lunedì 29 novembre 2010
Scarlett Thomas, Il nostro tragico universo
Allora. Inghilterra, Dartmouth in Devon, giorni nostri. L'io narrante è Meg, trentottenne scrittrice di romanzi di genere per una casa editrice per la quale tiene anche seminari di scrittura creativa per una collana per adolescenti, e recensisce libri scientifici. Alle prese da anni con un romanzo mainstream che continua a cancellare, convivente scontenta con Christopher, squattrinata cronica, padrona della cagna B, asmatica abitante di una casa umida e fredda. Con amici vari, intellettuali scombinati in età, giovani negozianti scombinate, famiglia del moroso scombinata, aspiranti scrittori scombinatissimi. Razionale, insegna ai suoi allievi di scrittura a trovare spiegazioni scientifiche per ogni avvenimento inspiegabile che mettono nei loro romanzi perché bisogna dare agli adolescenti visioni positive e rasserenanti.
Meg riceve un libro da recensire, un tomo che contiene una teoria dell'universo che non ho capito (e ho anche un po' saltata) ma che insomma dice che siamo tutti eterni, questo è il secondo mondo dopo il punto omega che è come un orgasmo universale e siamo tutti eroi tranne chi mangia la pizza sul sofà davanti alla televisione, e siamo anche maghi e altro. Meg si stupisce, oltre tutto non è vero che il libro gliel'abbia mandato il redattore, il che sembra forse un gran problema ma problema non è, come direbbe il poeta. Va be'. Sono andata avanti a leggere per tutte le 381 pagine saltando solo qualche conversazione sulla scrittura (non ho capito bene la teoria delle storie senza storia), sui tarocchi, sui calzini a maglia, su teorie alternative dell'universo, su un résumé della danza cosmica di Shiva ecc ecc. Non succede niente per tutto il romanzo tranne che Meg molla il moroso e la casa umida, e va a stare in un cottage sulla spiaggia. Fa delle richieste all'Universo che prontamente l'accontenta, e al mare che le risponde a tambur battente. Alla fine qualcosa succede ma forse no, la storia non dice. Meg rimane scettica e razionale ma, cosciente di essere il 38° grado dell'Eremita dei tarocchi, si rende conto che facendo richieste all'universo ha creato una bestia, e va avanti a fare calzini. Ci sono anche alcune storie zen e alcune barzellette (una: due matti in manicomio, uno si butta in piscina, l'altro lo salva. Il direttore chiama il secondo matto. Ho una notizia buona e una cattiva: la buona è che lei è evidentemente guarito e lo dimettiamo, l'altra che il suo amico ci ha riprovato e si è impiccato. Oh no, dice il matto, non si è impiccato, sono io che l'ho steso per farlo asciugare. Carina no?)
Non crediate che abbia voluto fare la furba, o ci abbia messo del mio. La storia è questa. Intanto me la sono letta con gran piacere, a parte le pagine saltate, seguendo la protagonista nelle sue lunghe passeggiate sulla spiaggia con B, soste al pub, pomeriggi di maglia davanti al fuoco, gran bevute di vino, birra e qualsiasi altra cosa (ma niente droghe né sigarette e dieta vegetariano-vegana), chiacchiere su rapporti amorosi e sessuali, matrimoniali e extra, vagheggiamenti per un uomo anzianotto ma attraente, letture, altre passeggiate, altri pub. Poco altro, forse una lancia spezzata a favore dei rapporti tra donne giovani e uomini anziani che pare, in Inghilterra scandalizzano di più dei rapporti tra donne anziane e giovani giovanotti. Ma si sa che gli inglesi sono sempre stati all'avanguardia.
Boh. Sinceramente, mi piacerebbe proprio molto che qualcuno che ha letto il romanzo mi aiutasse a capire. E' certamente un libro piuttosto sofisticato, scritto molto bene (e anche ben tradotto da Carla De Caro, che però avrebbe potuto fare uno sforzetto in più e chiamare Manica quello che lei chiama Canale, e Bagatto quello che chiama Imbroglione, e Appeso quello che chiama Impiccato, ma insomma, sono piccole cose) anche se prolisso e pieno di dialoghi verbosissimi, ambizioso, complesso, e destinato a un pubblico evoluto. Ma che cosa gli dice, a questo pubblico, io non lo so.
mercoledì 10 novembre 2010
ELISABETTA CHICCO VITZIZZAI, IL PIÙ BEL VIZIO È LA VITA
Questa nuova fatica di Elisabetta Chicco Vitzizzai, pubblicata da Instar, è un libro agile che dà piacere a ogni parola, perché ogni parola è studiata e limata da una scrittura priva di qualsiasi sbavatura o compiacimento. Non si tratta di un romanzo ma della ricostruzione di un mondo perduto, la Torino (e dintorni) degli anni che stanno tra il ‘45 e gli anni ’60 del secolo scorso. L’autrice è figlia di un pittore, Riccardo Chicco, molto conosciuto a Torino sia per l’eccellenza delle sue opere (una è in copertina) che per essere stato un vero personaggio: nella parole della figlia fondamentalmente era un esteta e un pittore, accessoriamente un amante, sempre un seduttore. Marginalmente anche insegnante di storia dell’arte al liceo classico, dove io sono stata sua allieva. È naturale che la sua figura campeggi in queste pagine, ma in effetti non è l’unica né la principale. Tutta la famiglia della protagonista, una Elisabetta prima bambina poi adolescente, è dipinta con tratti nettissimi e precisi, e senza sconti. Sono pagine divertenti e divertite, abbastanza perfide. C’è la bella madre, piena di carattere ma del tutto priva di senso materno, c’è la zia Eva che mantiene la linea vivendo di whisky e sigarette, la tremenda zia Titina (la figura più esilarante e spaventosa) dedita alle opere di bene, gli zii, i vicini di casa, le figure di una Torino che si lascia alle spalle la guerra. È la Torino del Sollazzo Gastrico, della Turris Eburnea, della Tampa Lirica, dell’Escargot, nomi che forse non dicono molto ai più ma fanno sobbalzare chi quei tempi li ha vissuti o ne ha sentito parlare da zii e fratelli maggiori, l’altra faccia della Torino deprimente, grigio ostaggio della Fiat, in cui si aggirano personaggi trasgressivi e anticonformisti, come appunto Riccardo Chicco o Carol Rama e altri presentati dalle semplici iniziali. Torino è sempre stata assai più complessa e divertente di quel che il luogo comune voleva. Come supremamente divertenti sono gli episodi e i personaggi di questo libro, in apparenza svagato collage di ricordi, in realtà monumento alla distanza che permette di vedere un’epoca passata per quel che è, fuori dal compiacimento, dalla nostalgia. Non “come eravamo” ma “come erano”, bizzarri, ridicoli, cattivi, unici, umani, comunque nostri, e per fortuna che noi siamo diversi. Almeno fino a quando una nipote dalla penna intelligente, perfida e spiritosa come quella di Elisabetta Chicco Vitzizzai non deciderà, in un lontano futuro, di raccontarci. La parsimonia era una delle esecrabili virtù di famiglia. […] L’indole sospettosa e l’eccessiva precisione erano un’altra caratteristica di famiglia. […] Zia Luda sembrava una sedia liberty. Di quelle sedie allampanate, smunte, scivolate nei braccioli e nello schienale. […] Le due figlie di zia Luda, Mati e Matè, sembravano due poltrone imbottite, solide e goffe. […] La Cicci faceva un mestiere ormai in declino, la mantenuta. […] Zia Titina aveva una vera passione per le deformità e le collezionava si può dire con gusto ed esaltazione feticistici. Viene freddo al pensiero e insieme si scoppia a ridere.