martedì 26 maggio 2020

Un racconto breve per parlare un po' di donne: Il sesso di Fidia


Per ingannare il tempo in attesa di un libro di cui parlare, un reperto archeologico: un racconto del 1986
                                    
IL SESSO DI FIDIA

Musei capitolini (Roma) - Amazzone 1.jpgLe luci si riaccesero nell'aula e gli studenti si mossero sulle sedie. Durante la proiezione delle diapositive il silenzio era stato perfetto, ma ora si sentiva un brusio confuso e rumore di quaderni che sbattevano, borse che venivano chiuse, fruscio di cappotti.
"Se qualcuno ha delle domande da fare, sono a vostra disposizione" disse il professore fregandosi gli occhi per riabituarsi alla luce.
Il silenzio che seguì era vagamente imbarazzante, e tutti si sentirono sollevati quando una ragazza delle ultime file si alzò per parlare. Era molto giovane; questo mi stupì perché in genere il corso di storia dell'arte greca non veniva seguito dalle matricole.
"Professore, vorrei sapere" esordì con voce sottile ma sicura "se Fidia era una donna sposata, con una casa, dei figli, una vita regolare insomma, o se va considerata un'irregolare, una che dovette rinunciare alla sua vita di donna per seguire la vocazione artistica. Insomma, in una società misogina come quella greca, una donna come Fidia veniva accettata, sia pure per l'eccezionalità del suo talento, o era emarginata perché non rispondeva al modello di donna dell'epoca?"
Le ultime parole della ragazza furono coperte da una risata che cominciò in sordina, raggiunse un livello irrefrenabile e si smorzò a poco a poco, man mano che gli studenti si accorgevano dell'espressione del professore, il quale, con gli occhi spalancati e gli occhiali davanti alla bocca aperta, sembrava sul punto di cadere svenuto. Mi volsi a guardare meglio la ragazza. Era piccola, minuta, graziosa in un modo un po' provinciale e impacciato, vestita in modo anonimo, con un paio di jeans e una felpa azzurra su una camicia bianca. Gli studenti seduti accanto a lei cominciarono a parlarle tutti insieme, e la sua espressione, all'inizio stupita e un po' indignata, cambiò rapidamente in una smorfia di confusa disperazione; si chinò ad afferrare una giacca appoggiata allo schienale della sedia, e stringendola tra le braccia insieme a libri e quaderni, uscì di furia dall'aula senza scusarsi né salutare nessuno.
Il professore non era ancora riuscito a chiudere la bocca, ma si era rimesso gli occhiali sedendosi di schianto sulla poltrona dietro la cattedra.
"Ci sono altre domande?" riuscì alla fine ad articolare, e quando nessuno degli studenti rispose, mormorò: "Allora andate pure, le lezioni riprenderanno come sempre lunedì prossimo alla stessa ora."
Tutti uscirono ridendo e commentando ad alta voce l'episodio. Io ero assetata e mi diressi al bar interno; dopo aver fatto la coda alla cassa e al banco, cercai un posto per sedermi. Non vi erano tavolini liberi, ma vidi la ragazza che aveva fatto quella ridicola domanda seduta da sola davanti a un bicchiere di coca-cola. Deposi tazza e teiera e mi sedetti accanto, decisa ad attaccare discorso per scoprire qualcosa di lei. Mi incuriosiva moltissimo. Notai che aveva una fede alla mano sinistra e che era meno giovane di quanto mi era sembrata nella penombra dell'aula; aveva i capelli scuri e un po' arricciati, tagliati senza grazia. Mi guardò con aria depressa e tirò su col naso; forse aveva pianto. Non sapevo quale pretesto trovare per attaccare discorso, ma fu lei a cominciare a parlare.
"Secondo te" disse con quella sua vocina che avevo già notato poco prima "i professori si ricordano della faccia degli studenti che vedono a lezione?"
"Non saprei" risposi "probabilmente di quelli che frequentano sempre, sì."
"Ma di uno studente visto una volta sola, e che ha fatto una domanda che li ha colpiti in modo particolare?"
Decisi di fingere di non sapere a che cosa volesse alludere, per non metterla in imbarazzo.
"Magari si ricorderanno la domanda, e non lo studente."
La ragazza rimase un po' in silenzio, con l'aria sempre più depressa.
"Ho fatto una figura terribile" disse infine "proprio col professore al quale avevo l'intenzione di chiedere la tesi. Mi sono iscritta solo quest'anno all'università perché mi sono sposata presto e ho anche un bambino, e ho appena cominciato a frequentare, con lo scopo preciso di laurearmi in storia dell'arte greca. Ma adesso dovrò cambiare programma, non avrò mai più il coraggio di presentarmi davanti al professore dopo questa figuraccia!"
"Raccontami, forse non è così grave come sembra."
La ragazza raccontò, e io ipocritamente la stetti ad ascoltare; devo confessare che, anche raccontata con quel tono angosciato dalla protagonista, la storia mi sembrò veramente assurda, e le scoppiai a ridere in faccia.
"Be', io ho fatto le magistrali, il greco non l'ho mica studiato, e neanche la storia dell'arte. Ma sono stata in viaggio di nozze in Sicilia, ho visitato Segesta, Agrigento e Selinunte e così ho pensato che dovesse essere una bella materia da studiare, mio marito mi ha incoraggiata, e io ci tenevo molto..."
Mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi e temetti che scoppiasse a piangere al bar, per una storia così ridicola, oltre tutto. Alla fine si riprese e ricominciò a parlare con voce lamentosa.
"Avevo anche pensato che sarebbe stato un bel nome, e di buon augurio, per una bambina! perché voglio una bambina, appena Marco andrà all'asilo. Ero così contenta di averle già trovato il nome!"
"Puoi sempre chiamarla Enea" dissi, pentendomi non appena ebbi chiuso la bocca.
Lei mi lanciò uno sguardo sospettoso e scosse il capo.
"Non mi sembra un bel nome," mormorò, come se non volesse offendermi "però lo terrò presente."
Mi sentii un verme e decisi che la conversazione era durata abbastanza.
"Devo andare" dissi, "ho una lezione tra dieci minuti. Non te la prendere troppo per questa storia, se lasci passare un po' di tempo il professore non si ricorderà certo più di te, e ti darà la tesi senza fare difficoltà."
Ma anche se la dimentica il professore, pensai, se ne ricorderanno gli altri studenti, questa storia entrerà di sicuro nella leggenda e sarà tramandata da generazioni di universitari. Mi dispiaceva per la ragazza, così sciocchina e mortificata, ma anche il diritto di essere stupidi si paga, ed è giusto così.
"Ti ringrazio di avermi ascoltata" disse, "mi sei stata di grande aiuto. Avevo veramente bisogno di parlare con qualcuno. Spero di non essere stata troppo noiosa. Adesso vado anch'io, la baby-sitter deve andarsene alle sei. Non avrò mai il coraggio di raccontare a mio marito che cosa ho combinato il mio primo giorno di università."
Pensavo anch'io che era meglio se non raccontava niente. E se continuava a frequentare, era meglio che non facesse più domande. Ma non dissi nulla, la salutai e me ne andai, senza avere il coraggio di chiederle il suo nome: come avrei potuto spiegarle che mi chiamo Consuelo?

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