlava", quello per cui ne consiglio vivamente la lettura: è un testo insolito, fuori dai soliti schemi narrativi, e molto stimolante, sia per la tematica coinvolgente che per la grande perizia con cui è stato concepito e scritto. Certo non è adatto a chi spera di trovare in ogni libro un nuovo Montalbano o un amore travolgente, ma chi legge per scoprire qualcosa che gli apra orizzonti sconosciuti ne sarà molto soddisfatto.   

    

venerdì 8 novembre 2024

I quaranta giorni del Mussa Dagh: qui si parla di guerra, eroismo, sterminio, deportazione, morte, ma anche di amore, figli, speranza.

 



Una lettura molto impegnativa ma di grandissimo interesse. Le 912 pagine di questo romanzo storico, uscito nel 1935, mi hanno acchiappata e trascinata malgrado non sia un'appassionata di storia. Certo, per apprezzarlo è meglio andarsi a leggere qualcosa sul periodo (e sulla geografia di quell'angolo di Mediterraneo tra Turchia e Siria in cui si svolgono le vicende). Per un caso involontario, il periodo è più o meno lo stesso di "High Albania", il resoconto di viaggio di Edith Durham che tanto mi è piaciuto (1908 "High Albania", 1915 questo), ovverossia gli anni in cui il movimento dei Giovani Turchi e la situazione internazionale portarono alla dissoluzione dell'impero ottomano (1922).  

L'argomento è decisamente tragico: in seguito alla presa di potere dei Giovani Turchi, movimento nazionalista e laico, nel 1914 e 1915 ci furono deportazioni e stermini ai danni degli armeni che risiedevano in Turchia, in quello che è definito "genocidio armeno". Gli Armeni risiedevano per lo più nella parte orientale dell'Anatolia (ma mi raccomando, non accontentatevi di queste risicatissime e imprecise notiziole, l'argomento è molto complicato) e qui le persecuzioni coinvolsero tutta la popolazione, L'ordine del governo centrale era di abbandonare tutti i beni mobili e immobili, e dirigersi verso il deserto mesopotamico, dove i deportati morirono di stenti e malattie o furono massacrati. La comunità armena, di religione cristiana, era parecchio ricca, v'erano mercanti e imprenditori, e i residenti turchi potevano appropriarsi di tutto quello che si erano lasciati alle spalle. 

E qui comincia la vicenda del romanzo che rispecchia une pisodio reale: gli abitanti di sei villaggi alla base della montagna del Mussa Dagh, sul golfo di Alessandretta, decisero di ribellarsi all’ordine di prepararsi per la deportazione. Sotto il comando e l'organizzazione di un giovane borghese, nativo del posto ma educato e riesedente a Parigi, sposato con una francese, si rifugiarono sulle pendici del monte dal 21 luglio al 12 settembre 1915, con i viveri che erano riusciti a raccogliere e le armi. L’esercito ottomano tentò più volte di sconfiggere la resistenza della popolazione asserragliatasi sul monte, senza successo. La capacità di organizzazione e le energie impiegate nell'impresa furo eccezionali, ma alla fine i resistenti avrebbero dovuto subire la stessa sorte dei compatrioti, se non fossero riusciti a sfruttare la posizione in vista del mare per attirare l’attenzione delle navi francesi di passaggio nel golfo; in questo modo, dopo una breve trattativa, tutta la popolazione venne imbarcata e portata in un campo profughi a Port Said, in Egitto, 

Questa è la parte storica, ma il fascino del romanzo sta nell'incredibile capacità di Franz Werfel di far muovere una folla di personaggi che vanno dai mendicanti che vivono attorno ai cimiteri ai massimi gradi della politica turca, dal protagonista Gabriel Bagradian alla moglie europea che si trova improvvisamente immersa in una tragedia di cui non può comprendere il senso né la portata, i borghesi acculturati e i contadini analfabeti, i militari, tutti travolti dalla tragedia, divisi nel modo di pensare e di vivere ma accomunati da questo folle progetto di opporsi alla strapotenza ottomana (ormai in gravissima crisi peraltro, e molto prossima alla fine). Nei quaranta giorni della permanenza sul Mussa Dagh innumerevoli sono i drammi che si svolgono e ci vengono narrati, alcuni strettamente personali, ma tutti attorcigliati e esasperati dalla situazione estrema. I personaggi sono indimenticabili, accuratamente creati e descritti, molto credibili. Il romanzo è veramente molto lungo, e forse alcune parti in cui vengono riprodotti i discorsi relativi alle strategie da porre in atto e alle diverse posizioni politiche in discussione richiedono un'attenzione particolare, ma il risultato è magnifico e appassionante, non si può abbandonare. Un romanzo che consiglio sinceramente a tutti i veri lettori, vi aprirà un mondo poco conosciuto e rappresentato in maniera perfetta.  

     

domenica 8 settembre 2024

Una lettura perfetta: Edith Durham, High Albania


Sono in giro, tra tempo risicato e collegamenti internet precari non riesco a scrivere una vera e propria recensione ma devo assolutamente fare una segnalazione del libro che ho letto con passione e interesse crescenti in queste ultime settimane. Tra l'altro, mi piacerebbe che chi legge potesse condividere la vista che ho dal balcone da cui scrivo: a Samotracia, campagna sterminata, ulivi, fichi, gelsi, pioppi, cipressi e ginepri, albizie iulibrissin, acacie, in lontananza querce e la mole imponente del monte Fengari, quello che fa ombra al Santuario dei Grandi Dei e ai loro cupi misteri, persino un paio di palmette (immigrate naturalmente), un numero imprecisato di gatti scheletrici sempre in movimento, la chiesetta bianca del cimitero su una collina, e l'imperdibile audio che l'accompagna: un vastissimo silenzio interrotto da qualche tortora (per fortuna poche e lontane), moltissimi chicchirichì di galli, molti coccodè di galline, frequenti “malaka” dai giovani poliziotti che occupano due stanze nel cortile, ogni tanto chiacchiere a alta voce con fragorosi scoppi di risa, molto gradevoli, e soprattutto verso il tramonto almeno mezz’ora di belati e campanelle quando le pecore tornano dal pascolo e passano vicinissime, ma nascoste dalla vegetazione. 

In questo luogo così bello e pieno di sorprese (le nuvole se ne inventano una nuova in continuazione) ho letto “High Albania” di Edith Durham, scrittrice inglese (1864-1943) di cui non sapevo niente e non avevo letto niente. Ora, prima di andare avanti devo chiarire che non si tratta di un libro di narrativa ma del resoconto di un viaggio compiuto nel 1908, quando tra l’altro il movimento dei Giovani Turchi ottenne dal Sultano il ripristino della costituzione del 1876, dando inizio alla rivoluzione che abbattè l’impero ottomano. Ma “High Albania” non tratta questioni politiche né storiche, narra con grandissima partecipazione e velocità quello che l’autrice vide durante la sua esperienza di donna occidentale che viaggiava sola in territori davvero inusuali.

Ora è passata poco più di una decina di giorni e mi ritrovo a scrivere su un altro balcone, davanti a una foresta di pali della luce dietro i quali un mare azzurro e liscio, solcato da un traffico intenso di traghetti (silenziosissimi) soffre con me per il rumore continuo e insopportabile di auto, bus, camion e fragorosissime moto che ci separano scorrendo senza sosta. Svanita la poesia del silenzio interrotto solo dalle voci degli animali e delle nuvole sul Saos. Va be’, il balcone è comodo e il wi fi nel complesso tiene. Ma a parte queste notazioni personali, resta il fatto che penso che “High Albania” sia un libro da leggere assolutamente se siete curiosi del mondo e delle sue vicende meno conosciute, vicine a noi ma lontane anni luce dagli argomenti di moda. Edith Durham (Londra 1864-1943; cercate notizie su Wikipedia se avete fretta, c’è anche una foto, ma si reperisce molto altro in rete) intraprese questo viaggio nell’alta Albania, cioè nelle montagne che ora la separano da Montenegro, Kossovo e Macedonia del Nord, per il suo piacere, a spese sue, spostandosi a piedi e dov’era possibile a cavallo, accompagnata da una guida locale, arrampicandosi su montagne scoscese e guadando fiumi, usufruendo dell’accoglientissima ospitalità di preti e frati, di notabili o di privati cittadini, sempre pronti a dare ricetto ai viaggiatori secondo le proprie possibilità. Tutti accorrevano per vederla, toccarla, se riuscivano la coprivano di domande (Edith Durham parlava serbo e Marko, la sua guida, le faceva da interprete per le altre lingue locali), quando c’erano autorità di qualsiasi tipo facevano degli incontri in cui si scambiavano informazioni e stupori. È incredibile l’interesse che suscita la situazione di questi territori che ci appaiono più esotici dell’Africa (e ancora oggi non credo siano notissimi). Divisi in tribù, spaccati tra cattolicesimo, ortodossia e islam, facevano parte dell’impero ottomano che odiavano, ma ancora di più odiavano gli slavi, i Serbi, non conoscevano autorità né un governo centrale e ubbidivano solo al Kanun, la legge di Lëke Dukagjini. L’unico legame riconosciuto era quello familiare (nel libro non si parla mai di villaggi, ma solo di case), i rapporti tra uomini erano diretti dall’onore e dal “sangue”,  faide crudelissime e rigidissime che comportavano ammazzamenti senza pietà, le donne erano merci di scambio di proprietà strettamente maschile, venivano talvolta vendute anche prima di nascere, cedute o barattate a seconda delle esigenze familiari. 

In questo mondo incredibile Edith Durham ci fa fare una full immersion con estrema chiarezza e onestà, senza mai dare giudizi né dimostrare emozioni o cedimenti sentimentali, con occhi spalancati e attentissimi ai particolari, tenendosi ai margini come persona e tenendo sempre viva l’attenzione del lettore. Io mi ci sono appassionata malgrado l’abbia letto in condizioni non proprio semplici, e mi è dispiaciuto moltissimo quando l’ho finito. 

Se volete leggerlo in italiano, il titolo è “Nella terra del passato vivente”, Salento Books 2016, in versione cartacea. 

sabato 27 luglio 2024

Proverbi con la coda


 

Fa caldo e ho il cervello in ferie anticipate. Leggo poco e male, nessuna voglia di scrivere recensioni. Così mi diletto a scrivere cazzate. 

Raccogliere cestini

è un hobby da bambini

Raccogliere bicchieri

va bene per i camerieri.

* * * 

Raccogliere tempesta quando si semina vento

è pur sempre un aumento 

del capitale iniziale.

* * *

Rosso di sera bel tempo si spera,

tranne quando si è vicini 

a un bosco di pini.

* * *

Se un bel tacer non fu mai scritto, 

sarà per essere pubblicato 

che Salvini non sta mai zitto?

* * *

Non serve piangere sul latte versato, 

per terra è già bagnato

e se nei dintorni c'è un gatto 

si lecca i baffi soddisfatto. 

* * *

Se in amor vince chi fugge,

di certo un fuorilegge 

farà strage di cuor. 

* * *





domenica 16 giugno 2024

Non fatevi ingannare!!!

 

 

La ragazza in tailleur rosso fuoco si fermò di colpo. Parve riflettere un attimo poi mollò uno schiaffone sulla faccia del giovanotto in completo nero e camicia bianca. Sbam, da destra a sinistra, sbam, da sinistra a destra con il dorso della mano, sbam, sbam, sbam, cinque cattive sberle, senza sforzo perché erano alti uguali. Solo quando la sua mano si mosse per la sesta volta lui si decise a afferrarle il polso. Qualche passante allarmato già li circondava. Ma l’uomo si limitò a voltare le spalle e andarsene, incurante del sangue che gli colava sulla guancia ferita dall’anello di lei. La ragazza frugò nella piccolissima tracolla di vernice, estrasse un mazzo di chiavi e marciò via sui tacchi alti senza neanche lanciarsi un’occhiata attorno.

No, non fatevi ingannare dalla copertina molto rosa, dal cuore, dall’amore, dall’autrice femmina: non è un libro sentimentale né delicato, né dolce né ottimista né lieto. È un libro che racconta alcune delle possibili incarnazioni dell’amore, se vogliamo chiamarlo così. Che parla dell’infinita varietà delle vicende umane, con l’unica speranza di intrattenere chi lo legge, come un racconto davanti al caminetto acceso. Soprattutto non propone messaggi né analisi né denunce. Ma se vogliamo solo contarcela un po’, forse questo libro vi potrà piacere.

domenica 12 maggio 2024

Amori senza rete: il mio ultimo libro per ricordarci che l'amore è un esercizio acrobatico

 


“Quando si parla di amore, tutti quanti sorridono e annuiscono, sicuri di conoscere benissimo l’argomento. Ma l’amore, precisamente, che cos’è? Per ognuno ha un significato diverso, sovente opposto e incompatibile. E così tutti continuiamo a sognare, scrivere, cantare, dipingere, inventare storie sull’amore: è un argomento infinito, di cui non ci si stanca mai.

In questi racconti ci sono alcuni esempi di quello che può essere l’amore, e di come lo si può vivere. Tra adulti o tra adolescenti, tra lacrime e disperazione o nell’esaltazione della felicità, nella sincerità più spietata o nell’inganno affettuoso, usandolo per riscuotere la propria orgogliosa identità o abbandonandosi al culto dei ricordi. Quel che è certo è che si tratta di un sentimento anarchico e irrazionale, di cui non riusciremo mai a ridurre la molteplicità, e che se ne va sovente a braccetto con il suo spaventoso alter ego, l’abbandono. Forse in qualcuna di queste pagine ci si può riconoscere con un sorriso o con una smorfia. Ma lui, l’amore, continuerà a illuderci e farsi beffe di noi, regalandoci ogni tanto cinque minuti di felicità.”

 Questa è la quarta di copertina della mia ultima produzione, che la mia magica e incomparabile editrice, Elisa Labanca, Buckfast Edizioni, mi ha fatto trovare ancora caldo al Salone del Libro. E' una raccolta di sedici racconti che si aggirano attorno all'argomento annunciato dal titolo, ma ho paura che deluderà chi cerca baci, carezze, sposalizi e lieto fine... l'amore è più complicato di così. E magari qualcuno troverà qualche parte un po' forte, ma insomma, la conclusione è sempre la stessa, lo sappiamo tutti che l'amore è lacrime, sangue, dolore, sesso, fa sorridere e sognare ma anche piangere e gridare. Va be', io sono felicissima di vederlo accanto ai suoi fratelli (è il quattordicesimo, a parte le ristampe) e spero che a qualcuno piacerà. Potete trovarlo al Salone del Libro, allo stand della casa editrice Buckfast, e naturalmente in libreria. Non mi resta che augurargli di piacere molto a chi lo legge. A proposito del titolo: senza rete si riferisce al fatto che l'amore è un rischio contro il quale non c'è difesa che tenga, ma anche che qui non si parla quasi mai di internet, l'amore non ha bisogno del digitale per nascere, crescere e diffondersi, lo riconoscono tutti!    

sabato 27 aprile 2024

Toh, guarda chi si vede! Begli incontri dal gionalaio: Guido Gozzano, L'altare del passato

  

 
Non credevo ai miei occhi quando l'ho visto: una copia sola della più che meritevole casa

editrice Capricorno, ma era proprio lui, il mio amatissimo Guido che mi guardava dalla copertina di un libro sul ripiano  traboccante di gialli nostrani e stranieri! E per di più era una raccolta di racconti, quindi un volume doppiamente prezioso. A dir la verità li avevo già letti abbastanza recentemente, ma non ho resistito, l'ho comprato e ho passato alcune ore di piacere sfrenato in compagnia del poeta che amo senza riserve. 
Non sono molti i poeti che amo leggere, nel senso che detesto lirismo, emozioni, eccesso di sentimenti, parole accostate per épater le bourgeois, ermetismi vari e preziosismi. Amo la limpidezza mentale e emotiva, la chiarezza verbale, l'ironia se c'è (ma non è indispensabile), le immagini concrete, la capacità di comunicare. Gozzano possiede tutte queste qualità, come anche altri naturalmente, ma siccome non è che i miei gusti personali siano così interessanti rimaniamo nel seminato. 
Io penso che Gozzano sia uno degli scrittori italiani più sottovalutati. Si dice il suo nome, e tutti immediatamente dicono "le buone cose di pessimo gusto" o "Signorina Felicita" e finisce lì. Ma c'è ben altro, anche a fermarsi alle sue bellissime, limpide poesie. C'è l'ironia che tutti riconoscono ed appare nelle situazioni, nelle descrizioni o anche solo nella scelta dei termini, c'è un filo di cattiveria, persino di crudeltà sottile (vedi "Le due strade"), c'è la capacità di parlar chiaro, c'è un onnipresente senso di morte unito a una profonda e spietata autoironia. Bisogna sempre ricordare che Gozzano, con tutto il suo raffinato snobismo culturale, era giovanissimo: malato da sempre, probabilmente prevedeva il suo futuro, si dovette curare per anni, e morì nel 1916 a 32 anni. Le sue opere più note, La via del rifugio e I colloqui, furono pubblicate rispettivamente nel 1907 e nel 1911. Le opere in prosa uscirono per lo più postume.
In questa raccolta di racconti, L'altare del passato, uscito nel 1918, si trovano tutti i suoi temi, e altri si notano ancora di più: come l'attenzione verso le donne, benevola, critica, ammirativa o spaventata, ma comunque sempre vivissima e assolutamente dominante rispetto a quella verso gli uomini. Ma in generale in tutti i testi quello che conta sono i personaggi, descritti, osservati, studiati, non tanto lo sviluppo narrativo, quasi inesistente o almeno di pochissimo impatto. Gli interni, descritti con particolari mai superflui, gli esterni pieni di fascino, si fanno palcoscenico e quinta per l'esibizione di personaggi indimenticabili come il conte Fiorenzo in "L'altare del passato", inquieto tombeur de femmes e solidissimo punto di riferimento per il nipote e i suoi amici, ma soprattutto di donne straordinarie, la ballerina Palmira Zacchi, la sadica piccola Eleanor che sarà punita dalla vita, un'altra Eleanor, mostruosa e un po' soprannaturale, o per reminiscenze della Torino d'antan, come la "bela madamin" e Madama Reale, e infine per storie ambientate in paesaggi esotici, Porto Said e l'India, che dall'esotismo dell'ambientazione prendono forme magiche e coloratissime. 
Insomma, io consiglio a tutti di leggere questi racconti (o comunque di accostarsi alle opere in prosa di Guido Gozzano come Verso la cuna del mondo e l'epistolario con Amalia Guglielminetti). È un aspetto dell'opera di un grande scrittore tutto sommato poco conosciuto malgrado la sua fama, e non deluderà nessuno, se non forse chi dalle pagine di un libro si aspetta solo thriller o romance (e ho usato questi due termini apposta, quel gran snob di Guido si sarebbe fatto una risata).  
Per concludere, un pensiero che mi viene tutte le volte che leggo qualcosa di suo, Guido Gozzano è morto a 32 anni, e ha passato molto tempo a combattere la malattia. Chissà, se ne avesse avuto le forze e il tempo, che cosa avrebbe saputo raccontarci ancora, con le sue parole limpide e colte.      

 


sabato 2 marzo 2024

Chi si ricorda del Capodanno del 2000? Non più mille, un racconto ormai preistorico

 

La donna camminava lentamente facendo dondolare con una mano un parasole di seta color crema.  Portava un abito scollato di pizzo nero e tacchi altissimi che la facevano barcollare. Mi chiesi come potesse sopportare il gelo della notte invernale. Vista da dietro, la sua figura sottile faceva pensare a una giovinezza inoltrata e un’espressione meditativa. Quando la superai e mi volsi a guardarla, vidi invece che era quasi vecchia e sotto alle spesse lenti da miope piangeva lacrime così brucianti da esalare vapore. “Non si sente bene? Le serve qualcosa?” le chiesi. Non è mia abitudine rivolgere la parola per strada a donne sconosciute, ma quella era una notte speciale, sembrava che tutti conoscessero tutti e parlassero con tutti. Lei scosse il capo, forse non mi vide nemmeno, tra il buio, le lenti e le lacrime. Non insistetti, perché ero in ritardo. Viola, vestita di lamé d’argento, mi aspettava nella baraonda della sua casa profumata di fiori e frizzante di champagne, calda di cibo, vibrante di musica e dell’allegria di chi in quel momento stava pensando: “Purché mi basti il fiato ancora per tre ore, due ore, un minuto, dong! Mezzanotte!” Nella strada non c’era più nessuno. I caroselli con il claxon schiacciato, le urla ubriache, i fuochi artificiali e gli spari sarebbero cominciati dopo, nel nuovo millennio.  Mi volsi ancora a guardare la donna. Si riparava sotto il parasole per difendersi dai primi fiocchi lenti e radi. Quando mi aprì la porta, Viola aveva in mano una coppa piena di vino e due orchidee bianche dietro all’orecchio. Mi baciò sulla bocca e disse: “E’ bello essere insieme stanotte.” Gli amici mangiavano e si scambiavano brandelli di ricordi, dichiarazioni d’amore, e nomi, sfilze di nomi di assenti lontani spariti defunti. Viola mi teneva per mano come se avesse paura che d’improvviso mi sarei buttato dalla finestra, spalancata per fare uscire il fumo. Trascinandomela dietro, mi affacciai a guardare in strada. La donna in nero era sul marciapiede di fronte, avanzava piano piano nel vortice di fiocchi bianchi stringendo il parasole con entrambe le mani. “La neve!” gridò qualcuno, spingendomi via. A mezzanotte le coppe scintillanti volavano l’una verso l’altra in brindisi storditi, su tutti i volti splendeva il sollievo: “Ce l’abbiamo fatta! Siamo qui, siamo vivi, noi, i privilegiati, abbiamo piantato solidamente un piede nel 2000, alla faccia delle persone care o dei  nemici caduti per strada!” Ballai un lento con Viola, sussurrandole nell’orchidea ciancicata parole d’amore che non avevo mai saputo prima. Verso l’alba uscimmo. Nevicava fitto e quel bianco intatto era più eccitante dello champagne. Tutta la città era per strada, solo i malati e i troppo vecchi erano rimasti nelle loro tane calde a leccarsi le ferite. Certo qualcuno stava morendo, felice di avere comunque varcato la soglia fatidica o incosciente del giorno e dell’ora. I fuochi d’artificio scoppiavano anche se la neve li spegneva prima che potessero levarsi nel cielo giallognolo. Ebbi la visione di tutto il pianeta che brindava, ventiquattr’ore di tappi che saltavano, baci distribuiti a casaccio o con intenzione, coppie che copulavano per inaugurare il millennio, bambini che nascevano al momento giusto, un caos di vita e di morte  che festeggiava un evento insignificante, un giorno di più per il mondo, uno di meno per noi sopravvissuti. Per un attimo mi parve di riconoscere la donna in nero appoggiata a un lampione, con un bicchiere in mano e un braccio che le cingeva la vita. Poi la folla si mosse e non la vidi più. Tornai a casa con Viola per fare l’amore, ma eravamo così ubriachi che ci addormentammo vestiti nella luce sporca del mattino. La sera, la neve era già sciolta.     

martedì 27 febbraio 2024

Giuse Lazzari, Qualcosa di luminoso: attorno al lago e in cielo

 


Un libro curioso e interessante che forse non ha avuto tutta l’attenzione che merita. L’ambientazione è nel 2010, in una cittadina senza nome, dove c’è un lago sulle cui sponde gli abitanti amano fare passeggiate, una Fabbrica che dava lavoro ma poi ha chiuso lasciando molti per strada, tutti si conoscono e sanno tutto degli altri abitanti (il che ovviamente significa che non ne sanno niente), chiacchierano e sognano. 

I personaggi sono numerosi ma non troppi, ritornano ora come protagonisti ora come comparse, di alcuni veniamo a sapere di più, anche del loro passato, altri sono appena accennati. Si tratta di persone normali, donne anziane, vigili urbani, ragazzi in skateboard, le cui vicende si intrecciano o si sfiorano, senza mai uscire dall'ordinario. Ciò che le accomuna, e di ordinario non ha niente, è che tutti hanno visto una una strana presenza nel cielo - qualcosa di luminoso e indescrivibile, una specie di razzo splendente che brilla e si dilegua velocissimo. Quel qualcosa, descritto ora come razzo ora come astronave ora come luce pura, rappresenta per ognuno qualcosa che non ci viene spiegato ma in qualche modo preannuncia un cambiamento di vita. 

Quella che incuriosisce molto è la struttura, l'intreccio tra i personaggi, che vanno inseguiti da un breve capitolo all'altro, ma non solo non disturba la la lettura ma la rende varia, mostrandoci i personaggi da vari punti di vista e angolature differenti, anche grazie a una scrittura limpida e veloce. Non racconto nessuna vicenda perché non voglio spoilerare né ridurre il piacere di questo vagabondaggio lungo le sponde del lago. Quello che posso assicurare è che la lettura è gradevolissima, scorre e ci trascina senza affaticare mai né annoiare. 

Un libro da cercare e da leggere. Sono sempre più convinta che gli autori indipendenti e la piccola editoria coraggiosa sono gli unici che riservano belle sorprese e piccoli tesori come "Qualcosa di luminoso" di Giuse Lazzari, pubblicato da Campanotto. La foto di copertina è di Paola Massa.  

venerdì 2 febbraio 2024

Pagine in viaggio - Metropolis, a cura di Giorgio Enrico Bena

   Una delle molte belle antologie prodotte dalle Edizioni Neos, il cui titolo mi ha attirata appena l'ho letto. Pagine in viaggio, questo fa per me, ho pensato. E infatti la lettura è stata davvero gradevole e interessante. 

Le metropoli di cui si parla nel testo sono quindici, di cui ne ho visitate solo sette. Il mio cuore di viaggiatrice ha perso qualche battito al pensiero, però è stato bello confrontare i ricordi di quelle che conosco e scoprire qualcosa sulle altre. Riccardo Marchina ci parla di Mosca, Darwin Pastorino di San Paolo, Giorgio Enrico Bena di Pechino, Paolo Camera di Tbilisi, Anna Balbiano d'Aramengo di Toronto, Caterina Schiavon di Delhi, Teodora Trevisan di Atene, Giorgio Macor di Tokyo, Paolo Calvino di Vienna, Fernanda De Giorgi di Mumbay, Ornella Corradi di Dubai, Raffaele Tomasulo di Vancouver, Franca Rizzi Martini di Saigon, Carlotta Graffigna di Ginevra e Germana Buffetti di Città del Messico. Sono testi brevi e talora brevissimi in cui l'elemento narrativo spunta solo qualche volta, mentre più spesso prevalgono la descrizione e l'informazione, le impressioni visive, le osservazioni degli autori di cui si possono intuire gusti e giudizi. 

E' una lettura molto stimolante, di ogni città che conoscevo mi veniva subito voglia di aggiungere la mia esperienza, per quelle sconosciute mi spuntava in cuore un desiderio di vederle con i miei occhi... Per viaggiatori appassionati come me ma anche per chi i racconti preferisce leggerli sul proprio comodo divano. Pagine in viaggio - Metropolis è un libro che fa peccare di desiderio e fa sognare, può spingere a ripercorrere le orme degli autori o a leggere bevendo un tè con due biscottini. Viaggio e racconti sono un'accoppiata vincente, quando poi gli autori sono brillanti come quelli di Metropolis, non si può che arrendersi alla lettura.  
   

sabato 27 gennaio 2024

Kasem Mohammed Ibrahim, Tra terre amare. Undici traversate più due

 A cura di Federica Altieri, Maurizio Dematteis, Marcella Rodino. Postfazioni di Fulvio Bonelli e Fredo Olivero.

Un libro veramente fuori dalla media, e decisamente al di sopra in quanto a interesse e significato. Un libro consigliato a tutti, e in particolare a quelli che temono gli immigrati senza mai averne avvicinato nessuno di persona, e mettono insieme tutti coloro che cercano di attraversare i nostri confini, ridotti a numeri che fanno paura perché vengono identificati tutti quanti come portatori di spaccio, ladri di posti di lavoro, pericoli sempre e comunque. Dimenticando che sono ormai 5 milioni, l'8,6% della popolazione italiana, e moltissimi altri continuano a premere per entrare.

Questo libro fa un miracolo, cioè mette in contatto direttamente l'italiano e il profugo, chiamiamolo così. L'autore è un egiziano del Delta, da sempre desideroso di venire in Italia alla ricerca di una vita migliore. Kasem Mohammed Ibrahim racconta in prima persona la sua vita da ragazzo, da studente (non proviene da una situazione di miseria, ma non vedeva davanti a sé nessuna prospettiva di lavoro e miglioramento), la sua famiglia con cui continua ad avere fortissimi legami, gli indicibili sforzi fatti per riuscire ad arrivare in Italia, compresi due anni trascorsi in Libia perché di lì era più facile riuscire a trovare un passaggio. Le innumerevoli traversate che avevano sempre la solita conclusione, il rimpatrio. Finché non riuscì a arrivare a Torino dove comincò a lavorare da clandestino nell'edilizia (sapete quelli che si vedono arrampicarsi sulle impalcature senza precauzioni). Le difficoltà divennero altre, trovare lavoro sufficiente per vivere, trovare casa, e così via. Kasem riuscì a riprendere gli studi, trovare degli amici e una ragazza che gli voleva (e gli vuole) bene. Ma c'erano ancora le due "traversate" in più... Un gravissimo incidente sul lavoro e la massima ingiustizia, il carcere per un cavillo burocratico. Ma anche i mali talvolta lasciano delle conseguenze positive: Kasem ottiene finalmente il permesso di soggiorno, si laurea, ha due figli e si sposa, lavora in libreria e alla Cooperativa Sociale di Mirafiori, con l'aiuto della moglie e di due volontari del Gruppo Abele scrive il libro di cui vi sto parlando. Il bilancio alla fine è ampiamente positivo, ma il prezzo pagato è altissimo e ingiusto. 

Molto coinvolgente alla lettura, "Tra terre amare" conserva il timbro della voce che parla, la narrazione è più emotiva che informativa, acchiappa e interessa, accenna e lascia interrogativi, non si vorrebbe abbandonarla più, viene da dire "dai, vai avanti", "spiegami meglio". Un grande plauso va ai tre italiani che hanno curato questo libro con l'autore, cui mi piacerebbe rivolgere qualche domanda proprio sul "come" è nato. Un testo importante, una storia a lieto fine che prospetta la possibilità di "una vita insieme" (come dice Fredo Olivero) in cui i vantaggi sono sia per chi arriva che per chi, almeno in teoria, accoglie. 
     

martedì 23 gennaio 2024

Domenico Notari, I borghi invisibili. Quattro leggende per quattro tradizioni ormai mute

 Agile ma ricchissimo questo volumetto, con prefazione di Giulio Leoni e illustrazioni di Enzo Lauria, precise, fantasiose e ironiche. E' luogo comune che l'Italia non si presti al racconto gotico, e più ancora per quella parte dell'Italia definita sbrigativamente Meridione. Un altro luogo comune, per una terra che più correttamente andrebbe indicata come il primo e vero Regno italiano storicamente riconoscibile (dalla prefazione). Non so se i quattro racconti che compongono questa raccolta si possano definire gotici, non me intendo molto di categorie letterarie, ma sicuramente sono incantevoli. Intanto scritti con una lingua vivace, perfettamente adatta alle vicende lontane nel tempo e insieme di stupefacente modernità, poi sorprendenti e piacevolissimi alla lettura. Ambientati ognuno in un diverso paesino del Salernitano, raccontano leggende nate dalla fantasia dell'autore ma pronte a diventare classici a Palomonte, Serre, Roscigno e San Cipriano Picentino. E non sono storie da poco: in La rivolta dell'automa un'invenzione avvenirista, un automa in veste di chierichetto, riesce a mescolare storia e politica  rovesciando beffardamente idee date per scontate; Un monumento alla fedeltà unisce una leggenda dolorosa al ricordo di un amore basato sulla fedeltà e la dedizione tra un re e il suo cane, così esemplare che fu immortalato nientemento che da Antonio Canova; L'usignolo di Roscigno, La leggenda del cavalier Mazzeo, narrata da un monaco benedettino, ci parla di un giovane scienziato il cui destino si intreccia con un lago senza fondo che compare miracolosamente, un usignolo, una misteriosa creatura che anch'essa canta dalle oscure profondità del lago e con la straordinaria invenzione di uno scafandro che si trasforma in fantasma affiorante nei giorni di scirocco. Infine Il fanciullin cortese mette in scena Benedetto Croce in un momento molto doloroso della sua vita, salvato dalla tentazione del suicidio da un misterioso fanciullo che è Jacopo Sannazzaro.

Questa brevissima sinossi già può dare l'idea del piacere di cui questo libro è prodigo, ma la lettura è allietata ancora da una serie di tavole disegnate da Enzo Lauria che riassumono le varie vicende con allegra maestria. Quindi non posso che concludere dicendo: leggetelo!  

    

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


sabato 20 gennaio 2024

Gli occhi per piangere: Senza i tuoi occhi, di Filippa D'Agata

 Un giallo molto particolare, in cui più che l'indagine o la soluzione, conta la struttura, la costruzione dei personaggi e l'atmosfera di misteriosa angoscia che pervade la narrazione. 

Siamo sul Lago Maggiore, e intorno al lago ruota l'orrore da cui inizia la vicenda: quattro cadaveri di donne affiorano dalle acque, tutte private degli occhi. Da qui nasce tutto l'impianto narrativo, le ricerche sull'identità delle vittime, le beghe della cittadina di provincia, e in mezzo a tutto la protagonista, la marescialla (o maresciallo?) dei Carabinieri Olivia Pastorina, giovane donna coraggiosa e appassionata del suo lavoro, affiancata dal brigadiere Franceschi. Naturalmente una donna che si trova in una posizione di tale responsabilità in un ambiente molto maschile si scontra con difficoltà di ogni genere, ma Olivia è una tosta, molto intelligente e fortemente empatica. La narrazione (su cui non dirò più una parola ovviamente) procede spedita e alternata con pagine in cui una voce dolorosa e spaventata, di cui non conosciamo l'identità, ci pone di fronte a un mondo di sofferenza e oscurità. In questa storia il passato conta molto e Olivia deve affrontarlo senza esserne stritolata.

Un poliziesco molto particolare e assolutamente da leggere, in cui il tocco femminile si manifesta sia nella scrittura delicata pur affrontando momenti d'orrore, sia nell'importanza data al dolore incolpevole e crudele dell'infanzia. Appassionante e insolito.    

 Senza i tuoi occhi - Filippa D'Agata - Libro - Echos Edizioni - Giallo &  nero | IBS



mercoledì 17 gennaio 2024

Anche gli editori piangono: Solo piccole tentazioni, di Teodora Trevisan

 Un romanzo insieme veloce e capace di scendere nel profondo dei suoi personaggi, senza perdersi in psicologismi eccessivi ma attento a non trascurare i particolari per inseguire le svolte narrative. 


La protagonista è Camilla, energica e sicura editrice che vive a Torino. Attorno a lei i suoi collaboratori sono figure vivaci e ben delineate. Camilla vive una grande storia d'amore con il marito, Paolo, famoso architetto che vive a Genova, e la coppia si divide tra le due case di Torino e Genova, vedendosi nei weekend dato che nessuno dei due può, né vuole, rinunciare al suo lavoro. A interrompere questo sereno equilibrio giunge una proposta di lavoro a Camilla, curiosa e insolita ma allettante. E di qui parte una vicenda apparentemente tranquilla, che ha il grande pregio (per una come me che si interessa a questo mondo) di spiegare il funzionamento interno di una casa editrice in modo molto chiaro. Ma la trama non è né ingenua né prevedibile, e da un certo punto in poi si sviluppano sorprese davvero inaspettate e la storia prende una piega sorprendente, per concludersi nel rasserenante paesaggio di Venezia. Della trama ovviamente non posso dire altro (anche se non si tratta di un giallo, il fattore sorpresa è molto importante), ma quello che posso dirvi è: leggete Solo piccole tentazioni, ne trarrete piacere, spunti di riflessione e la coscienza di esservi imbattuti in un libro di valore.   


Molte voci creano un coro armonioso: Donne di parola , Le storie siamo noi

Un'antologia (e si sa quanto mi piacciono i racconti) davvero speciale: diciotto autrici, che costituiscono a Torino un gruppo abituato da tempo a collaborare, per cinquantanove racconti brevi, che partendo da 1908 ai giorni nostri descrivono con sensibilità, attenzione ai particolari, gentilezza e sincerità le tappe che hanno costruito le esistenze di tutti gli italiani. Si va da avvenimenti importanti come le guerre e le grandi trasformazioni sociali alle conseguenze che hanno avuto sulle vite di chiunque sia stato spettatore o protagonista. Le autrici partono da episodi autobiografici ma sanno sempre, con maestria e intelligenza, allargare la visuale dalle loro piccole, anche marginali, esistenze, o ricordi familiari, per illuminarne il senso. Coordinate da Claudia Manselli,
le Donne di parola costruiscono una ministoria d'Italia al femminile, che dà un gran piacere alla lettura e fa riflettere il lettore sulle sue esperienza.