martedì 26 novembre 2024

Per festeggiare i due secoli del Museo Egizio di Torino: Gatta, Topina e Buon Anno

di una ragazza che è una mummia: un racconto egiziano

 

GATTA, TOPINA E BUON ANNO


Torino, dicembre 2001

Stracchi come gelati in giugno, Massimo, Gigi e Fede trascinavano gli zaini sulle spalle ingobbite. Rassegnati. La testa tutta presa da quello che sarebbe successo dopo, al momento dolce della libertà, finita la visita didattica al Museo Egizio. La quinta nella loro carriera scolastica.
“McDonald’s a un isolato. Ce li avete i soldi, ragazzi?”
“Trentamila in saccoccia, in biglietti da mille, regali di parenti vari. Con la storia dell'euro sto tirando su un sacco di moneta. Tutti mi sbolognano gli spiccioli, sono diventati generosi all’improvviso”.
“Io arrivo a cento liscio liscio. Mia mamma si è pentita di fare la cresta sulla spesa e mi ha infilato in tasca un rotolino di diecimila. Credo che abbia una crisi di onestà natalizia”.
“Meglio, io tra regali e pizze sono sceso a quota cinquemila. Conto su di voi”.
Fecero la fila ordinata per mollare zaini e piumini al guardaroba, ricevettero il biglietto dalle mani della professoressa, crearono un vortice di schiamazzi attorno all’usciere punzonatore, nella sala d’ingresso si incollarono alla teca della prima mummia, nuda biotta e rannicchiata sulla sabbia come un neonato in culla.
Naturalmente tutti a commentare gli attributi mummificati. Delle professoresse una ridacchiava, l’altra faceva finta di non capire. Il professore di ginnastica si era già imboscato dietro a un mostruoso faraone di granito rosso a fare cip e ciop con la supplente di diritto. Massimo provò svogliatamente a baccagliare una squinzietta di seconda con i capelli zozzi e il pancino all’aria malgrado il gelo, ma lei continuava a stridere con le amiche senza manco rispondergli. Dopo poco nelle gallerie popolate da testoni e gamboni e piedoni, sfingi e massi incomprensibili di pietra c’era un casino totale. Tre classi per un totale di settanta ragazzi tra i quindici e i sedici anni, controllate da quattro professori di cui due fuori uso, erano troppo persino per la faccia di cane di Anubi. I custodi, occupatissimi a leggere il giornale, fingevano di non vedere e non sentire.
Salirono al piano di sopra. Più interessante, a dire il vero. Sarcofagi e papiri e mummie bendate e sbendate, gioielli che facevano squittire le professoresse, pagnotte tarlate e datteri impietriti che strappavano cori di che schifo! alle ragazze. Nessuno spiegava niente e comunque nessuno sarebbe stato a sentire. Bisogna dire che a un certo punto la Vallino di italiano si mise davanti a un chilometro di papiro e intonò “il libro dei morti, ragazzi, l’unico completo in tutto il mondo” ma quando si voltò si accorse di essere sola e scappò via in cerca dei gabinetti.
“Venite a vedere,” disse Fede. “Guardate qua”.
Gigi e Massimo si avvicinarono. In una teca tre sarcofagi di legno pitturato, aperti, contenevano tre mummie di cui una aveva la faccia scoperta.
“Sono tre sorelle, Gatta, Topina e Buon Anno. Morte giovani e imbalsamate. Quella lì sembra carina. Dev’essere Topina. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
“Di noia, non c’eravamo noi a farle divertire”.
Massimo rise forte, contentissimo della battuta. Gigi stava schiacciato contro il vetro, tanto che la supplente di diritto venne a battergli sulla spalla. Quando si staccò rimase il segno del naso e delle mani unte. Girellarono ancora annoiati, si infilarono in una stanzina piena di letti parrucche stoffe marroncine impilate sgabelli e scatole da trucco, fecero corsette lungo corridoi pieni di gatti e coccodrilli impagliati, fecero pipì e fumarono uno spinello nei cessi. 

All’una studenti e professori si ritrovarono nell’androne, davanti alla biglietteria. Quello di ginnastica, rosso in faccia e con lo sguardo sognante, fece la conta. La prima volta gliene mancavano cinque, la seconda ce n’era uno di troppo. Ci provò la Vallino. Due di meno. Alla supplente di diritto il miracolo riuscì. Settanta tutti interi, a ogni nome dell’elenco un bel presente! sonoro e una spuntatura. 
“Liberi tutti,” gridò Educazione Fisica.
Prese la supplente sottobraccio e corse via, forse aveva paura che l’erezione non gli reggesse ancora per molto. Italiano e Chimica fecero ciao con la manina, raccomandarono “domani puntuali che ne parliamo”, i ragazzi si precipitarono in massa al McDonald’s, tranne le tre islamiche di terza G e Fiorenzo di seconda H che era macrobiotico.

Il marocchino fornito da Gigi doveva essere una bomba, perché i tre ripresero coscienza in un letto di mocci vileda circondato da secchi di plastica azzurra dalle sfumature psichedeliche. 
“Ragazzi, che viaggio”. 
“Ho una fame che mi mangerei sette Big Mac e due quattro stagioni rinforzate”. 
“Forza, ormai è libera uscita”.
I tre Swatch segnavano mezzogiorno.
“Ahimè, ci manca un’ora”.
“Andiamo a farci vedere dalla Vallino che non sono ancora stato interrogato”.
I gabinetti erano in fondo al corridoio degli animali. Se lo ricordavano benissimo, un lato tutto bacheche di bestie bendate l’altro intervallato da finestroni e cartelli con piantine del Nilo, freccette e cerchiolini che certamente indicavano robe importanti. Ma adesso c’era qualcosa di strano. Il corridoio si stendeva lunghissimo, vuoto, un po’ sghembo, illuminato solo da una fila di neon al soffitto che si riflettevano sul pavimento di piastrelle bianche e nere. Neanche una finestra né una porta nelle interminabili pareti grigiastre. Non si riusciva a vedere dove finiva. 
“Abbiamo sbagliato uscita,” disse Massimo.
Si volse per aprire la porta da cui erano appena sbucati. Ma la porta (che c’era, testimoni tutti e tre) si era ridotta a una fessura sottilissima, senza maniglia né serratura. Mentre la tastavano cercando di forzarla con le unghie la fessura sparì, risucchiata dal muro liscio.
“Che cosa ci hai dato da fumare? Sicuro che fosse proprio semplice marocchino?”
Gigi sporse il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.
“L’ho comprato dal mio amico Ahmed che non mi ha mai tirato bidoni”.
“Be’, dai, andiamo. Se si accorgono che siamo spariti rischiamo che fanno un casino”. 
Si incamminarono. Fede calpestava solo le piastrelle bianche, Gigi quelle nere, saltellando come gamberi ubriachi. Massimo scelse un’andatura sobria, un rigoroso zigzag da una parete all’altra, una volta sul nero, l’altra sul bianco, ma dovette smettere presto perché gli altri lo avevano lasciato indietro. Man mano che procedevano la luce si faceva più fioca. Qualche tubo ronzava, si spegneva e si riaccendeva pallidamente. Da un certo punto in poi c’era solo oscurità.
“Torniamo indietro?”
Ma alle loro spalle i neon si spegnevano a uno a uno. Rimasero al buio. Gigi tirò fuori l’accendino. Prima di scottarsi le dita illuminò per poco lo spazio circostante. Le pareti sembravano più vicine, il soffitto più basso, come se l’effetto ottico della prospettiva non fosse affatto un effetto ottico, ma una concreta realtà. 
“Andiamo avanti?”
Proseguirono tenendo una mano sul muro, Gigi a destra, Massimo a sinistra, Fede aggrappato ai loro maglioni. Presto si ritrovarono a inciamparsi l’uno nell’altro. Il corridoio si restringeva sempre di più. Avevano l’impressione di camminare da ore, ma la fiamma dell’accendino rivelò che gli Swatch segnavano sempre mezzogiorno. 
“Che storia, ragazzi! Quando la racconteremo!”
La voce di Fede voleva essere allegra, ma risuonò come il lamento di un bambino piccolo, come quando chiamava la mamma perché aveva paura di restare solo nel suo lettino. 
Camminarono ancora. In silenzio perché c’erano echi in agguato, soffi e sussurri che rispondevano alle loro parole. Erano stanchi ma a fermarsi non ci pensava nessuno.
Venne il momento in cui furono costretti a proseguire in fila indiana, strusciando con le spalle le pareti, con il capo chino per non sbattere nel soffitto. Finirono per mettersi carponi, Gigi davanti, Massimo in mezzo e Fede per ultimo, terrorizzato dalla massa di buio che lo premeva da dietro, con l’impressione, ogni momento, di essere afferrato alle spalle. Mancava il fiato, c’era un odore freddo e soffocante, aria stantia e polvere arida.

Di colpo Gigi si fermò. 
“Guardate! C’è una luce là in fondo!”
Aumentarono l’andatura. Le ginocchia dolevano, le mani pure, ma presto poterono rialzarsi e poi raddrizzare la schiena. Si vedeva un debole chiarore, una cornice di luce come di una porta chiusa su un luogo illuminato. Avvicinandosi cominciarono a sentire anche un rumore soffice, risatine e voci sommesse, tintinnio di vetri e fruscio di stoffe. Un alito di aria fresca carezzò i loro volti. Respirarono a bocca aperta, ridendo, dandosi pacche di sollievo.
La porta era chiusa, senza maniglia. Bussarono e gridarono finché qualcuno la spinse dall’interno. La luce li colpì senza abbagliarli. Videro una grande stanza rischiarata da decine di torce a fiamma viva. Le pareti non si scorgevano, grumi di buio circondavano l’isola di luce in cui scintillava una tavola apparecchiata di piatti pieni di selvaggina, frutta, pesci, piramidi di pane, tra orci e coppe e fiori di loto. Ombre vestite di bianco si muovevano tutt’attorno, ondeggiando timidamente e sussurrando tra di loro.
“Forte!” disse Fede. “Dove siamo capitati? C’era una festa e non lo sapevamo?”
Gigi gli strinse un braccio, accennando a un gruppo vicino alla tavola. Tre ragazze, brune, snellissime ma con il petto tondo, appena coperte da tunichette pieghettate, li guardavano piene di sorrisi, agitando le mani per chiamarli.
“Miiii… Queste vogliono proprio noi”.
“Topina,” gli scoppiò nella testa.
“Buon Anno,” risuonò nel cervello di Massimo.
“Gatta,” un caldo fruscio che saliva dal cuore, penetrava nelle vene, rimbalzava dalla gola alla punta delle dita frastornò Fede.
“Mannaggia, ragazzi, è una cuccagna. Si mangia?”
Si mangiava, si beveva una birra dolce e spessa, si ricevevano baci delicatissimi nella bocca, si toccavano piccoli seni duri, cosce ferme, natiche sode da atlete. Come per miracolo le altre ombre erano sparite nell’ombra, c’erano solo le tre piccole sporcaccione ansiose di liberarsi dei veli per mettere in mostra i sessi neri e stretti, umidi, i capezzoli come prugnette acerbe, le gambe slanciate. Per un po’ i ragazzi esitarono tra la fame che li spingeva a divorare petti d’anatra e la voglia di stringere quei frutti d’amore, poi cedettero alle dita carezzevoli e alle labbra sottili. 
“Si scopa! Ognuno per sé!”
Nessuna delle sudate e ansiose esperienze fatte fino a allora li aveva preparati a quello che successe sulle stuoie distese nei provvidenziali angoli della sala senza confini. Erano angoli ma anche spazi infiniti, dove la luce dolce delle torce permetteva giusto di vedere quello che era bello vedere, i dentini bianchi tra le labbra socchiuse, la morbida voragine che li inghiottiva e li stringeva e li risputava e li avvolgeva in un su e giù smemorato, le tettine elastiche che non rifiutavano né morsi né baci, le lingue pronte a dare sollievo quando, stanchi per essere venuti troppe volte, rischiavano di addormentarsi sbavando sul collo delle loro freschissime compagne. E c’era sempre una manciata di chicchi di melograno, un bicchiere di vino, un’ala di folaga a ristorarli. Profumi delicati e intossicanti. Altro che il solito spinello! Questo era uno sballo vero, un’esperienza totale. 
Si sentivano vulcani in eruzione, trasformati in una palla di fuoco paradisiaco proprio lì, in mezzo alle gambe. A poco a poco tutte le altre parti del corpo sparirono ingoiate dalla marea di piacere. Sputavano ossa e noccioli insieme alla saliva zuccherata, scuotevano la testa per liberarsi dalle linguette che gli titillavano le orecchie, annaspavano come stessero annegando. Si scopava e si riscopava, più niente da dire, tacevano le grida e le battute. Zitto, zitto, risuonava nella testa dei ragazzi ogni volta che parole sceme cercavano di uscirgli dalla bocca.

Il primo a cedere fu Gigi.
“Basta! Non ce la faccio più. Riposiamoci un attimo, ti prego”.
Topina si tirò indietro i capelli intrecciati. Aveva uno sguardo scontento.
“Tutto qui? Sei malato?”
“Figurati, gioco a baseball e corro tutti i giorni. Sono stanco”.
Fede, nel suo angolo umido di umori corporei, lanciò un grido.
“Se non smetto muoio! Gigi, Massimo, siete ancora vivi?”
Gatta lo guardò gelida.
“Io sono mezzo morto,” sibilò Massimo. “Ce ne andiamo, ragazzi?” 
Buon Anno gli si sedette addosso premendogli il sesso sullo sterno. 
“Straccio sporco. Mi aspettavo di meglio”.  
La luce rossastra delle torce s’intorbidava di aria scura, ondate di buio si espandevano come olio versato. Quello che era sembrato bello fino a un momento prima divenne minaccioso. I denti scintillanti erano zanne, le manine carezzevoli artigli rasposi, gli acini d’uva soffocavano in gola, gli aromi si corruppero in puzze orribili. La pelle liscia delle ragazze si sfaldava, lasciava tracce di bava violacea sul ventre e sulle cosce degli amanti.
“Credete che sia bello starsene sotto vetro a farsi guardare da qualsiasi cretino che paga il biglietto? Credete che ci piacciano le battute oscene? I commenti idioti?”
“Noi, noi… Non sapevamo, non volevamo…” 
“Maiali. Vi credete dei torelli, ma siete solo maialini da latte”. 
Gli infilarono in bocca bucce marce, li innaffiarono di acqua putrida, gli strofinarono sul naso i seni spalmati di unguenti urticanti e i sessi viscidi d’amore. Buon Anno saltava a piedi uniti sui testicoli di Fede, Topina graffiò il petto di Massimo fino a farlo sanguinare. Gatta, vezzosa, danzò una danza lasciva su Gigi e infine gli orinò in faccia. I tre, incapaci di reagire, si sentivano legati da mille bende e rigidi in tutto il corpo. Mummificati.

Nella galleria del primo piano, buia e tranquilla, la teca sporca di ditate unte dove Gatta, Topina e Buon Anno riposavano nei loro sarcofagi era una tra le tante. Un visitatore molto attento, o un guardiano che avesse avuto voglia di sollevare lo sguardo dal giornale, forse si sarebbe accorto che la faccia di Topina, l’unica sbendata, era un po’ diversa dal solito. Più fresca, in un certo senso, con i capelli più corti, magari appena sbalordita. Ma in giro non c’era nessuno. Il giorno dopo, quando furono spalancate le tende e frotte di ragazzini e turisti svogliati cominciarono a peregrinare tra scarabei e statue, la differenza non si vedeva più. Mummie, datteri e papiri erano esattamente come ognuno se li aspettava. 
“Guarda queste,” disse uno studente secchione, munito di quaderno e penna per prendere appunti, a una compagna innamorata di lui, “che roba. Tre sorelle mummificate. Chissà perché sono morte tutte e tre?”

E nel gelo di dicembre tre ragazzette snelle, brune e allegre, se ne andavano per le vie della città. Portavano pantaloni troppo larghi e troppo lunghi, giubbotti enormi, scarponi esagerati. Insomma elegantissime nel loro genere hip hop. I loro occhi di datteri canditi luccicavano per la gioia, riflettendo le luci degli alberi di Natale che ornavano i negozi. Fecero un girotondo con un Babbo Natale spelacchiato, arraffarono manciate di caramelle e scapparono via ridendo. Nella galleria del Romano ammirarono i manifesti del cinema. Schiacciarono il naso contro una vetrina di biancheria intima, fecero girare la testa a un signore in loden che telefonava affannoso vorticandogli intorno e agitando le linguette appuntite. Sotto i portici di Piazza Castello si fermarono a guardare la folla di ragazzi ammassati davanti al McDonald’s.
“Ehi,” disse Gatta frugandosi nelle tasche del giubbotto, “qui c’è un sacco di soldi. Big Mac, Doppio Cheeseburger, MacChicken per tutte! E dopo ce ne resta per andare a vedere Harry Potter”.
Si infilarono nella puzza di patatine fritte e nelle bollicine di cocacola. Lo schiamazzo adolescente le inghiottì. Fuori, su Palazzo Madama, su Palazzo Carignano, sui monumenti di bronzo e di marmo, sul Museo Egizio, cominciò a nevicare. Presto tutto fu bianco e silenzioso, lo scenario perfetto per un Natale di pace e serenità. 

Nota dell'autrice.
Mi scuso con Gatta, Topina e Buon Anno per averle usate in questo racconto. Sono tre bravissime ragazze, tre mummie esemplari, sempre tranquille e composte nella loro teca al Museo Egizio di Torino. Mai si sognerebbero di andare in giro a combinare guai. Di quello che si racconta qui mi prendo tutta la responsabilità. 
P.S. Come si evince dal testo, questo racconto è ambientato nel 2001, prima dell'euro. E prima anche del nuovo allestimento del Museo Egizio in cui le tre sorelline hanno perso i loro nomi italiani, e si chiamano Tama (Gatta), Tapeni (Topina) e Neferrenepet (Buon Anno).   

domenica 24 novembre 2024

La bambina delle masche di Antonio Graziosi: masche e montanari, un esempio di convivenza riuscita

 Antonio Graziosi | Global Labor Organization (GLO) 

Ho incontrato questo libro ai Portici di carta fortuitamente, attirata dal titolo (ho un debole per le masche!) e ho conosciuto l'autore. Incontro molto fortunato perché "La bambina delle masche - Cinquecento anni nella grande valle" si è rivelata una lettura gradevolissima e molto intrigante. Ambientato nel villaggio montano di Vaures, all'entrata di una grande valle circondata da alte cime, alterna una descrizione precisa e suggestiva dei luoghi a spunti storici che si dipanano lungo cinquecento anni, seguendo da vicino le vicende della famiglia Richelmy, dal capostipite Genesio, fino ai giorni nostri con Vittoria, che rappresenta il punto d'arrivo dei destini della famiglia. Il tutto attraverso le vicissitudini militari, e politiche che malgrado l'isolamento della valle, strategicamente disposta tra Liguria, Piemonte e Francia, (la minaccia costituita prima dai Saraceni poi dagli altri invasori, ultimi dei quali i tedeschi) sconvolgono la vita dei contadini e dei pastori. 

Ora, detto così sembra una trama scontata e serissima, ma quello che proprio mi ha incantata è la geniale maestria con cui l'autore intreccia vicende storiche, umane e magiche, rendendo molto pressante il piacere di continuare la lettura. Sì, perché nella parte alta della valle vive una numerosa comunità di masche (in piemontese, streghe o figure fatate) che non disdegnano di intervenire nelle vicende umane, anzi, nei casi particolarmente gravi, come la bambina nata da un rapporto incestuoso tra fratelli, se ne fanno spesso carico, di modo che l'interazione tra le due comunità è vivace e fruttuosa. E quando ai giorni nostri i paesini della valle, come in tutte le montagne intorno, si spopolano, la vecchia casa dei Richelmy continua a costituire un polo di attrazione che permette il ricongiungimento e la fusione tra le due comunità, quella umana e quella magica.

 Ora questa non è una vera recensione ma solo un consiglio di lettura molto convinto, e non riassumo le vicende individuali dei vari personaggi, peraltro molto ben delineati, lasciando al  lettore il piacere di scoprirle. Non è difficile farsi sedurre dal "realismo magico" di Antonio Graziosi, mai eccessivo ma profondo e oltremodo attraente, e dalla sua prosa chiara e elegante. Il fascino delle valli, poi, da solo giustifica l'abbandono al mistero e alla magia.

E nel caso vi interessasse, su Amazon trovate il mio "Il gioco della masca".










martedì 19 novembre 2024

Un libro un po' diverso dal solito, che vale veramente la pena leggere: Luisa Ramasso, La ragazza che non parlava

 


In questo periodo sono pigrissima per cui continuo con le segnalazioni brevi, e comincio da un romanzo autobiografico molto particolare, molto interessante e pieno di umanità.

Luisa Ramasso racconta la sua vita con grande consapevolezza e semplicità, senza mai cadere nel vittimismo o nell'eccesso di psicologismo. Parla di sé, perché di questo si tratta, ma sempre con gli occhi ben spalancati sul mondo. Nata nel 1960 in una famiglia attiva e compatta, con una sorella maggiore che la segue da vicino e la sostiene, Luisa soffre fin piccola di alcuni sintomi molto debilitanti - mutismo volontario, stereotipie motorie, crisi di angoscia e di pianto, che ora fanno pensare subito all'autismo, ma allora non erano ancora così ben note né riconoscibili come oggi. Solo quando raggiunse i sedici anni Luisa ricevette una diagnosi precisa che le permise poi di fare scelte mirate. 

 Ragazzina notevolmente intelligente e con gli occhi ben aperti sulla realtà in cui si muoveva, la giovane Luisa era molto attenta alle amicizie, aveva idee chiare (anche se pronte a cambiare, come succede a qualsiasi adolescente) su quello che le interessava e quello che avrebbe voluto fare nella vita, al tipo di studi eccetera. I vari momenti della sua esistenza, che nell'infanzia e nella prima giovinezza è semplice, si svolge tra scuola, famiglia, Torino e Rubiana ma poi si allarga negli interessi e nelle attività, sono narrati in modo chiaro, leggero e senza giudizi, prendendo atto dei fatti con quella che pare una serena accettazione. Naturalmente fu seguita da medici e psicologi, e a sedici anni fu riconosciuto il suo autismo. I genitori premurosi e protettivi le offrivano tutta l'attenzione possibile, e la sorella Silvia le era sempre vicina con grandissimo affetto. Crescendo anche i suoi rapporti e le sue attività si ampliarono e si moltiplicarono come per qualunque persona, comprendendo il lavoro (dapprima nella tipografia del padre, poi nella casa editrice Neos fondata dalla sorella), la scoperta della musica e della scrittura, la politica, gli amori, gli incontri, e ci furono anche momenti difficili. Nell'età adulta, il volontariato, la frequentazione di gruppi religiosi e figure carismatiche, la morte dei genitori, i viaggi e i nuovi amici si susseguono fino a oggi.  

Tutta la narrazione riesce a essere accattivante anche se non c'è una trama vera e propria, la voce di Luisa Ramasso narra la sua vita come una serie di episodi, con tono calmo e molta sincerità. Il testo è diviso in brevi capitoli, ognuno con un titolo che ne annuncia e riassume il significato. L'insieme comunica alcune sensazioni nettissime: sincerità coscientemente perseguita, padronanza della scrittura, una voce narrativa robusta e interessante.

Ecco, questa direi che è la caratteristica principale di "La ragazza che non parlava", quello per cui ne consiglio vivamente la lettura: è un testo insolito, fuori dai soliti schemi narrativi, e molto stimolante, sia per la tematica coinvolgente che per la grande perizia con cui è stato concepito e scritto. Certo non è adatto a chi spera di trovare in ogni libro un nuovo Montalbano o un amore travolgente, ma chi legge per scoprire qualcosa che gli apra orizzonti sconosciuti ne sarà molto soddisfatto.   

    

venerdì 8 novembre 2024

I quaranta giorni del Mussa Dagh: qui si parla di guerra, eroismo, sterminio, deportazione, morte, ma anche di amore, figli, speranza.

 



Una lettura molto impegnativa ma di grandissimo interesse. Le 912 pagine di questo romanzo storico, uscito nel 1935, mi hanno acchiappata e trascinata malgrado non sia un'appassionata di storia. Certo, per apprezzarlo è meglio andarsi a leggere qualcosa sul periodo (e sulla geografia di quell'angolo di Mediterraneo tra Turchia e Siria in cui si svolgono le vicende). Per un caso involontario, il periodo è più o meno lo stesso di "High Albania", il resoconto di viaggio di Edith Durham che tanto mi è piaciuto (1908 "High Albania", 1915 questo), ovverossia gli anni in cui il movimento dei Giovani Turchi e la situazione internazionale portarono alla dissoluzione dell'impero ottomano (1922).  

L'argomento è decisamente tragico: in seguito alla presa di potere dei Giovani Turchi, movimento nazionalista e laico, nel 1914 e 1915 ci furono deportazioni e stermini ai danni degli armeni che risiedevano in Turchia, in quello che è definito "genocidio armeno". Gli Armeni risiedevano per lo più nella parte orientale dell'Anatolia (ma mi raccomando, non accontentatevi di queste risicatissime e imprecise notiziole, l'argomento è molto complicato) e qui le persecuzioni coinvolsero tutta la popolazione, L'ordine del governo centrale era di abbandonare tutti i beni mobili e immobili, e dirigersi verso il deserto mesopotamico, dove i deportati morirono di stenti e malattie o furono massacrati. La comunità armena, di religione cristiana, era parecchio ricca, v'erano mercanti e imprenditori, e i residenti turchi potevano appropriarsi di tutto quello che si erano lasciati alle spalle. 

E qui comincia la vicenda del romanzo che rispecchia une pisodio reale: gli abitanti di sei villaggi alla base della montagna del Mussa Dagh, sul golfo di Alessandretta, decisero di ribellarsi all’ordine di prepararsi per la deportazione. Sotto il comando e l'organizzazione di un giovane borghese, nativo del posto ma educato e riesedente a Parigi, sposato con una francese, si rifugiarono sulle pendici del monte dal 21 luglio al 12 settembre 1915, con i viveri che erano riusciti a raccogliere e le armi. L’esercito ottomano tentò più volte di sconfiggere la resistenza della popolazione asserragliatasi sul monte, senza successo. La capacità di organizzazione e le energie impiegate nell'impresa furo eccezionali, ma alla fine i resistenti avrebbero dovuto subire la stessa sorte dei compatrioti, se non fossero riusciti a sfruttare la posizione in vista del mare per attirare l’attenzione delle navi francesi di passaggio nel golfo; in questo modo, dopo una breve trattativa, tutta la popolazione venne imbarcata e portata in un campo profughi a Port Said, in Egitto, 

Questa è la parte storica, ma il fascino del romanzo sta nell'incredibile capacità di Franz Werfel di far muovere una folla di personaggi che vanno dai mendicanti che vivono attorno ai cimiteri ai massimi gradi della politica turca, dal protagonista Gabriel Bagradian alla moglie europea che si trova improvvisamente immersa in una tragedia di cui non può comprendere il senso né la portata, i borghesi acculturati e i contadini analfabeti, i militari, tutti travolti dalla tragedia, divisi nel modo di pensare e di vivere ma accomunati da questo folle progetto di opporsi alla strapotenza ottomana (ormai in gravissima crisi peraltro, e molto prossima alla fine). Nei quaranta giorni della permanenza sul Mussa Dagh innumerevoli sono i drammi che si svolgono e ci vengono narrati, alcuni strettamente personali, ma tutti attorcigliati e esasperati dalla situazione estrema. I personaggi sono indimenticabili, accuratamente creati e descritti, molto credibili. Il romanzo è veramente molto lungo, e forse alcune parti in cui vengono riprodotti i discorsi relativi alle strategie da porre in atto e alle diverse posizioni politiche in discussione richiedono un'attenzione particolare, ma il risultato è magnifico e appassionante, non si può abbandonare. Un romanzo che consiglio sinceramente a tutti i veri lettori, vi aprirà un mondo poco conosciuto e rappresentato in maniera perfetta.  

     

domenica 8 settembre 2024

Una lettura perfetta: Edith Durham, High Albania


Sono in giro, tra tempo risicato e collegamenti internet precari non riesco a scrivere una vera e propria recensione ma devo assolutamente fare una segnalazione del libro che ho letto con passione e interesse crescenti in queste ultime settimane. Tra l'altro, mi piacerebbe che chi legge potesse condividere la vista che ho dal balcone da cui scrivo: a Samotracia, campagna sterminata, ulivi, fichi, gelsi, pioppi, cipressi e ginepri, albizie iulibrissin, acacie, in lontananza querce e la mole imponente del monte Fengari, quello che fa ombra al Santuario dei Grandi Dei e ai loro cupi misteri, persino un paio di palmette (immigrate naturalmente), un numero imprecisato di gatti scheletrici sempre in movimento, la chiesetta bianca del cimitero su una collina, e l'imperdibile audio che l'accompagna: un vastissimo silenzio interrotto da qualche tortora (per fortuna poche e lontane), moltissimi chicchirichì di galli, molti coccodè di galline, frequenti “malaka” dai giovani poliziotti che occupano due stanze nel cortile, ogni tanto chiacchiere a alta voce con fragorosi scoppi di risa, molto gradevoli, e soprattutto verso il tramonto almeno mezz’ora di belati e campanelle quando le pecore tornano dal pascolo e passano vicinissime, ma nascoste dalla vegetazione. 

In questo luogo così bello e pieno di sorprese (le nuvole se ne inventano una nuova in continuazione) ho letto “High Albania” di Edith Durham, scrittrice inglese (1864-1943) di cui non sapevo niente e non avevo letto niente. Ora, prima di andare avanti devo chiarire che non si tratta di un libro di narrativa ma del resoconto di un viaggio compiuto nel 1908, quando tra l’altro il movimento dei Giovani Turchi ottenne dal Sultano il ripristino della costituzione del 1876, dando inizio alla rivoluzione che abbattè l’impero ottomano. Ma “High Albania” non tratta questioni politiche né storiche, narra con grandissima partecipazione e velocità quello che l’autrice vide durante la sua esperienza di donna occidentale che viaggiava sola in territori davvero inusuali.

Ora è passata poco più di una decina di giorni e mi ritrovo a scrivere su un altro balcone, davanti a una foresta di pali della luce dietro i quali un mare azzurro e liscio, solcato da un traffico intenso di traghetti (silenziosissimi) soffre con me per il rumore continuo e insopportabile di auto, bus, camion e fragorosissime moto che ci separano scorrendo senza sosta. Svanita la poesia del silenzio interrotto solo dalle voci degli animali e delle nuvole sul Saos. Va be’, il balcone è comodo e il wi fi nel complesso tiene. Ma a parte queste notazioni personali, resta il fatto che penso che “High Albania” sia un libro da leggere assolutamente se siete curiosi del mondo e delle sue vicende meno conosciute, vicine a noi ma lontane anni luce dagli argomenti di moda. Edith Durham (Londra 1864-1943; cercate notizie su Wikipedia se avete fretta, c’è anche una foto, ma si reperisce molto altro in rete) intraprese questo viaggio nell’alta Albania, cioè nelle montagne che ora la separano da Montenegro, Kossovo e Macedonia del Nord, per il suo piacere, a spese sue, spostandosi a piedi e dov’era possibile a cavallo, accompagnata da una guida locale, arrampicandosi su montagne scoscese e guadando fiumi, usufruendo dell’accoglientissima ospitalità di preti e frati, di notabili o di privati cittadini, sempre pronti a dare ricetto ai viaggiatori secondo le proprie possibilità. Tutti accorrevano per vederla, toccarla, se riuscivano la coprivano di domande (Edith Durham parlava serbo e Marko, la sua guida, le faceva da interprete per le altre lingue locali), quando c’erano autorità di qualsiasi tipo facevano degli incontri in cui si scambiavano informazioni e stupori. È incredibile l’interesse che suscita la situazione di questi territori che ci appaiono più esotici dell’Africa (e ancora oggi non credo siano notissimi). Divisi in tribù, spaccati tra cattolicesimo, ortodossia e islam, facevano parte dell’impero ottomano che odiavano, ma ancora di più odiavano gli slavi, i Serbi, non conoscevano autorità né un governo centrale e ubbidivano solo al Kanun, la legge di Lëke Dukagjini. L’unico legame riconosciuto era quello familiare (nel libro non si parla mai di villaggi, ma solo di case), i rapporti tra uomini erano diretti dall’onore e dal “sangue”,  faide crudelissime e rigidissime che comportavano ammazzamenti senza pietà, le donne erano merci di scambio di proprietà strettamente maschile, venivano talvolta vendute anche prima di nascere, cedute o barattate a seconda delle esigenze familiari. 

In questo mondo incredibile Edith Durham ci fa fare una full immersion con estrema chiarezza e onestà, senza mai dare giudizi né dimostrare emozioni o cedimenti sentimentali, con occhi spalancati e attentissimi ai particolari, tenendosi ai margini come persona e tenendo sempre viva l’attenzione del lettore. Io mi ci sono appassionata malgrado l’abbia letto in condizioni non proprio semplici, e mi è dispiaciuto moltissimo quando l’ho finito. 

Se volete leggerlo in italiano, il titolo è “Nella terra del passato vivente”, Salento Books 2016, in versione cartacea. 

sabato 27 luglio 2024

Proverbi con la coda


 

Fa caldo e ho il cervello in ferie anticipate. Leggo poco e male, nessuna voglia di scrivere recensioni. Così mi diletto a scrivere cazzate. 

Raccogliere cestini

è un hobby da bambini

Raccogliere bicchieri

va bene per i camerieri.

* * * 

Raccogliere tempesta quando si semina vento

è pur sempre un aumento 

del capitale iniziale.

* * *

Rosso di sera bel tempo si spera,

tranne quando si è vicini 

a un bosco di pini.

* * *

Se un bel tacer non fu mai scritto, 

sarà per essere pubblicato 

che Salvini non sta mai zitto?

* * *

Non serve piangere sul latte versato, 

per terra è già bagnato

e se nei dintorni c'è un gatto 

si lecca i baffi soddisfatto. 

* * *

Se in amor vince chi fugge,

di certo un fuorilegge 

farà strage di cuor. 

* * *





domenica 16 giugno 2024

Non fatevi ingannare!!!

 

 

La ragazza in tailleur rosso fuoco si fermò di colpo. Parve riflettere un attimo poi mollò uno schiaffone sulla faccia del giovanotto in completo nero e camicia bianca. Sbam, da destra a sinistra, sbam, da sinistra a destra con il dorso della mano, sbam, sbam, sbam, cinque cattive sberle, senza sforzo perché erano alti uguali. Solo quando la sua mano si mosse per la sesta volta lui si decise a afferrarle il polso. Qualche passante allarmato già li circondava. Ma l’uomo si limitò a voltare le spalle e andarsene, incurante del sangue che gli colava sulla guancia ferita dall’anello di lei. La ragazza frugò nella piccolissima tracolla di vernice, estrasse un mazzo di chiavi e marciò via sui tacchi alti senza neanche lanciarsi un’occhiata attorno.

No, non fatevi ingannare dalla copertina molto rosa, dal cuore, dall’amore, dall’autrice femmina: non è un libro sentimentale né delicato, né dolce né ottimista né lieto. È un libro che racconta alcune delle possibili incarnazioni dell’amore, se vogliamo chiamarlo così. Che parla dell’infinita varietà delle vicende umane, con l’unica speranza di intrattenere chi lo legge, come un racconto davanti al caminetto acceso. Soprattutto non propone messaggi né analisi né denunce. Ma se vogliamo solo contarcela un po’, forse questo libro vi potrà piacere.