In occasione della morte del celeberrimo fotografo turco (di origine armena) Ara Güler, famoso come "l'occhio di Istanbul", pubblico una vecchissima recensione a un libro che ho più che amato a suo tempo (così come amo la città di cui parla), Istanbul di Orhan Pamuk (ed. orig. 2003, pubblicato da Einaudi nel 2006.
A parte il ritratto (di cui non sono riuscita a trovare l'autore) tutte le foto sono di Ara Güler. A Istanbul è stato recentemente aperto un museo in suo nome, che penso valga davvero la pena di visitare. Se andate a Istanbul non perdetelo (insieme al Museo dell'Innocenza) e se amate questa città, non perdete Istanbul di Orhan Pamuk.
Staccarsi
da questo libro è difficile come tornare da un viaggio di quelli che prendono i
sensi, il cuore e il cervello. La città cui Pamuk dedica il suo corposo canto
d’amore è un fantasma che può assumere le sembianze di qualsiasi città il
lettore porti nell’angolo della sua memoria dedicato alla nostalgia. E’
costruita con la solidissima materia dei sogni e del rimpianto, ritratta in centinaia
di fotografie e incisioni in bianco e nero, minuziosamente nominata nel
repertorio di quartieri e di vie, percorsa a piedi, in macchina e in battello,
auscultata e indagata nelle pieghe più fuorimano, eppure non è reale. Questa
Istanbul bellissima e malinconica è Orhan Pamuk, che generosamente ci permette
di condividere con lui il sentimento di una vita che si forma in un luogo
universale.
Le
parole chiave sono tristezza e felicità. Tristezza è sentirsi a metà del guado,
testimoni del fallimento del grande impero ottomano di cui si perde la memoria
come le sue rovine che si sgretolano per incuria, e incapaci di realizzare fino
in fondo l’occidentalizzazione sognata da Atatürk. Pamuk, che in Neve rappresenta con
agghiacciante efficacia le contraddizioni della Turchia contemporanea, in
questo libro tiene l’occhio costantemente rivolto al passato, intrecciando i
ricordi dell’infanzia (è nato a Istanbul nel 1952 e continua a viverci) e
dell’adolescenza con i giudizi dei viaggiatori occidentali, come Nerval e
Gauthier, le incisioni settecentesche del tedesco Melling,
l’autorappresentazione degli scrittori cittadini “tristi e solitari”, le
meravigliose fotografie di Ara Güler e quelle scattate dal padre. Da bambino
assiste alle liti dei genitori e alla progressiva decadenza della famiglia. Da
ragazzo percorre ossessivamente le solitarie stradine lastricate, “tristi e
buie”, dei sobborghi, dove ancora sopravvivevano povere case di legno man mano
sostituite dai palazzi di cemento. Corre a guardare gli incendi delle
magnifiche ville signorili in legno, scoloriti e misteriosi relitti del passato
imperiale, trascorre giornate a contare le navi sul Bosforo e ascoltarne i
malinconici fischi nella notte. Legge sui giornali le notizie degli
automobilisti che si inabissano nelle acque profonde dello stretto dopo avere
lanciato un’ultima occhiata al cielo. Beve e scherza con gli amici per tacitare
la tristezza. E la felicità? Quella sta nell’illusione, nel ricordo, nel sogno.
Nella pittura fino al momento in cui il giovane Orhan riesce a dire alla madre
(e sono le parole conclusive del libro): “Diventerò scrittore, io”.
Non
c’è colore locale, vagheggiamento, compiacimento, neppure indulgenza in questo
ritratto della giovinezza di un autore e della decrepitezza di una città. Non è
una guida, non si perde in notizie storiche e descrizioni di monumenti. C’è la
forza trasfigurante di una scrittura limpida e precisa, capace di evocare una
vita in una frase. C’è un elenco nel decimo capitolo, intitolato “Tristezza”,
che riassume in modo meraviglioso un mondo, tutto quello che appartiene alla
città e ne costituisce corpo e spirito. C’è la fiducia nella parola e nella
memoria perché il passato non si perda e diventi il terreno fertile da cui può
nascere un libro straordinario.
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