La donna camminava lentamente facendo dondolare con una mano un parasole di seta color crema. Portava un abito scollato di pizzo nero e tacchi altissimi che la facevano barcollare. Mi chiesi come potesse sopportare il gelo della notte invernale. Vista da dietro, la sua figura sottile faceva pensare a una giovinezza inoltrata e un’espressione meditativa. Quando la superai e mi volsi a guardarla, vidi invece che era quasi vecchia e sotto alle spesse lenti da miope piangeva lacrime così brucianti da esalare vapore. “Non si sente bene? Le serve qualcosa?” le chiesi. Non è mia abitudine rivolgere la parola per strada a donne sconosciute, ma quella era una notte speciale, sembrava che tutti conoscessero tutti e parlassero con tutti. Lei scosse il capo, forse non mi vide nemmeno, tra il buio, le lenti e le lacrime. Non insistetti, perché ero in ritardo. Viola, vestita di lamé d’argento, mi aspettava nella baraonda della sua casa profumata di fiori e frizzante di champagne, calda di cibo, vibrante di musica e dell’allegria di chi in quel momento stava pensando: “Purché mi basti il fiato ancora per tre ore, due ore, un minuto, dong! Mezzanotte!” Nella strada non c’era più nessuno. I caroselli con il claxon schiacciato, le urla ubriache, i fuochi artificiali e gli spari sarebbero cominciati dopo, nel nuovo millennio. Mi volsi ancora a guardare la donna. Si riparava sotto il parasole per difendersi dai primi fiocchi lenti e radi. Quando mi aprì la porta, Viola aveva in mano una coppa piena di vino e due orchidee bianche dietro all’orecchio. Mi baciò sulla bocca e disse: “E’ bello essere insieme stanotte.” Gli amici mangiavano e si scambiavano brandelli di ricordi, dichiarazioni d’amore, e nomi, sfilze di nomi di assenti lontani spariti defunti. Viola mi teneva per mano come se avesse paura che d’improvviso mi sarei buttato dalla finestra, spalancata per fare uscire il fumo. Trascinandomela dietro, mi affacciai a guardare in strada. La donna in nero era sul marciapiede di fronte, avanzava piano piano nel vortice di fiocchi bianchi stringendo il parasole con entrambe le mani. “La neve!” gridò qualcuno, spingendomi via. A mezzanotte le coppe scintillanti volavano l’una verso l’altra in brindisi storditi, su tutti i volti splendeva il sollievo: “Ce l’abbiamo fatta! Siamo qui, siamo vivi, noi, i privilegiati, abbiamo piantato solidamente un piede nel 2000, alla faccia delle persone care o dei nemici caduti per strada!” Ballai un lento con Viola, sussurrandole nell’orchidea ciancicata parole d’amore che non avevo mai saputo prima. Verso l’alba uscimmo. Nevicava fitto e quel bianco intatto era più eccitante dello champagne. Tutta la città era per strada, solo i malati e i troppo vecchi erano rimasti nelle loro tane calde a leccarsi le ferite. Certo qualcuno stava morendo, felice di avere comunque varcato la soglia fatidica o incosciente del giorno e dell’ora. I fuochi d’artificio scoppiavano anche se la neve li spegneva prima che potessero levarsi nel cielo giallognolo. Ebbi la visione di tutto il pianeta che brindava, ventiquattr’ore di tappi che saltavano, baci distribuiti a casaccio o con intenzione, coppie che copulavano per inaugurare il millennio, bambini che nascevano al momento giusto, un caos di vita e di morte che festeggiava un evento insignificante, un giorno di più per il mondo, uno di meno per noi sopravvissuti. Per un attimo mi parve di riconoscere la donna in nero appoggiata a un lampione, con un bicchiere in mano e un braccio che le cingeva la vita. Poi la folla si mosse e non la vidi più. Tornai a casa con Viola per fare l’amore, ma eravamo così ubriachi che ci addormentammo vestiti nella luce sporca del mattino. La sera, la neve era già sciolta.