giovedì 31 dicembre 2009
Anilda Ibrahimi, Rosso come una sposa
Questo libro è uscito nel 2008, ho letto delle recensioni, l'ho visto in libreria e ho deciso che non l'avrei comprato. Non amo i libri che si presentano come in questa quarta di copertina, quattro generazioni che si passano il testimone [...], le storie di quattro donne [...] intrecciate sul filo di una memoria commossa. Per la carità, rifuggo dalle dinastie femminili e dalle trasmissioni sapienziali di ricette e medicine, magie e colloqui con i morti. Inoltre, poco più giù nella copertina leggo che in Albania c'è una società fortemente matriarcale. Ora io non so molto dell'Albania, non ci sono mai stata, ma leggo i giornali, mi informo, ho gli occhi per vedere e mi pare che tra questa affermazione e la realtà tangibile ci sia una distanza abissale. Poi un giorno, alla radio, mi sono imbattuta in Anilda Ibrahimi che per cinque giorni teneva una rubrica sui libri che per lei sono stati fondamentali. Ho subito drizzato le orecchie perché le sue scelte avrebbero potuto essere le mie, pari pari. Ha cominciato con Agota Kristof e La trilogia della città di K., poi è passata a Dickens e Davide Copperfield, poi Carroll e Alice nel paese delle meraviglie, poi non mi ricordo più ma sono certa che anche gli altri erano libri che ho amato. Inoltre, la scrittrice era molto simpatica, aveva una voce gradevole, e le parole che captavo ogni tanto (tengo la radio accesa quando lavoro) mi sembravano interessanti, così dopo qualche mese di esitazioni ho capitolato e ho comprato Rosso come una sposa. Bel titolo tra l'altro, questo l'avevo riconosciuto da subito. E libro molto gradevole. L'autrice è nata a Valona nel 1972, ha studiato a Tirana, nel 1994 si è trasferita prima in Svizzera poi in Italia. Questo è il suo primo romanzo, scritto direttamente in italiano. Romanzo semplice, scritto in modo fresco e senza pretese, privo di una struttura vera e propria, costituito da una serie di episodi evidentemente tirati fuori dalla memoria collettiva della famiglia di origine, o di amici e conoscenti, così come la nonna Saba tira fuori dal suo baule abiti che sanno di naftalina, dolci e orecchini antichi. C'è una prima parte di nonne e bisnonne che vivono a Kaltra, paesino di montagna nel sud del paese, insieme ai loro figli e mariti in quella che non è certamente una società matriarcale, anzi, è oppressiva al massimo verso le donne che sospirano il momento in cui saranno vecchie e suocere e potranno esercitare un briciolo di potere sulle donne giovani. Tutte sono sottoposte alla legge patriarcale dell'onore maschile, in ossequio alla quale una moglie amatissima, fedelissima e innamoratissima deve essere ripudiata se l'invidia del paese la colpisce con una calunnia. Lavorano e ubbidiscono a mariti ubriaconi, traditori e fannulloni, per cui è più che comprensibile che, quando Enver Hoxha trasforma l'Albania rurale in un paese comunista, queste donne vivano come un sollievo la società nuova: possono lavorare, studiare, emanciparsi, avere almeno una parvenza di giustizia. La famiglia, che si è distinta durante la guerra per la partecipazione alla resistenza e il martirio di molti membri, si trasferisce a Valona e la voce narrante si trasforma in un io, la giovane Dora che è l'alter ego dell'autrice. Le vicende sono interessanti, curiose, non cedono mai all'esotismo o alla bizzarria, sono vicende di uomini e donne, non di personaggi che cercano la ribalta. C'è il colloquio con i morti che paventavo, ma è la molto naturale pratica del lamento funebre che non ha nulla di magico. E' un libro molto sincero, che insegna un sacco di cose sull'Albania e questo è il suo maggiore pregio, con una scrittura leggera e scarna, priva di abbellimenti, diretta, ma non sciatta né banale. Alla voce di Anilda Ibrahimi è facile dare fiducia, non è mai pretenziosa né sfuggente. Si capisce che crede nelle cose che racconta, e chi ha curiosità per un paese così vicino e insieme sconosciuto, sarà molto soddisfatto dalla lettura. Certo non è un grande romanzo, ma non credo che Ibrahimi coltivasse questa ambizione, e comunque i pregi superano di gran lunga i difetti. C'è anche un umore ilare che traspare in mezzo alle vicende drammatiche e fa piacere apprendere che in Albania gli italiani, come eredità della sciagurata seconda guerra mondiale, si chiamano peppini.
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giovedì 3 dicembre 2009
Personaggi
Ho appena finito un'antologia che consiglio a chiunque legga l'inglese e si interessi di scrittura. Si chiama The book of other people, a cura di Zadie Smith (Denti bianchi) e è uscita nel 2008 per la Penguin dopo una prima edizione del 2007 per Hamish Hamilton. Non mi sto a dilungare sui vari autori e relativi racconti, anche se posso segnalare il primo, Judith Castle di David Mitchell, a mio gusto il più perfetto, dotato di un blend che io adoro, tra il comico, il patetico e il grottesco, o Perkus Tooth di Jonathan Lethem, tratto dal suo ultimo romanzo Chronic City o Roy Spivey di Miranda July o Donald Webster in cui Colm Toibin riesce nella doppia carambola di creare un personaggio e una vicenda convincenti e coinvolgenti partendo da un monologo interiore rivolto all'amore fuggito e raccontando la morte della madre. Certo anche in questa antologia, molto ricca, 24 autori per 23 racconti, ci sono testi un po' deludenti, ma rimane un esempio di come si crea un personaggio e potrebbe essere un ottimo stimolo per un corso di scrittura creativa. Ci sono autori, oltre quelli citati e la curatrice (struggente il suo Hanwell Snr), come Dave Eggers, George Saunders, Jonathan Safran Foer, ecc ecc. Due racconti a fumetti (a me è piaciuto moltissimo Jordan Wellington Lint di Chris Ware) e uno illustrato. Un libro veramente bello e pieno di significato, non come certe antologie del tutto pretestuose o pallidissime. Una lettura divertente, varia, insomma di quelle che fan venire voglia di tornare a casa e sdraiarsi sul divano, fanno pensare e soddisfano profondamente. Chissà se sarebbe possibile con autori italofoni.
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