LA LAMETTA NEL MIELE
Ero sicuro che il garzone della panetteria fosse innamorato di lei.
Bastava vederlo quando fermava la bicicletta mettendo un piede a terra,
trafelato, una pioggerella di sudore sulla fronte tenuta sgombra dalla retina.
Aveva occhi a mandorla in un viso magro, zigomi alti e il naso a becco. Magari
sarebbe stato anche bello se avesse potuto permettere al ciuffo nero e lucido
di planare ondoso sulle sopracciglia. Così, povero ragazzo, era solo un po'
ridicolo, sempre bianco di farina, con quei polpacci sottosviluppati malgrado
il gran pedalare che faceva su e giù per il paese. Però aveva un buon odore.
Dalla cesta agganciata al manubrio venivano effluvi di pane appena sfornato,
mischiati al sudore e alla fragranza della camicia di bucato. Devo ammettere
che questo era un punto decisamente a suo favore.
Guarda caso, quando lei entrava in panetteria lui era sempre lì a
riempire la cesta. Invece di ripartire subito ciondolava, blamblinava, lanciava
battute alla signora Piolatto che a sua volta gli lanciava occhiate feroci.
- Tre chili di biove alla Trattoria della Corona Grossa, due alla
signora Fedele, cinque di banane all'olio all'asilo, svelto che è tardi.
Come se ci fosse bisogno di ripetere tutti i giorni il rosario delle
consegne, le conosceva benissimo. Mi faceva pena la sua ansia di farsi notare,
il gesto furtivo con cui si asciugava la fronte con il dorso della mano.
Lei, niente. Tutta composta nel tailleur beige, il manico della
borsetta al gomito, comprava otto biove e due pesche per le bambine. Contava i
soldi e li lasciava sul banco con una smorfia all'angolo della bocca, come se
le desse fastidio toccare i biglietti sporchi e cincischiati malgrado i guanti
di pelle marrone. La signora Piolatto porgeva le brioche alla marmellata alle
bambine che se le cacciavano in bocca immediatamente. A me parevano più culi
rosati che pesche.
Anch'io ero sempre in panetteria a quell'ora. Ogni volta le sorridevo,
senza risultato. Le bambine mi guardavano con quelle loro faccette sporche di
marmellata, curiose, gli occhi ancora un po' assonnati ma vigili. La madre
infilava il pane nella rete della spesa, acchiappava le figlie una per mano (la
borsetta di pelle nera le scivolava dal gomito al polso e restava a dondolare
sull'intrico di dita adulte e dita infantili) cedendomi il posto davanti al
bancone. Io mi infilavo nella nicchia d'aria ancora calda di lei, senza
muovermi finché non avevo aspirato tutto quello che immaginavo fosse il suo
odore.
- Tre paste dure, due biove e un panino all'olio.
Alla signora Piolatto non ero simpatico, chissà perché. Mi incartava
le pagnotte a muso duro, contava ogni volta i miei soldi con la speranza di
beccarmi in difetto. A lei, solo sorrisi.
- Arvëdse madamin, ciau bele cite.
Uscivamo tutti e cinque, due ragazzi due bambine e una signora, ognuno
con la fretta di correre da qualche parte e la certezza che ci saremmo
ritrovati la mattina dopo. Le bambine erano uguali, biondine, pallide, con i
capelli lisci divisi sulla sinistra e una molletta a trattenerli sulla destra,
occhi grigi, labbra a cuore, solo che la grande era bella e la piccola brutta.
Si chiamavano Stella e Fiorenza. La madre, Clara Berlaita. Il garzone Luigi
Scicchitano. Io, Filippo Paschetto.
Nel paese piccolo in cui abitavamo, alle porte di Torino, tutti
sapevano tutto di tutti. La mia storia avrebbe potuto commuovere i sassi. Se
vivevo solo con la mia anziana nonna, se compravo io il pane prima di andare al
Politecnico dove frequentavo il primo anno, se non ero sempre in ordine e ben
pettinato come avrei dovuto, c'erano motivi seri e conosciuti. Eppure la
signora Piolatto non si commuoveva affatto, mi guardava diffidente e un po'
schifata. Mah. Avrà avuto le sue ragioni. Forse non le piaceva il modo in
cui a mia volta guardavo madamin Berlaita.
Che aveva anche lei le labbra a cuore, coperte di un rossetto scuro e
opaco, gli stessi occhi grigi delle figlie, lo stesso naso corto, ma i capelli
ricci e neri. Permanente o ricci naturali? Non ero abbastanza esperto per
decidere da me. Mi sarebbe piaciuto discuterne con Luigi, o almeno chiedere
l'opinione della signora Piolatto. Inoltre di carnagione era assai colorita, le
sue guance erano belle rosse, mentre la pelle che si intravedeva nello scollo
della giacca era bianca come la panna, compatta e liscia. Anche i polsi, tra la
manica e il guanto, luccicavano di candore.
Portavo il pane alla nonna, che potesse inzuppare nel caffelatte quel
buon odore di biova appena uscita dal forno. Lei mi metteva una cotoletta o un
pezzo di frittata nel panino all'olio che doveva accompagnarmi nella giornata
di studio, due pere, una manciata di ciliegie in un sacchetto. Poi correvo alla
fermata del tram e via, fino a sera non tornavo nel paese cadente e triste dove
battevano i nostri cuori, il mio, quello di Luigi Scicchitano e quello di Clara
Berlaita.
La lametta nel miele la trovate qui
2 commenti:
...sono riuscito a sentire l'odore...
E' sempre bello rileggerti.
Pensa che sto rileggendo questo libro, dopo più di dieci anni, e mi stupisco di averlo scritto io. Mannaggia. E grazie delle parole e dell'attenzione!
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