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venerdì 7 giugno 2013

Le dimenticate, 6: la storia straordinaria del cavalier-pulzella e altro: Nadežda Durova, Memorie del cavalier-pulzella; Carolyn G. Hart, Morte in libreria; Mary Lavin, Eterna.



Le dimenticate, 6: Nadežda Durova, Memorie del cavalier-pulzella; Carolyn G. Hart, Morte in libreria; Mary Lavin, Eterna.
Non solo non erano finite le magnifiche ragazze Sellerio, ma questa Nadežda Durova fa il botto! Una storia straordinaria, con il valore aggiunto di essere una storia vera e un’autobiografia. Scritte dopo il 1816, pubblicate dalla mai abbastanza lodata Sellerio nel 1988 a cura e con una nota di Pia Pera, queste Memorie sono davvero una scoperta per me, il che non vuole dire niente perché la mia ignoranza è abissale. Comunque, ecco che cosa ho appurato dalla scarna nota finale e da qualche notizia racimolata qua e là su internet: Nadežda Durova nasce nel 1783 a Kiev in un campo militare, da un ufficiale russo e dalla figlia di un proprietario terriero ucraino, fuggita di casa per contrarre un matrimonio in seguito al quale il padre la rinnegò (ma poi fu riammessa nella casa paterna che divenne per lei un rifugio). La madre, piuttosto snaturata secondo il racconto di Nadežda, non riuscì ad accettarla fin dal primo giorno e una volta in cui la figlia era particolarmente molesta la lanciò dal finestrino della carrozza. Di conseguenza il padre si prese cura di lei e la affidò a un soldato che per svagarla la faceva giocare con le sciabole, i fucili e i cavalli. La bambina non dimenticò questo imprinting, e nei lunghi anni in cui la madre la costrinse a lavorare al tombolo in perfetta immobilità, senza mai poter uscire di casa e sfogarsi nel movimento, non sognò altro che diventare un soldato appena ne avesse avuto l’età. Il padre le regalò un cavallo, l’adorato Alkid, che la seguì fedelmente finché non morì durante una campagna di guerra. Nella realtà all’età di diciassette anni Nadežda si sposò ed ebbe un figlio, ma dopo pochi anni abbandonò entrambi e tornò dai suoi; a ventiquattro anni fuggì in groppa ad Alkid, vestita da uomo, e si unì a un reggimento di cosacchi dove restò finché non entrò nell’esercito regolare. Fu molto apprezzata per il suo valore, fu decorata, quando si cominciò a parlare di una donna ufficiale venne convocata dallo Zar che la trattò benissimo e le concesso il proprio patronimico per non essere riconosciuta. Partecipò alle campagne contro Napoleone, conobbe Kutuzov e altri personaggi dello stesso calibro, fu dappertutto onorata e apprezzata. A un certo punto ebbe l’infelice idea di scrivere al padre molto amato spiegandogli i motivi del suo gesto, e sottolineando il pessimo rapporto con la madre. Lui pensò bene di mandare la lettera alla moglie, già malata e disperata, da cui viveva separato in seguito ai suoi (di lui) continui tradimenti; lei molto opportunamente morì, così poté seppellire la povera Nadežda sotto i sensi di colpa. Sta di fatto che nel 1816  Nadežda lasciò a malincuore l’esercito perché il padre aveva bisogno di assistenza. Scrisse le sue Memorie, conobbe Puškin che con un filino di condiscendenza la incoraggiò a scrivere, ebbe un momento di notorietà durante il quale si trasferì a San Pietroburgo, ma non era fatta per la vita dei salotti e tornò alla sua città, Elabug (attualmente nel Tatarstan). Finché visse vestì da uomo e parlò di se stessa al maschile. Non è una vicenda a dir poco stupefacente? Purtroppo la nota finale di Pia Pera, autrice anche dell’ottima traduzione, è molto stringata e anche a cercare in rete non è che si trovino molte notizie. Tra le molte curiosità che suscita, ovviamente in prima linea ci sono quelle relative alla sua identità di genere; ma pare che a parte l’episodio del matrimonio, verosimilmente imposto e da lei del tutto cancellato dalle sue memorie, non abbia avuto altri attaccamenti. Pare che anche il figlio la chiamasse “caro genitore” (dear parent, nella traduzione inglese), ma mi piacerebbe saperne molto, molto di più. Comunque queste Memorie sono molto divertenti da leggere. Come autrice, Nadežda Durova ha un occhio attentissimo ai particolari, alle persone che tratteggia con poche efficaci pennellate, agli episodi buffi o esaltanti che costellano la sua inquieta vicenda. Nell’infanzia era una bambina ipercinetica, appassionata di attività fisica, della natura, degli animali; le sue parole d’amore più appassionate vanno al cagnolino Manil’ka (L’amavo tanto, quanto non ho più amato nessuno.) e al generoso, fedele cavallo Alkid, per la cui morte spende frasi davvero disperate. La madre perfida e infelice, il padre indulgente, i servi, i compagni d’armi, i capi, lo Zar, sono comprimari tanto quanto i gesuiti obesi in uno degli episodi più divertenti, le ostesse ebree, l’infelice fuorilegge tataro Chamitulla, e i mille altri personaggi che incrocia nel suo lungo viaggiare. Anche le condizioni del servizio e della guerra sono impressionanti da leggere. Son due giorni che non chiudo occhio e non scendo di sella, e intanto Napoleone cade nella trappola dell’apparente ritirata russa. Molto lucidamente riflette che non può essere quel gran genio che dicono, fin troppo convinto com’è della sua buona stella, delle sue doti, credulone e poco informato. Una cieca fortuna, il concorso delle circostanze, l’oppressione della nobiltà e la seduzione del popolo hanno potuto aiutarlo a salire sul trono; ma non gli sarà facile restarci e occuparlo degnamente. A Smolensk e a Borodino le pallottole di fucile non la preoccupano, sono i cannoni il vero pericolo. Valorosa ma non ribelle, bisognosa di libertà e autonomia, segnata da un’infanzia di repressione fisica, chissà come fu realmente nell’intimo, che cosa desiderava, che cosa avrebbe potuto raccontarci se non avesse dovuto presentare al mondo una faccia così faticosamente conquistata. Mi piace accomiatarmi da Nadežda Durova con le parole con cui ricorda una partenza della madre, quand’era bambina: All’inizio della primavera la mamma decise di andare in Ucraina dai suoi parenti, e mi lasciò a casa, cosa che mi riempì di gioia. […] Entrai in casa ormai libera di andare dove volessi senza alcun timore, di parlare a voce alta, di fare tutto il baccano che volevo, di saltare, rigirarmi davanti allo specchio, correre in giardino, uscire dal cancello; potevo buttar via nello scantinato quel tombolo ributtante con tutti i suoi uncini e quell’intrico a causa del quale mi avevano spesso picchiato le mani. […] Non so s’io fossi colpevole a provare questa gioia, ma so di averla provata con tutta l’intensità di chi dalla schiavitù irrompa nella libertà.
Purtroppo questo incantevole libro è del 1988 e non sarà facile trovarlo. Io l’ho comprato allo stand della Sellerio al Salone del Libro di quest’anno, e sono stata ben fortunata.
Concludo con due libri molto, ma molto meno interessanti. Il primo, Morte in libreria (prima edizione 1987, pubblicato da Sellerio con la traduzione di Federica Culotta nel 1999) è di Carolyn G. Hart (Oklahoma City, 1936), una scrittrice americana di cozy misteries, il che significa che questo piccolo giallo sembra un’Agatha Christie fuori tempo massimo, priva del senso del “male assoluto”, dell’air du temps e delle geometrie temporali che rendono così affascinanti ancora oggi i suoi romanzi. Qui siamo nel su un’isola molto esclusiva davanti alla costa della South Carolina, dove una scemetta di nome Annie ha ereditato una libreria specializzata in gialli. Tra continue citazioni di giallisti, che confesso di non aver mai sentito nominare per la maggior parte, e dei loro personaggi, si dipana una storiella la cui caratteristica saliente è che i sospettati sono tutti scrittori (di crime stories ovviamente). Siamo all’inizio dell’era dei computer, e il fatto che qualcuno ne faccia uso ha un suo peso nel plot. Una persona da sospettare subito ci sarebbe ma per motivi di serialità va esclusa; la cosa più interessante è che uno dei personaggi ammazza la moglie e riesce a cavarsela usando lo stesso argomento di Oscar Pistorius, cioè che l’ha presa per un ladro notturno. Il lato sentimentale è se possibile ancora più scontato. Lettura tanto leggera da scivolar via come la brezza, ottima per chi ha appena dato un esame molto impegnativo o ha subito qualche grave stress emotivo, nel senso che non necessita il cervello per seguire la vicenda.


L’altro libro è Eterna di Mary Lavin. Nata nel 1912 in Massachusetts da genitori irlandesi, a nove anni tornò in Irlanda dove visse fino alla morte nel 1996. Sposata due volte (la seconda con un gesuita spretato), ebbe tre figlie e visse in campagna, elementi che si ritrovano nelle sue pagine. Ebbe grande successo e si dedicò quasi esclusivamente al racconto, di cui questa raccolta raduna sette esempi, con traduzione e dotta nota finale di Roberto Birindelli. Si tratta, a parte un racconto simil folkoristico, di storie che esplorano rapporti familiari, memorie personali, con una forte presenza di elementi sociali come la chiesa cattolica e i doveri del conformismo. Si può dire che Mary Lavin sia un po’ una nipotina di Virginia Wolf  e ancora di più di Katherine Mansfield (tanto che uno dei racconti, La felicità, ha quasi lo stesso titolo del suo più famoso), che fa un grande uso del flusso di coscienza, delle auto-rivelazioni improvvise, della sensibilità e del pensiero a-razionale femminile. Ben scritti, alcuni interessanti per l’argomento (La madre della monaca), per niente superficiali né intellettualistici, mi hanno tuttavia, malgrado la mia passione per i racconti, lasciata del tutto fredda. Not my cup of tea, come avrebbe probabilmente detto l’autrice. Però un motivo di interesse l’ho trovato: in piemontese per dire che uno ci prova con tutte si usa l’espressione tiracutin, cioè tirasottane. Be’, anche a Dublino e dintorni per corteggiare una donna si usa tirarle la gonna (Vaso di coccio). Sarà un’abitudine tipicamente cattolica? Dico stupidaggini perché un po’ mi vergogno di liquidare così un’autrice che probabilmente vale molto di più delle mie frettolose parole. Speriamo che la aiutino almeno a incontrare qualche lettore più congeniale di me.           
        

martedì 21 maggio 2013

Le dimenticate, 5: Chi l'ha detto che il delitto deve sempre essere punito? Elisabeth Sanxay Holding e Marie Belloc Lowndes



E per finire, due thriller, o noir, o quello che vi pare, a conferma che le penne femminili sono maestre di perfidie e spaventi, e certe volte non c'è nessun bisogno di punire il delitto.
Elisabeth Sanxay Holding (1889-1955), educata a New York in scuole per signorine, sposò un diplomatico inglese, viaggiò molto al seguito del marito, scrisse romanzi sentimentali e polizieschi, ebbe molto successo in vita e è ancora ristampata negli USA. Molto ammirata da Raymond Chandler e da Alfred Hitchcock, pubblicò nel 1947 Una barriera di vuoto, che ebbe due riduzioni cinematografiche, ed è ambientato quando gli Stati Uniti erano in piena seconda guerra mondiale. Lucia Holley è una casalinga trentottenne, sposata da vent’anni, con una figlia non ancora diciottenne, Bee, e un figlio quindicenne, Dave. Il marito Tom è da tre anni nel Pacifico, e lei vive sulla East Coast nei pressi di New York con i figli e il vecchio padre, destreggiandosi tra razionamenti, difficoltà a trovare i generi di prima necessità, spostamenti in treno e discussioni con i tassisti esosi. Lucia è una tipica donna upper class che mai ha lavorato fuori casa, ma in casa in realtà lavora dalla mattina alla sera a far funzionare tutto al meglio per la famiglia. In lei, però, c’è anche qualche sotterranea irregolarità; prima di tutto fuma, e anche se siamo ancora lontanissimi dalle crociate antifumo, ciò non va bene per una signora. Poi ha un legame del tutto insolito con la propria cameriera nera, Sibyl, che ammira molto, del cui giudizio si fida totalmente, e tutto sommato è la sua unica amica. In questa situazione insieme normalissima e faticosissima, una tegola imprevista: Bee si caccia nei guai con un uomo molto più vecchio, sposato, assai losco, che è in possesso di un pacco di sue lettere compromettenti. Di qui parte una vicenda che mette i brividi non per efferatezza o violenza, ma perché potrebbe capitare a tutti noi: un piccolo problema, un tentativo di risolverlo che si rivela un passo falso, un altro tentativo in perfetta buona fede che si conclude in un disastro, ancora un tentativo di cancellare ciò che è accaduto che peggiora enormemente le cose… un crescendo davvero angosciante perché plausibilissimo, in cui anche la sacralità della casa viene minacciata da personaggi di inquietante estraneità oltre che ambigui o aggressivi. Ma Lucia è una damsel in distress superpasticciona e insieme piena di risorse, che con la sua fragilità conquista (quasi) tutti gli uomini con cui viene a contatto, almeno quelli ancora sensibili all’appello della femminilità da proteggere, e la conclusione non è né politicamente corretta né scontata. Bellissimi personaggi di contorno rendono questo libro una lettura davvero gradevole. Traduzione di Rosalia Coci, con una nota di Roberto Cocchis.
Con Il pensionante (1913) di Marie Belloc Lowndes (1868-1947) siamo invece nella Londra nebbiosissima e freddissima di fine Ottocento. L’inizio è di quelli che acchiappano al cuore e ti stendono a terra: Ellen e Robert Bunting, una coppia di ex domestici divenuti affittacamere, siedono in silenzio in un gelido interno, disperati e affamati, sull’orlo della miseria più nera. Hanno venduto tutto il vendibile, rinunciato persino a mangiare, perso qualsiasi speranza. Quand’ecco che si odono due forti scampanellate alla porta… Irresistibile. Il pensionante, appunto, è molto eccentrico ma si rivela una manna del cielo: disposto ad affittare tutte le camere vuote pur di non avere vicini, a pagare più del richiesto per non essere disturbato, molto quieto, di giorno sta in casa a leggere la Bibbia e fare misteriosi esperimenti, di notte esce nella fittissima nebbia e chissà dove va… Come avrete capito non è il fattore sorpresa che conta nel romanzo, ma la tensione che sale dalla prima pagina: Londra è sconvolta da una serie di efferati delitti (e uso coscientemente l’espressione abusata) che avvengono tutti secondo un rituale ripetuto, e le vittime hanno tutte le stesse caratteristiche: prostitute o ubriacone, comunque il tipo di donne che si possono incontrare in piena notte nei sordidi vicoli dei quartieri operai. A poco a poco i delitti del Vendicatore (così la stampa ha soprannominato l’assassino) si avvicinano alla dimora dei Bunting, nella centrale Marylebone Road (notate, vicinissima a Baker Street e al mitico n221B dove abita Sherlock Holmes, e al Museo delle Cere di Madame Tussaud, che infatti ha un ruolo cruciale nella vicenda). Mrs Bunting comincia a essere divorata dai sospetti, mentre la sua casa è intensamente frequentata da un giovane ispettore di polizia che oltre a occuparsi dei casi del Vendicatore è innamorato della figlia di Mr Bunting, temporaneamente in visita dal padre. Qui mi taccio e lascio il gusto della scoperta ai lettori, limitandomi a qualche osservazione. In tutto il romanzo non vi è una parola sulle vittime, che sono devianti, quindi la loro morte è irrilevante. Solo di una si dice che era “una brava moglie, e una brava madre” fino a che non ha cominciato a bere. Quello che fa impressione a tutti, che sconvolge l’opinione pubblica, non è tanto la morte provocata quanto l’impunità con cui il delitto avviene, l’interruzione del patto singolo-società. La gente per bene sa che non potrà essere vittima del Vendicatore perché si comporta decorosamente, non beve e la notte sta a casa. Così quando il Vendicatore comincia a colpire di giorno, è troppo, l’indignazione per l’inefficienza delle forze dell’ordine cresce e il capo della polizia è costretto a dimettersi. Molto interessante è anche l’analisi minuziosa del ruolo dei media, l’attenzione agli articoli dei giornali che soffiano sul fuoco della paura, la loro lunghezza e posizione, l’attesa per l’arrivo degli strilloni che nel silenzio della via (o bei tempi pre inquinamento acustico da traffico automobilistico!) portano il terrore e l’eccitazione per il nuovo delitto. Così come la presenza massiccia dei giornalisti e lo svolgimento delle operazioni all’inchiesta, tutta la narrazione è improntata a un’aderenza alla realtà che l’impianto romanzesco non deforma affatto. Altro motivo che fa di Il pensionante una lettura davvero istruttiva oltre che divertente, è che porta alla luce, oltre alla passione per i delitti, un’altra delle ossessioni inglesi all’origine di innumerevoli variazioni: il rapporto tra servi e padroni. Basti pensare a Gosford Park di Altman, a Il servo di Losey, ai televisivi Upstairs and downstairs e Downton Abbey, a Ai piani bassi di Margaret Powell. I signori Bening non denunciano il loro inquietante inquilino un po’ perché hanno paura di tornare alla miseria, un po’ per riconoscenza e soprattutto perché è un gentiluomo. Per questo Ellen fin dall’inizio decide di accoglierlo riconoscendolo tale dalla pronuncia e dal modo di fare malgrado sia privo di bagagli e di aspetto un po’ equivoco, per questo non se la prendono per le stranezze e sono sempre pronti a compiacerlo. La upper class si sa che è sempre un po’ eccentrica. E non è facile capire dove finiscono l’avidità e la necessità e dove comincia la fatalistica accettazione delle differenze di classe che fa degli inglesi, in alto e in basso, dei grandissimi snob. Infatti, politicamente il signor Bening è un conservatore convinto. Traduzione di Rosalia Coci. Il mantello di Inverness che il pensionante indossa e viene nominato sovente, è un mantello con la pellegrina, per intenderci lo stesso di Sherlock Holmes. Il pensionante ha avuto cinque trasposizioni cinematografiche tra il 1927 e il 2009.  
Marie Belloc Lowndes, di padre francese e madre inglese, nacque a Londra e trascorse la giovinezza in Francia; appartenente a una famiglia ricca di celebrità (il fratello, Hilaire Belloc, fu un famoso poeta e scrittore cattolico) fu scrittrice prolifica e di successo fino alla morte.

martedì 14 maggio 2013

Le dimenticate, 4: Un romanzo da leggere solo perché è bellissimo: Celia Dale, In veste d'agnello




Non avere letto In veste d’agnello, di Celia Dale (1912- 31 dicembre 2011) noir o poliziesco o thriller che lo si voglia considerare, è un vero peccato. Le notizie biografiche su questa scrittrice sono scarse, una foto la mostra con una faccia certo non bella eppure di straordinaria facciosità. Fu sposata, lavorò come segretaria di uno scrittore (o editore, i dati che ho trovato sono discordi), fu critica letteraria, pubblicò tra il 1943 e il 1988 tredici romanzi e una raccolta di racconti. Questa credo sia l’unica sua opera tradotto in italiano, il che è sicuramente un ulteriore gran peccato. Pubblicata quando la sua autrice aveva settantasei anni, affronta uno degli argomenti più sgradevoli e moralmente disgustosi che conosca, cioè le truffe agli anziani, ma lo fa in maniera davvero egregia, acchiappando il lettore dalla prima pagina e portandoselo appresso senza sforzo fino all’ultima. Londra, anni ottanta: Grace Bradby e Janice, alias Mrs Black e Mary, uscite dal carcere insieme e coabitanti per convenienza, si presentano a casa di vecchiette che vivono sole in veste di inviate dei servizi sociali, le imbottiscono di balle a proposito di possibili somme integrative alla pensione, poi Mary – l’assistente – si offre di fare una bella tazza di tè, riempie di sonnifero la tazza della padrona di casa che si addormenta, dopodiché le due hanno tutto il tempo di rovistare con calma e portarsi via tutto, la pensione, i risparmi se ci sono, i pochi oggetti che possono essere rivenduti ai mercatini delle pulci o ai bottegai poco scrupolosi: insomma la vita, i ricordi, l’identità delle vittime. Il bottino non è ricco ma facile da piazzare, e facendo tre o quattro colpi al giorno ci vivono bene in due. Grace è più anziana, piccola, robusta e affabile, ed è la mente: pianifica, punta le potenziali vittime all’ufficio postale quando ritirano la pensione e le segue fino alle loro abitazioni, si segna gli indirizzi, controlla le targhette, poi si premura di disfarsi immediatamente della refurtiva, sempre in mezzo alla folla, sempre il più lontano possibile da casa. Janice è l’anello debole: bruttina, pettinata come John Lennon, totalmente vacua, romantica, alla ricerca di un uomo che la tratti bene, vittima di impulsi autolesionisti come tenere piccoli oggetti trafugati. Sono due personaggi magnifici, soprattutto Grace, che malgrado la sua naturale amoralità, la sua totale mancanza di empatia, il modo cinico e naturale con cui delinque e manipola le vite altrui, non riesce a suscitare rifiuto, per il modo magistrale con cui Celia Dale conduce la sua narrazione. Poi c’è un giovanotto che entra casualmente nella loro vita, e un uomo solitario che fa scattare nella mente fertile di Grace un piano assai più ambizioso… Non dico niente sulla trama perché è avvincente e piena di colpi di scena. Dico solo che è un romanzo eccellente, ed è una vergogna che non sia più conosciuto. Dipinge vividamente la Londra degli anni ’70/80, swinging e cosmopolita forse, nei giusti quartieri, ma piena di sacche di dignitosa miseria o di ignominioso benessere dove non arrivano né la moda, né i turisti, né la musica, neppure gli immigrati, una Londra più vicina a quella umanissima di Dickens che al nostro immaginario contemporaneo. Fa pensare anche a certe figure dei romanzi di Barbara Pym, vite grigie e nascoste come i loro sentimenti. Tutte le vecchiette prese di mira da Grace e Janice sono altrettanti personaggi completi, mai descritti come tipi o macchiette, ma sempre persone, riconoscibili nella loro unicità e diversità. Un personaggio grandioso è Marion Robinson, l’ex attrice egocentrica ma non stupida che diffida di Grace, e vive di ricordi tra fotografie e abiti di scena, legata alle proprie abitudini di vecchia che non ammette di essere stata messa da parte dalla vita, sicuramente ispirata alla realtà (Celia Dale era figlia dell’attore James Dale). Nei pensieri del poliziotto che cerca di risolvere il caso delle vecchiette derubate, perché non tutto va sempre bene alle due delinquenti e prima o poi qualche errore lo commettono, c’è a un certo punto un desolato ritratto della condizione senile: Rinchiusi dentro covi e tane in tutta l’Inghilterra, uomini e donne anziani tenevano duro, con coraggio o malumore, ubriachi o sobri, matti o sani di mente, ma con il diritto alla vita finché durava, confortati dai loro tesori, dagli oggetti che testimoniavano che erano stati giovani, che avevano amato ed erano stati amati, che avevano lavorato, che avevano delle capacità, che contavano qualcosa. Derubarli era una sorta di omicidio, privarli con l’inganno del loro passato significava disprezzare la loro dignità. Anch’egli è un personaggio accattivante, altruista, capace di accogliere, entusiasta e contento del proprio lavoro, bonario, e insieme ingenuo e tradito dal bisogno di essere amato. Ecco, l’amore manca a tutti in questo romanzo, o chi ce l’ha deve nasconderlo, e c’è anche chi, come Grace, non ha mai saputo che cosa farsene e non sa neppure nominarlo: Il matrimonio non è così eccitante. […] Non sono mai stata interessata al sesso, cara, è solo l’aspetto legale della situazione a essere più vantaggioso, se si è sposati.
Tutto questo è raccontato in modo piano e veloce, oggettivo, attentissimo ai particolari concreti che dipingono un’epoca, ricco di interni di cui sembra di sentire l’odore e intravedere le penombre, senza indulgere in emotività o eccessi di psicologia, sempre in terza persona ma alternando il punto di vista di Grace, di Janice e del poliziotto. Purtroppo la traduzione di Rosalia Coci inciampa e barcolla, appoggiandosi a un lessico a dir poco sorprendente: per limitarsi alle pagine 120-122, confonde fodere e tappezzeria, introduce neologismi come graticolato per graticcio, ci introduce nel piccolo patio circondato da pareti dietro le tende che si intuisce poi essere una veranda, o meglio un balcone verandato, ci racconta di una proficua mattinata in giro per la Harrow Road dove, a dispetto della conurbazione di edifici popolari, trovò alcune enclavi di vecchie casette a schiera, nei seminterrati delle quali si annidavano ancora alcune promettenti vecchiette per il giorno dopo. Non è che voglio essere pignola, ma un libro così bello avrebbe meritato una maggiore cura.        

venerdì 10 maggio 2013

Le dimenticate, 3 - Quella che chiunque scriva dovrebbe avere letto: Constance Fenimore Woolson



Tutt’altro discorso a proposito di Constance Fenimore Woolson. Due racconti raccolti sotto il titolo del primo, Via del Giacinto, sono l’unica cosa che ho letto di suo ma mi hanno davvero colpita e mi hanno fatto venire voglia di saperne di più. Nata nel 1840 nel New Hampshire, pronipote di James Fenimore Cooper, ebbe un’infanzia e una giovinezza costellate di lutti familiari, visse sui Grandi Laghi e nel sud degli Stati Uniti durante il periodo della Ricostruzione, poi si trasferì con la madre in Europa dove rimase fino alla morte nel 1894. Viaggiò molto, in Francia, Svizzera, Germania, Egitto, Grecia, Inghilterra, ma soprattutto in Italia. Ebbe una lunga, tormentata e poco chiara relazione con Henry James (le loro lettere furono distrutte), pubblicò molti libri e ebbe molto successo, ebbe molti interessi, fu indipendente, forte, attivissima. Eppure la sua morte, avvenuta a Venezia per una caduta dal secondo piano di un palazzo sul Canal Grande, fu considerata subito un suicidio. E tuttavia è caduta nell’oblio come scrittrice, e viene ricordata per lo più per la sua relazione con James. 

Nelle sue opere cercò sempre di oltrepassare i limiti, andare un po’ più in là di quanto ci si potesse aspettare da una scrittrice. Scrisse della frontiera quando era nel Nord, poi della vita negli stati del profondo sud, in Europa storie di espatriati. I due racconti che ho letto sono veramente straordinari, soprattutto il secondo, Miss Grief, e rappresentano una riflessione sulla frase del Vangelo di Matteo "Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti". In Via del Giacinto si assiste al progressivo addomesticamento, o normalizzazione, speculare dei due personaggi principali, due americani a Roma: una ragazza indipendente e anticonformista che vorrebbe dipingere ma non ha talento (o così pensano i critici che paternalisticamente la spingono a intraprendere un’attività più consona a una donna, come la governante) e uno scrittore brillante e ben introdotto nel bel mondo, che a poco a poco viene preso dal desiderio prima di trasformarla poi di proteggerla, supera le barriere sociali e la sfinisce fino a convincerla a sposarlo. Un racconto senza sentimentalismi né emozioni, con personaggi magistralmente costruiti, scritto una prosa limpida e molto moderna, efficacemente tradotta da Edoarda Grego. 

Ma è Miss Grief che mi ha colpita al cuore. Secondo me dovrebbero leggerlo obbligatoriamente tutti gli aspiranti scrittori pronti a vendersi l’anima pur di pubblicare, quelli che scrivono pensando al piacere del pubblico, gli editor che riscrivono i libri per adattarli al mercato, tutti coloro insomma che non scrivono per amore della scrittura, ma per amore di se stessi, della fama e del successo. Siamo di nuovo a Roma, a casa di uno scrittore americano giovane, sano  e forte, di aspetto abbastanza piacevole, con del denaro […] complessivamente sufficiente a rendere la vita gradevole, cosciente della sua fortuna e di essere presuntuoso, anche grazie alla soddisfazione per la mia piccola fama […]. So che di me si parla come “di quel tranquillo giovanotto che scrive dei deliziosi bozzetti di società”, e capace di godersi la vita. A casa di costui si presenta una certa Miss Grief, che malgrado venga sempre fermata sulla porta da un cortese cameriere, insiste finché un giorno lo scrittore, in un momento di inquieto nervosismo, la accoglie. La donna si chiama in realtà Aaronna Crief, è oltre la mezza età, magra, pallida e chiaramente debilitata dalle privazioni. Ha lasciato gli Stati Uniti con una vecchia zia, vive di stenti a Roma. Ma conosce a memoria tutte le opere dello scrittore, gliele recita con forza e passione, infine gli lascia un suo manoscritto di un dramma, Armatura, pregandolo di leggerlo e darle un giudizio. 

Il dramma rivela una forza, un’originalità, assolutamente straordinarie. Ha però errori e squilibri che vanno corretti: un personaggio da eliminare; insomma, si direbbe oggi, ha bisogno di un drastico editing. Ci prova lo scrittore, che però alla fine si rende conto che l’opera non può essere riportata alla normalità letteraria. Ma la donna oppone un assoluto, adamantino rifiuto a cambiare alcunché nelle proprie parole. Ostinata e distrutta nel fisico dalle privazioni vissute per scrivere le sue opere, muore consunta dalla fatica e vuole che le altre sue produzioni vengano seppellite con lei; solo il dramma lo lascia allo scrittore, pregandolo di aiutare la zia a tornare in America. Il dramma pagherà le spese, dice. Ma non sa che Armatura non potrà mai essere pubblicato. Io lo conservo, dice lo scrittore, ogni tanto lo rileggo – non tanto come memento mori, ma piuttosto come memento della mia buona fortuna, per la quale dovrei sempre continuare a dire grazie. La mancanza di un granello rese il suo lavoro vano e quell’unico granello fu dato a me. Lei, dotata di maggior forza, fallì; io, meno dotato, ebbi successo. 

Queste parole possono anche essere lette a parziale consolazione dei molto scrittori che pur consci del proprio talento, mancano della capacità di adattarsi al mondo. Comunque, Constance Fenimore Woolson è una scrittrice notevolissima e Aaronna Moncrief (questo è il nome completo, che il narratore scopre solo dal necrologio), la povera, brutta, affamata Miss Grief, ardente vestale dell'arte, divorata dal fuoco della passione creatrice, è un personaggio indimenticabile. Mi darò da fare per trovare altre opere di questa scrittrice.