Finisce l'anno senza che io tradisca i miei due amori letterari del momento, Mo Yan e Orhan Pamuk. Devo dire che non sono amori esclusivi, anzi, in questo campo ho un harem variegato e mutevole di amorazzi, simpatie, flirt e affetti profondi, questi due sono però i favoriti in carica. E non posso dire nemmeno che siano gli autori che preferisco leggere: entrambi sono abbastanza difficili in certi casi, e non sempre gli argomenti che trattano mi appassionano. Ma scrivono in un modo che mi incanta, mi riempie di stupore e di invidia. Sono diversissimi.
Pamuk è cristallino, sobrio, elegante, evocativo al massimo, eccelle nell'esprimere la nostalgia, una struggente, universale, compassionevole nostalgia, una tristezza umanissima, il senso di tutto ciò che è perduto per sempre. E' un vero, grande scrittore, di quelli che hanno un intero mondo tutto loro nella testa e nella tastiera. Penso che chiunque scrive dovrebbe leggere il capitolo 10, intitolato Tristezza, di Istanbul, il libro dedicato alla sua città natale, e poi piangere, come ho fatto io, per la consapevolezza che non riuscirò mai a scrivere niente di lontanamente simile, di altrettanto efficace nella semplicità di un elenco che descrive una città, un mondo, gli uomini che lo abitano.
Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia senza fondo.
Ovvio che ci sono ancora fiumi di parole da spendere su questi due scrittori, ma io per il momento volevo solo attestare il mio indefettibile amore per la loro scrittura, senza affrontare i temi dei loro libri. Magari un'altra volta. Ma nella scrittura davvero eccellono.
mercoledì 31 dicembre 2008
martedì 23 dicembre 2008
Allora auguri
Allora auguri, come d'uso. Anche se l'atmosfera natalizia mi piace quanto quella che aleggia in una casa dove il giorno prima c'è stata una bagna cauda, non mi sottraggo né ai regali fatti e ricevuti né agli auguri distribuiti dovunque capiti, né ai baci né alle mance. Chi sono io per oppormi a una valanga globale? Inoltre so di avere un sacco di idiosincrasie e fissazioni, quindi, come si dice, un miliardo di mosche non può avere torto. Piuttosto mi chiedo a chi sto facendo gli auguri: a me stessa, suppongo, visto che questo blog è il meno visitato dell'universo. Ma non importa. Data la stura al narcisismo bloggistico, non si può tornare indietro.
Mi sottraggo solo alla lista di auguri mondiali e policamente corretti, in verità più capodanneschi che natalizi, che impazzano sui giornali e riviste. Io metto qui un bello spazio bianco e che ognuno se lo riempia come vuole.
Buone feste, e festeggiamo se possiamo.
Mi sottraggo solo alla lista di auguri mondiali e policamente corretti, in verità più capodanneschi che natalizi, che impazzano sui giornali e riviste. Io metto qui un bello spazio bianco e che ognuno se lo riempia come vuole.
Buone feste, e festeggiamo se possiamo.
mercoledì 10 dicembre 2008
Ma che saranno mai 'ste emozioni?
Sono della vecchia scuola, mi piace usare la testa e non la pancia quando affronto qualsiasi situazione. Se ci riesco, ovviamente, cosa che non succede sempre. Sul pc ho appiccicato una vignetta di Altan dove il solito tipo con il naso a proboscide dice: emozionatemi, sennò mi tocca di pensare. Negli anni c'è quasi sempre stata una vignetta di Altan sul mio pc, è un genio con la capacità di fotografare il peggio in una frase, e mi trovo sempre in assoluta consonanza con lui. Adesso navighiamo in questo brodo spesso, e sostanzialmente primordiale, di emozioni. E non quando baciamo il moroso o troviamo i ladri in casa, no, basta mangiare un cioccolatino o una pasta e fagioli. Adesso, anche entrare in un museo. Tutto deve comunicare emozioni, niente deve richiedere la vecchia trafila guardare, interrogarsi, pensare, capire. Per carità, troppo difficile, noioso. Richiede sforzo. Non sia mai che sudiamo e il cervello ci puzzi. Ma a parte queste amenità, io diffido delle emozioni perché sono ricattatorie, ottundono i sensi, offuscano la lucidità, sono già padrone di per sé di metà della nostra esistenza senza che gli affidiamo anche l'altra. Quella che faticosamente cerchiamo di governare con la razionalità. Piangere e ridere va bene, abbracciarsi come in un telefilm americano un po' meno, però ogni tanto fermarsi e riflettere un pochino a mente fredda prima di scegliere a me sembra indispensabile.
L'altro manierismo attuale è quello della narrazione. Tutto deve raccontare una storia. Dai profumi agli apriscatole. Però è più che altro aria fritta, un modo di dire, una posa modaiola che perdono magnanimente a quelli molto, molto più avanti di me.
E visto che di fissazioni personali si tratta, voglio registrare un caso di demenza linguistica letto sulla Repubblica del 10/12, pagina 10, in un articolo di Francesco Bei. Si parla di un pranzo al Quirinale con mezzo governo per discutere del prossimo consiglio europeo: erano attovagliati nella sala del Torrino i ministri.... Non ho la minima stima per i membri di questo governo, ma mi dispiace pensarli attovagliati. Nessun essere umano, per quanto spregevole, dovrebbe subire questa sorte.
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Evelyn Waugh, Ritorno a Brideshead
Bel romanzone tradizionale, di quelli che acchiappano e tengono un sacco di compagnia, pubblicato nel 1945. La storia, in breve: Charles, ufficiale dell'esercito inglese, durante la II guerra mondiale si trova in una residenza nobiliare requisita per le truppe e riconosce la meravigliosa Brideshead, cui tanta parte della sua vita è legata. Ricorda l'amicizia con Sebastian Flyte, figlio dei proprietari, l'amore con sua sorella Julia, le vicende che li hanno portati a condividere gioie e dolori. Un mondo scomparso di goliardia a Oxford, ricevimenti a Londra, nursery e servitori fedeli, adulteri e vacanze a Venezia, cacce a cavallo, padri formali e anaffettivi, traversate dell'Atlantico in navi di lusso, mal di mare e passione. Ma il tema principale, quello che sottende tutta la vicenda, è il cattolicesimo. I Flyte sono cattolici per parte di madre e quindi allevati in questa confessione che, vista con gli occhi di Charles, protestante per tradizione, razionalista, agnostico ma non troppo, è un coacervo di superstizione, paganesimo, ipocrisia, ingerenza dei preti, controllo sulle vite individuali e soprattutto senso di colpa paralizzante e castrante. Ora, io sono serenamente atea e potrei sottoscrivere praticamente tutto quello che dice Evelyn Waugh, ma essendo italiana e essendo sempre vissuta in questo paese di senza dio che vanno in chiesa, si fanno il segno della croce poi fanno tutto quello che gli pare, sono rimasta molto colpita da questa visione che dà un'importanza così grande alla religione personale. Certo, siamo in Inghilterra e si parla di prima della II guerra, ma è davvero interessante e sorprendente un romanzo la cui morale, o messaggio per dirla meglio, si riassume così: neanche una sana e consapevole libidine salva i giovani dall'educazione cattolica. Waugh come Zucchero, e allora è proprio vero.
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