Non conoscevo la casa editrice Calabuig ed è una grave colpa, perché ha già un anno (appena compiuto) e un catalogo dei più appetitosi che si possano immaginare; inoltre il nostro primo incontro mi ha incuriosita al punto da indurmi a comprare un libro cartaceo, cosa che ormai mi capita molto raramente. Be', ne valeva davvero la pena. Hotel Madrepatria di Yusuf Atılgan, per la prima volta in italiano nella bella traduzione di Rosita D’Amora e Şemsa Gezgin, è uno di quei libri che lasciano il segno, avvolgendo il lettore in una storia e un'atmosfera che non permettono più di abbandonarli, anche se non c'è quasi azione a movimentare la vicenda.
Siamo in una cittadina senza nome in Turchia (ma è Manisa, la città natale dell'autore, riconoscibilissima da molte indicazioni - prima di tutte la memoria continua del grande incendio che l'ha distrutta quasi completamente, per mano dei greci in ritirata alla fine della guerra greco turca del 1919-1923), negli anni Sessanta del secolo scorso. Protagonista unico, dal cui punto di vista seguiamo i fatti in un flusso di coscienza continuo e aggrovigliato, è Zebercet, trentenne scapolo che gestisce un albergo vicino alla stazione ferroviaria. L'Hotel Madrepatria non è grande, una decina di camere su tre piani in un antico konak, un palazzo ottomano scampato all'incendio, di proprietà di una famiglia che ha lasciato Manisa per Istanbul cui Zebercet è legato da complessi legami di sangue. Zebercet è un solitario, metodico e quasi recluso dietro al bancone della reception da dove controlla arrivi e partenze dei clienti. Ogni tanto usa sessualmente la donna di servizio che si occupa delle stanze e della cucina, ma lei quasi non se ne accorge, continua a dormire senza mostrare piacere né disgusto. In questa routine ovattata e priva d'aria qualcosa si spezza improvvisamente, quando una cliente senza nome né carta d'identità, "la donna arrivata con il treno in ritardo proveniente da Ankara", trascorre un'unica notte in una stanza che da quel momento diventa una specie di tempio del ricordo e dell'attesa, in cui Zebercet si rifugia a annusare le tracce lasciate da lei. Da quel momento in poi è un crescendo via via più febbrile e aggrovigliato di pensieri che si avvoltolano tornando sempre all'ambiguità dei ricordi di un passato complesso e impossibile da ricostruire, mentre lui aspetta che la porta si apra e la donna ritorni.
Il flusso di coscienza di Zebercet è inaffidabile, lo capiamo da particolari all'inizio trascurabili, come quello di baffi: neppure lui è sicuro se li ha oppure no, non bastano lo specchio, il barbiere o lo sguardo altrui a garantire la realtà. I suoi occhi chiusi guardano all'interno di sé. Ma questo non impedisce a Yusuf Atılgan di costruire attorno a Zebercet un mondo concretissimo e sfaccettato, di rappresentare la vita di una cittadina turca minore e sonnolenta ma formicolante di personaggi indimenticabili, visti attraverso gli occhi opachi di Zebercet o filtrati dai suoi ricordi, dalla torpida e sventurata donna di servizio all'ufficiale in pensione, dal ragazzo incontrato al combattimento di galli al barbiere, dalle prostitute che emergono dalla foschia del passato ai compagni di naia e amici d'infanzia, l'uomo incontrato al cimitero trasformato in parco e i confusi antenati dai comportamenti mitologici, la famiglia padronale cui Zebercet forse appartiene per vie oscure, gli avventori delle modeste trattorie che frequenta, gli osti, i clienti dell'albergo...
Veniamo così attirati in una spirale irresistibile come un incantesimo, in cui si desidera solo accovacciarsi su un divano nell'aria viziata della hall dell'Hotel Madrepatria, a fantasticare su chi sarà il prossimo a spingere la porta con la lunetta di vetri smerigliati, lasciando passare il tempo in silenzio, seguendo le circonvoluzioni del cervello ondivago del gestore, arrovellandosi e attorcigliandosi sul passato e sul quel poco di realtà che filtra dalle finestre opache e tra il fumo di sigaretta. E quando la tragedia, incomprensibile ma non inaspettata, si intrufola nello scricchiolante konak non possiamo che continuare a seguire Zebercet tra bettole fumose e i caffè dove si tengono i combattimenti di galli, o su e giù per le scale dell'albergo. Alla seconda tragedia lo accompagniamo senza stupore, sapendo che è inevitabile.
Sia nelle Notizie su Yusuf Atılgan poste in fondo al volume che spigolando in rete, ho trovato il nome di questo autore accostato a quello di William Faulkner. Ora, io Faulkner non l'ho mai frequentato quindi non posso dire assolutamente nulla sulla questione, non so se l'accostamento significa subordinazione, imitazione. Posso dire solo che Hotel Madrepatria mi ha colpita al cuore e aspetto con fiducia (e gran curiosità) che Calabuig continui l'opera meritoria traducendo anche Aylak Adam (Il fannullone) di cui sono riuscita a individuare solo le versioni francese e spagnola oltre a quella turca.
E se volete scoprire quali altri guai possono combinare gli uomini soli, andate a vedere il bel film Rams - Storia di due fratelli e otto pecore dell'islandese Grímur Hákonarson. Qui gli uomini soli sono due, fratelli appunto, Gummi, più integrato nella minima società locale e Kiddi, ubriacone e scorbutico, che pur vivendo fianco a fianco in due isolatissime fattorie nel nord dell'Islanda, non si parlano da quarant'anni. Quando Gummi scopre che il montone di Kiddi, anche se ha vinto il concorso per la migliore bestia dell'anno, ha una malattia tremenda, la scrapie, non gli par vero di potersi vendicare del successo del fratello. Ma la tragedia si scatena contro tutti, e tutte le pecore della valle devono essere abbattute. Per i due il colpo è tremendo, e ciascuno reagisce cercando una strategia per sopravvivere diversa e opposta, tutta esteriore quella di Kiddi e tutta nascosta, quasi seppellita, quella di Gummi. Quando non sarà più possibile continuare così, anche i rapporti tra di loro saranno ribaltati e in un crescendo finale di quasi intollerabile potenza emotiva, torneranno a una vicinanza infantile, primigenia. La parte finale di questo film è una delle cose più belle e più forti che io abbia mai visto al cinema. Certo, Rams è un film che non dirà niente a chi non è disposto per una volta a rinunciare a facce note, a kiss kiss bang bang, a effetti speciali e ambientazioni lussuose. Qui troverete la solitudine e il silenzio dell'Islanda, ma anche due personaggi che sarà difficile dimenticare. E che mi hanno fatto ricordare, naturalmente, il meraviglioso Bjartur di Gente indipendente di Halldor Laxness.
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