Una vera sorpresa questo veloce e densissimo romanzo di Elisabetta Chicco Vitzizzai che affronta con levità e ironia argomenti di grande presa emotiva e pregnanza storica. A sorprendere non è certo la bellezza (conosco le opere di questa autrice da tempo, e so che cosa aspettarmi) né l’argomento, ma l’originalità con cui è affrontato. Daniel Avigdor, ventenne ebreo torinese, in un pomeriggio di primavera del 1953 viene incaricato di andare in farmacia a procurare una medicina indispensabile per il padre agonizzante. Daniel ha alle spalle esperienze pesantissime, una madre uscita di casa nel 1943 e mai più ricomparsa, un padre severo, anni di paura, fughe, privazioni estreme in condizioni intollerabili. Però ha anche vent’anni: e la primavera riempie l’aria di polline e luci. Così comincia un vagabondaggio quasi involontario per le vie della città, con il naso per aria e l’imperativo di trovare una farmacia un po’ accantonato in un angolo della mente. Pare di vederlo seguire le uste che man mano il capriccio, o il destino, gli propone, in un percorso dalla topografia e dalla toponomastica di una precisione sbalorditiva. Il suo pomeriggio si dipana alternando parti in prima persona e altre in terza, ricordi che ci rivelano il suo passato e impressioni legate al suo presente, incontri, ricordi di grande sensualità, svagatezze e dolori profondi, finché sul far della sera si imbatte nella tentazione definitiva, quella che il Talmud condanna: “Meglio camminare dietro a un leone che dietro a una donna”. Ma Daniel, tutto preso da quell’ondeggiare rotondo, non solo segue la bella Ada ma trova anche il coraggio di abbordarla. È una donna ma è anche un deus ex machina: in quell’incontro, nel quale getta il denaro per comprare la medicina per il padre, Daniel trova tutto quello che andava cercando da tempo, intimità, scambio, verità e coraggio. Improvvisa e folgorante la verità, amara ma rasserenante come ogni prova severa. Il destino gli presenta la soluzione dei misteri della sua infanzia, ma non dirada la nebbia che li avvolge. Il ritorno dal padre lo rende definitivamente adulto dandogli la consapevolezza che non può assolvere né condannare, ogni colpa porta in sé anche una parte di virtù, l’amore ha tante facce e non è mai innocente.
La lezione finale di questo romanzo di formazione che si dipana con ammirevole equilibrio tra la freschezza svagata dei vent’anni e l’oscura, definitiva angoscia delle persecuzioni contro gli ebrei, è forse che bisogna lasciarsi alle spalle i genitori per crescere. I loro dolori, le loro colpe, e anche i loro bisogni. Il gesto di Daniel, che usa i soldi delle medicine per offrire un frappè a Ada, è una metafora che mi incanta. Come si potrebbe esprimere meglio la grazia, oltre che oltre che l’ineluttabilità, della vita che si libera del passato per correre verso se stessa?