mercoledì 26 aprile 2017

Lettera a un'amica che non c'è più



Pubblico questa lettera di alcuni anni fa perché l'amica cui è indirizzata ci ha lasciati, ma la sua presenza  e il suo ricordo sono indelebili. 

Mia cara amica, questa lettera è proprio per te, anche se non è fatta di fogli fruscianti e macchie di biro. Se solo tu fossi nata qualche anno dopo avremmo la stessa dimistichezza con lo schermo del computer. Sei così attenta a quello che succede nel mondo, curiosa e lucida nei tuoi giudizi, non è certo per pigrizia che non sai niente di informatica. Il fatto è che hai novantun anni, una bella età comunque la si guardi. Io la guardo su di te e vedo che è bellissima. Come te. Hai le guance rosa e i capelli bianchi, le mani trasparenti, gli occhi di cui non si capisce più il colore. Sei stata operata di cataratta per cui vedi molto meglio di me, leggi la guida del telefono senza occhiali. Sei un po’ golosa, ma mangi poco e due etti di cioccolatini ti durano a lungo. Soprattutto sei una gran chiacchierona, hai sempre un sacco di aneddoti da raccontare, complicate parentele e riassunti di vite lunghissime. Posti che hai visitato in epoche favolose, dolori terribili che nel trascorrere del tempo hanno assunto una patina nebbiosa, si sono smussati come ciottoli di mare. Li racconti molte volte, anche immediatamente di seguito, e ogni volta ci sono delle variazioni che mi sorprendono. Ti fermo e ti interrogo, e nelle tue risposte cambi ancora versione. Mi chiedi le stesse cose a distanza di pochi minuti, e le mie risposte scivolano via sulla tua memoria come le mie domande. Parlare con te è un incanto, le tue storie hanno l’andamento sinuoso della linea di schiuma sulla battigia, e lasciano tesori sulla sabbia proprio come le onde. Vanno e vengono, sempre uguali e sempre un pochino diverse. In confronto le cose che potrei raccontarti io sembrano acqua stagnante. Ti dico quattro volte dove ho passato l’estate scorsa, cinque volte quali film ho visto ultimamente, sei dove penso di andare l’estate prossima, sette che cosa sto scrivendo in questo periodo. Sei cortese, sai fare conversazione e ti interessi sul serio a me. Che ti dimentichi quello che dico nell’istante stesso in cui l’ho detto non conta, conta la tua premurosa gentilezza e la generosità con cui ti racconti. Ecco, questo è l’unica ragione per cui ti scrivo questa lettera. In fondo ci siamo viste ieri, anche se quando tornerò da te la settimana prossima mi dirai meno male che ti fai viva! ero proprio spersa, è tantissimo che non ci vediamo!. Però non ti ho mai ringraziato per essere diventata mia amica pochi anni fa, quando i novanta erano già vicini. Hai avuto voglia di avvicinarti a una nuova amica e scoprirti con generosità, raccontarmi i momenti più ricchi della tua vita. Per questo ti dico grazie, grazie della tua amicizia che mi ha fatto sentire importante. Forse tu mi dimenticherai, per poco o per sempre, ma io no. Almeno finché la memoria mi sosterrà.      

venerdì 21 aprile 2017

Attenti al Kindle, maneggiare con precauzione! Stephen King, Il bazar dei brutti sogni

Una delle cose più inquietanti di Stephen King, sia detto senza offesa, è sicuramente la sua faccia, che peraltro in questa foto risulta piuttosto simpatica. Ma bando alle ciance, non voglio sprecare troppe parole perché devo parlare della sua raccolta Il bazar dei brutti sogni, venti racconti che nell'edizione italiana si presentano a cura di Loredana Lipperini (non sono riuscita a trovare i nomi di chi li ha tradotti, e me ne scuso).
Senza paura di ripetermi, dico per l'ennesima volta 1) adoro i racconti, 2) trovo Stephen King un ottimo scrittore. Quindi è ovvio che consiglio vivissimamente questo appassionante bazar. Inoltre, nella forma breve del racconto SK si può risparmiare quelle parti finali che talvolta sono un po' deludenti (come in It o Duma Key), quando deve tirare fuori ragni giganti o fantasmi troppo concreti per concludere una vicenda lunga e complessa. Qui, la sua maestria nel creare situazioni e ambienti perfettamente plausibili, efficaci e avvolgenti, rende la lettura irresistibile, e l'inquietudine più che l'horror vero e proprio afferra in maniera più subdola e sottile. I racconti sono venti e i temi molto variati, per cui ce n'è per tutti i gusti.

Si può cominciare dall'ultimo, Tuoni d'estate (Summer thunders, se la traduzione del titolo non coincide con quella italiana, è colpa mia), storia struggente e sorvegliatissima di un day after in ambiente idillico; la mia preferita è senz'altro Ur, in cui per farsi bello con la morosa un professore universitario compra un kindle dai poteri veramente fantastici che lo proietta in paradossi temporali che ricordano il magnifico 22/11/63; o The cookie jar, dove un barattolo per i biscotti è la porta per gli altri mondi che premono attorno al nostro; Drunken fireworks, dove una folle competizione a colpi di fuochi d'artificio illumina un acuto schizzo sociale (e gli italiani non ci fanno bella figura); Mister Yummy, descrizione rispettosa e malinconica della vita e della morte in una casa di riposo; Mile 81, classico horror tra bambini curiosi e macchine cannibali; e potrei continuare ma il meglio è che ognuno se lo legga, e troverà il suo racconto preferito ma in alla fine li amerà tutti, come è successo a me.

Un aspetto che apprezzo molto di Stephen King è che malgrado la sua fantasia spesso spaventosa, a volte agghiacciante, non è mai crudele, e anzi c'è molta empatia nelle sue pagine per i personaggi anche negativi. E qui ogni racconto è preceduto da un'introduzione che non esagera mai in spiritosaggine, né in tronfiaggine, né in compiacimento. Insomma magari a conoscerlo di persona potrà essere odioso, non ne ho la minima idea, ma dai suoi scritti il cosiddetto "scrittore implicito" (fatevi spiegare da qualcuno che abbia frequentato un corso di scrittura creativa o abbia almeno letto un manuale) appare simpatico e gradevole. 

lunedì 10 aprile 2017

Qualche pagina allegra per festeggiare la primavera: Adelina Fang e il dentista, dal romanzo a puntate "Ragazza brutta, ragazza bella"



Da Per qualcuno, lieto fine, primo capitolo di Ragazza brutta, ragazza bella che potete trovare qua in formato sia cartaceo che digitale.

                                                                 PER QUALCUNO, LIETO FINE
 Se di qualcosa Adelina Fang aveva coscienza, era di essere destinata a diventare grande. Non solo di età, non certo di statura, ma nella vita, nelle cose che contano, denaro, fama, potere.
Questo meditava, mentre se ne stava a bocca spalancata sulla sedia del dentista che trafficava prendendole le misure per la macchinetta. Con il mio splendente sorriso di trentadue denti perfetti forse un giorno renderò felice il re di Svezia che mi consegnerà il Nobel, timido e tremante. Forse in Svezia sta crescendo un principino con l'apparecchio per i denti che per quello stesso giorno sarà diventato un bel giovanotto, si innamorerà di me e mi chiederà in moglie. Sarò costretta a dirgli di no, naturalmente, la mia carriera è troppo importante. Prese mentalmente appunti: uno, controllare su Novella 2000 se esiste un erede al trono in età interessante, due, in caso positivo cominciare a studiare lo svedese. Non si sa mai, ci sono donne famose che sono riuscite a conciliare lavoro e vita privata.
Il dentista le piazzò in bocca uno strumento di ferro pieno di schifosa pastetta fredda e molle.
– Stringi bene, – disse.
Adelina strinse, rassegnata. La via della gloria è lastricata di momenti difficili. Il dentista le sorrise paterno dietro alla mascherina di plastica che lo faceva sembrare un saldatore.
– Resta così da brava, torno tra un attimo.
Già, così intanto andava nello studio a fianco a torturare un altro bambino innocente. Bella vita quella dei dentisti. Un sacco di soldi facili, ma niente glamour. Mai letto un articolo su un dentista su Novella 2000. Nessuna fotografia di dentista sorpreso al ristorante con Claudia Schiffer. No, decisamente non era la carriera da scegliere.
– Torna tra due giorni e avrai la tua macchinetta.
Adelina saltò agilmente giù dalla poltrona. Pensò per un attimo che forse avrebbe potuto dare un bacino all'uomo in camice bianco, poi decise che non era il caso. Faceva solo il suo mestiere. Un bacio di Adelina Fang bisognava guadagnarselo, mica era cosa da raccattare così, per un calco dentale. Gli strinse la mano e se ne andò in dignitoso silenzio.

– Cinque figli con i denti stolti, – disse la madre di Adelina, – che mai avlò fatto di male pel melitalmi questo? Mi costate più che un appaltamento in Costa Azzulla. E mi selvite anche molto meno, pigli, disoldinati e mangioni come siete.
– Tanto in Costa Azzulla non ci andlesti mai. Non ciai i vestiti, – rispose Adelina. La seduta dal dentista l'aveva lasciata nervosa e polemica.   
– Zitta te, scemetta. Mangia la tua minestlina e non essele impeltinente.
Adelina fece una smorfia all'indirizzo dei fratellini e affondò il cucchiaio nel brodo di dado sparsamente occupato da bumbunin scotti.
– Plefelisco la zuppa di abalone.
– Anch'io plefelisco passale le mie selate al Casinò di Sanlemo, ma sono costletta a stale a casa con voi. Mangia e taci, scimmia.
Era la sera di chiusura del ristorante Città Proibita, localino chic situato nel fossato asciutto del castello di Moretta. Non c'erano avanzi, e la signora Fang si prendeva una vacanza dai fornelli. I suoi bambini, tutti bianchi e rosa con delle guanciotte tonde che erano una réclame vivente alla sua cucina, scucchiaiavano depressi.
– Almeno una banana flitta, – implorò Agatocle Fang.
– Niente banane. Finite anche quelle.
– Uffa, mamma, – gemette Vezio. – Un pacchettino di Fonzie's!
– Polchelie.
Ma il suo cuore di mamma non resistette a quelle rosse boccucce protese nel tormento della fame. Mise sul tavolo un barattolo di Nutella e il cestino del pane. Cinque ditini paffuti si immersero nella crema oleosa.
– Col pane, polcelli! Col pane o la polto via immediatamente!
Ubbidienti, i bambini spalmarono di Nutella le michette e corsero ad accucciarsi davanti alla televisione.
– E plima di andale a letto dateci dentlo con lo spazzolino, che oltle ai denti stolti non vollei vi venisse anche la calie.

La macchinetta produsse su Adelina un effetto inaspettato. Nel giro di una settimana divenne perfettamente in grado di pronunciare la erre. Esaltata, si esibiva dalla mattina alla sera in scioglilingua arrotati per fare rabbia ai fratelli.
– Trentatré trentini partirono da Trento, – gridava Adelina.
I fratelli piangevano.
– Sopra la panca la capra campa!
Agatocle minacciò il suicidio se non poteva avere anche lui, immediatamente, il suo apparecchio.
– Sotto la panca la capra crepa!
Le urla di Vezio si sentivano dalla parrocchia. La signora Fang si affannò a distribuire pizzicotti e scapaccioni, nel timore che quelle ficcanaso delle assistenti sociali andassero a ficcare il naso a casa sua e trovassero che non curava abbastanza i figli. Finì per fare un mutuo e fornire tutti e cinque i bambini di strumenti di ferro che gli raddrizzarono la dentatura e li resero fluenti in erre doppia e semplice. Rimpianse di non averli chiamati Rosaura, Ruggero, Roberto, Rodrigo e Ranieri. Ora che in casa rimanevano solo lei e il signor Fang a dire “glazie, plego, tolna plesto”, si sentì improvvisamente vecchia. Questi giovani, pensò, fanno in fretta a dimenticare le radici e le tradizioni. Va' a vedere che una mattina si sveglieranno tutti e cinque biondi, ricci e con gli occhi tondi.

Adelina aveva un grosso difetto: era costituzionalmente la prima della classe, la cocca della maestra, l'orgoglio della scuola. Al concorso nazionale “Scrivete uno slogan per il vostro paese” sbaragliò tutti coniando la frase famosa “Neanche una fetta le manca a Moretta per esser perfetta”. I premi in palio erano cinque soggiorni di una settimana a New York. Così partì con altri quattro bambini di varie parti d'Italia, carica di indirizzi di parenti a Chinatown e uno in Park Avenue: quello di Désirée e Rolando.
La storia non dice come Adelina trascorse quei sette giorni. Sappiamo solo che tornò contenta, piena di notizie strabilianti e brufoli per l'eccesso di hamburger, patatine e cocacola, e innamorata.
La mattina successiva al suo rientro, davanti a una tazza di caffelatte e un buondìmotta, dichiarò alla madre:
– Ho trovato il fidanzato. Ci sposeremo quando io sarò un famoso avvocato e lui il re della medicina ayurvedica. Si chiama Dragomir Rimpoche. Papà tibetano e mamma rumena.
– Mix interessante, – disse la signora Fang dubbiosa.
– Abita ad Arezzo. Sentissi che accento incantevole. Quando parlava con Désirée, sembravano Dante e Beatrice.
– Chi mai salanno questi due? – si chiese la signora Fang. – Hai visto la bella abblonzata e il suo lustico compagno? – aggiunse ad alta voce.
– Oh sì. Ho visto un sacco di gente e un sacco di posti. Graziosa cittadina, New York. Penso che ci aprirò uno studio, diciamo una filiale. Sembra che tutti divorzino da quelle parti. Ho anche una commissione da parte di Désirée per Isidoro. Posso fare una telefonata a Torino, mamma?
– Basta che sia bleve.
– Non credo. Devo raccontargli come è stato pitturato tutto l'Empire State Building, descrivergli le figure e l'effetto che hanno avuto. Désirée dice che è importante, lui capirà.

domenica 9 aprile 2017

Un racconto per passare il tempo: Di donne, taverne e marinai




Siccome sto leggendo un libro molto lungo e la recensione non riuscirà a scriverla per un po', pubblico un racconto così vecchio che neanche mi ricordavo di averlo scritto, minimalista nel tono e molto presuntuoso nella scelta dei personaggi.

                     DI DONNE, TAVERNE E MARINAI
  L'ostessa più bella e più famosa di Cadice era sicuramente Mercedes, la padrona della taverna dei Sette Marinai nel vicolo di Nostra Signora della Buona Morte. Era giovane e curiosissima;  molti marinai sprovvisti di  soldi per pagarsi il vino o il cibo avevano ottenuto quello di cui avevano bisogno in cambio del racconto delle loro avventure in terre sconosciute e mari lontani. Gli invidiosi erano pronti a giurare che Mercedes non esitava a offrire anche un letto ai buoni narratori di gradevole aspetto. Il marito di Mercedes, un portoghese massiccio di nome Manuel, sedeva in un angolo della taverna giocando a dadi con i clienti, portava su il vino dalla cantina e parlava il meno possibile, soprattutto quando la moglie era nei paraggi. Sembravano una coppia felice, e se Manuel non protestava mai quando Mercedes sedeva al tavolo di qualche avventore, lei faceva finta di non accorgersi di niente quando il marito perdeva ai dadi o non riusciva più a reggersi per il troppo vino. La taverna dei Sette Marinai era sempre piena; oltre che per la bellezza  della padrona, era famosa per la bontà del vino e la freschezza delle sardine che Manuel cucinava su un piccolo fornello fuori dalla porta. Per questo, qualunque marinaio o viaggiatore capitasse a Cadice prima o poi finiva per trascorrere le sue serate ai Sette Marinai.
    Una sera di dicembre ventosa e spruzzata di pioggia, un avventore sconosciuto entrò portando con sé un alito di freddo e si sedette a un tavolo libero, appoggiandosi con i gomiti sul legno liscio e lucido. Era un uomo vigoroso con i capelli a frangetta, vestito da borghese, ma senza lusso. Ordinò una bottiglia di vino e del pesce arrosto senza guardarsi intorno; dopo un po' le conversazioni interrotte agli altri tavoli ripresero, e nessuno gli badò più, tranne Mercedes, che dopo averlo servito gli chiese il permesso di sedersi al suo tavolo.
    "Da dove viene, signore?" gli chiese.
    Lui alzò le spalle, e non rispose.
    "Lei non è un marinaio, vero?"
    Di nuovo l'uomo alzò le spalle.
    "Come si chiama?"
    "Cristobal". Aveva una voce profonda e coltivata. "E tu, bella, come ti chiami?"
    "Mercedes".
    Contenta del suo primo successo, l'ostessa continuò a interrogare l'uomo e dopo un po' riuscì a strapparlo dal suo riserbo. Le raccontò che era a Cadice per vedere delle persone che potevano essergli utili per realizzare un suo grande progetto, e si sarebbe fermato in città almeno quindici giorni. Alloggiava in una locanda situata poche strade più in là e aveva sentito parlare della taverna dei Sette Marinai da un suo amico di Siviglia che aveva visitato Cadice qualche anno prima.
    "Il mio amico mi ha parlato di una bella ostessa" aggiunse, "e pur essendo un marinaio, per una volta non ha esagerato".    
    Mercedes sapeva apprezzare un complimento e questo non andò perduto con lei. Sorrise con tutta la faccia e versò ancora un po' di vino al galante gentiluomo.
    "Torni presto, signore" gli disse, prima di alzarsi per andare a servire gli altri clienti.
    Cristobal tornò, la sera dopo e tutte le sere per una settimana, e la sua intimità con Mercedes crebbe tanto che alla fine le rivelò il suo progetto. Era il primo pomeriggio, la taverna era vuota e Mercedes aveva raggiunto Cristobal nella sua stanza all'ultimo piano di una casa bianca dai balconi panciuti, che si affacciava sull'oceano scuro e imbronciato. Le lenzuola erano umide e lui le accarezzava pigramente la spalla carnosa. Dalle piccole finestre dai vetri piombati non si vedeva altro che un accavallarsi vorticoso di nuvole grigie.
    "Guarda fuori, bella. Vedi l'oceano? Io voglio salpare da un porto sull'oceano e navigare verso occidente fino ad arrivare nelle Indie. Finora non ho trovato nessuno che voglia finanziare la mia spedizione, ma prima o poi riuscirò a partire, e stabilirò una nuova rotta verso oriente, passando da occidente".
    Mercedes lo ascoltava a bocca aperta. Quelle parole le sembravano folli. Ma la luce grigia che penetrava dalle finestre addolciva il viso di lui e lo illuminava di un'espressione ispirata. Faceva freddo e bisognava stringersi per non sentirlo. Il sogno di Cristobal finì per conquistarla, e divenne anche il suo sogno. Raggiungere le Indie andando a occidente? perché no, se lo diceva lui?  Cristobal le mostrava carte e mappe, e Mercedes, con il mento appoggiato alla sua spalla, incominciò anche lei a far progetti.
    "Portami con te" gli disse. "Cucinerò per te e per i marinai, rammenderò i vestiti e le vele, e la sera..."
    Non osò proseguire. Aveva un po' soggezione di quell'uomo così serio e ossessionato dai suoi sogni.
    Cristobal rise fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
    "Tu venire in mare con me? Questa è l'idea più assurda che abbia mai sentito".
    Mercedes si vergognò di aver osato proporre qualcosa di così stupido e cercò di rimediare.
    "Promettimi che scriverai un diario solo per me, per ricordare tutto quello che vedrai, non mi fido della tua memoria e poi tutti i marinai raccontano bugie e io voglio sapere tutto quello che ti succederà, minuto per minuto, voglio vedere con i miei occhi tutto quello che vedrai tu".
    Mercedes era sicura che Cristobal avrebbe trovato un finanziatore per il suo progetto: non riusciva a pensare che qualcuno potesse resistergli quando parlava con quella luce negli occhi e quel tono sicuro e nostalgico insieme che avrebbe convinto anche lo scettico più ostinato. Avrebbe voluto essere una regina per regalargli delle navi e del denaro per partire; era diventata ancora più certa di lui che la via per le Indie passasse dalla rotta dell'occidente.
    I giorni passavano, e con loro i pomeriggi nella stanzetta bianca, e le serate nella taverna che Mercedes trascorreva ormai tutte al tavolo di Cristobal, mentre Manuel era costretto a lasciare i dadi per servire i clienti trascurati da sua moglie. Ma i due non parlavano d'amore. I loro discorsi erano tutti intorno alla grande impresa che andava realizzata, al diario che Cristobal avrebbe tenuto per Mercedes e alle meraviglie delle Indie, l'oro, le perle, le pietre preziose che aspettavano solo qualche coraggioso che le raccogliesse. E se qualche volta nella voce di Mercedes c'era un tremito di paura, sollecitudine o tenerezza, spariva in fretta per lasciare posto all'ansia di realizzare il grande sogno.
    Il giorno della partenza, Cristobal andò alla taverna di buon mattino per salutare Mercedes. Lei stava spazzando il pavimento e si appoggiò alla scopa per parlargli.
    "Voglio sapere tutto, come se fossi con te, ricordati il diario" disse, e qualche lacrima scivolava sulla pelle compatta delle sue guance.
    "Te lo prometto" rispose lui e, salutato Manuel, partì.
   
La bella ostessa continuò ad ascoltare i marinai che avevano delle belle storie da raccontare, e ad accettare le loro storie in pagamento del vino e del cibo che suo marito cucinava. Ma man mano che gli anni passavano, il suo interesse diminuiva. A un certo punto gli avventori dei Sette Marinai si accorsero che il suo ventre si era arrotondato, e dopo qualche mese Mercedes partorì un bambino. A questo primo figlio ne seguirono altri tre, di cui uno morì, e della bella ostessa curiosa e compiacente rimase solo il ricordo. Era  sempre troppo occupata con i suoi marmocchi per ascoltare le storie dei marinai, che ormai frequentavano la taverna solo per il buon vino e la buona cucina di Manuel.
    La taverna dei Sette Marinai continuava a prosperare e a essere la più frequentata della città. Una sera, mentre padroni e clienti festeggiavano il diciottesimo compleanno del primo figlio di Manuel e Mercedes, uno straniero spalancò la porta e si sedette a un tavolo libero. Era primavera, ma all'interno l'aria era pesante e immobile. Mercedes, asciugandosi le mani nel grembiule, andò a servire il nuovo avventore, e si fermò impietrita davanti al tavolo.
    "Cristobal!" esclamò. "Che cosa fai qui?"
    E guardò con dolorosa sorpresa la frangetta grigia, gli occhi infossati, la pelle scura e rugosa di uomo abituato alla vita all'aria aperta. Alzò le mani alle guance gonfie e cascanti, si vergognò del ventre rotondo, delle mani appassite.
    "Sei proprio tu!" ripeté. "Che cosa hai fatto in questi anni? Sei arrivato alle Indie? Hai trovato l'oro e le perle? Cristobal, ho aspettato tanto! E non credevo che saresti tornato mai più!"
    "Ho promesso, e mantengo" rispose lui.
    Da sotto alla lunga tunica trasse un pacco voluminoso, avvolto in un pezzo di stoffa. Lo aprì, e ne tolse  un manoscritto e un mazzo di piume, rosse, verdi, gialle e azzurre, così sgargianti che sembravano tinte.
    "Sono venuto apposta dalla capitale per portarti questo" disse, porgendo piume e manoscritto alla donna.
    "Ma sei arrivato alle Indie?"
    "Ho trovato una terra popolata di selvaggi e di piante strane, nuova o già conosciuta, non so. Non ho trovato l'oro, né le perle, né le pietre preziose, ma ho dimostrato che la mia idea era giusta, che navigando verso occidente si sarebbe arrivati da qualche parte, e il mio progetto é riuscito".
    Continuava a tendere la mano con i suoi doni verso Mercedes, che non si decideva a prenderli. Lo guardava delusa, e scontenta di essere stata sorpresa nella sua malinconica decadenza. Non porse la mano per prendere i doni, e Cristobal li depose sul tavolo.
    "Sei sempre bella" disse lui.
    Ma lei non poteva più credergli, e così non credette nemmeno che il loro antico sogno si fosse realizzato.
    "Non sei arrivato nelle Indie" disse con tono di accusa, anche se in realtà si sentiva lei stessa colpevole, e non sapeva proprio di che cosa.
    "Ho scritto un diario per te" disse lui.
    "Lo leggerò" rispose Mercedes. "Che cosa vuoi bere?"
    "Una bottiglia di vino" disse Cristobal, ma dopo il secondo bicchiere si alzò, e gettata una moneta sul tavolo si avviò verso la porta.
    "Cristobal" disse Mercedes, che nel frattempo era andata a mettere a letto il suo figlio più piccolo. "Dove vai?"
    "Ritorno a Valladolid" disse lui.
    "Grazie del regalo. Leggerò il tuo diario. Che cosa sono queste? Piume? Le hai colorate tu?"
    "No, nelle Indie gli uccelli hanno veramente questi colori."
    Ma dal tono con cui lo diceva, sembrava che non ci credesse nemmeno lui.
    "Addio, Cristobal" disse Mercedes. "E grazie ancora".
    "Addio. E ricordati che quello che ho scritto, l'ho scritto pensando a te".
    Uscì prima che gli altri avventori si accorgessero che era successo qualcosa d'insolito.
    Mercedes raccolse piume e manoscritto, e passò meccanicamente uno straccio sul tavolo che aveva occupato Cristobal.
    "Appena avrò tempo lo leggerò" pensò, chiudendo il diario in un cassetto, quando finalmente andò a dormire dopo che l'ultimo avventore se ne era andato, e mise le piume colorate sul tavolino da notte, per darle il giorno dopo ai suoi bambini per giocare.