Continuando
la marcia di avvicinamento all’Albania, ho letto Non c’è dolcezza di Anilda Ibrahimi, di cui mi era piaciuto molto
il fresco Rosso come una sposa e
molto, molto meno L’amore e gli stracci
del tempo. Neanche Non c’è dolcezza
mi ha convinta granché. C’è una storia anche troppo melodrammatica ma poco
chiara, in certi punti tirata via in scene troppo sintetiche e superficiali.
Forse una vicenda simile, che sbocca in tragedia per poi tornare sui propri
passi, avrebbe bisogno di un passo antico, un tono da romanzo ottocentesco, e
anche di una costruzione psicologica più solida. Così com’è non acchiappa, non
emoziona malgrado sia del genere che sulle emozioni fa continuamente leva, tra
maternità e allattamenti, segreti letteralmente sepolti e segreti svelati.
Anilda Ibrahimi scrive molto bene, è capace di raccontare benissimo un mondo a
metà tra arcaismi e modernità, ma sembra sempre sul limite, come se non volesse
essere troppo legata a quella Albania semplice e contadina cui le sue storie
riportano. Inoltre penso che non giovi la scelta della narrazione al
presente, che diluisce l’aspetto narrativo in una serie di scene staccate e
toglie peso e profondità all’aspetto accattivante dell’ambientazione lontana nel tempo e
nello spazio. In un villaggio in riva al mare che possiamo immaginare dalla
parti della sua natia Valona, due ragazze, Lila di famiglia benestante e Eleni
figlia di un pastore, stringono un’amicizia strettissima sulla base dell’amore
condiviso per Andrea, un ragazzo bellissimo che non le guarda neppure.
Crescendo la vita le divide, Lila sposa il fratello di Andrea e vive nella
capitale, Eleni rimane al villaggio aspettando chissà che. Quando il suo
destino si presenta, è molto più crudele di quello che potrebbe sembrare, e
ritorna a intrecciarsi indissolubilmente con quello di Lila. Protagonista è il
bambino Arlind, la cui nascita è un insormontabile ostacolo tra le due amiche. E
qui mi fermo perché il plot è articolato e rivelare gli snodi narrativi sarebbe
una cattiveria. Intanto intorno il mondo cambia, il regime comunista che ha
retto l’Albania dal 1946 al 1990 crolla portando con sé le vite di molti,
niente rimane uguale a come lo conoscevano i personaggi del romanzo, e questa è
la parte più affascinante su cui mi sarebbe piaciuto che Anilda Ibrahimi si
soffermasse di più. Però forse non può lasciarsi andare ai ricordi, alla
nostalgie dell’infanzia, per lo stigma obbligatorio che ogni regime comunista
ormai si porta con sé. Mi ha molto interessato il rapporto tra i contadini e i
gitani, di grande simpatia e affinità, anche una certa ammirazione da parte
degli abitanti del villaggio per i quali l’arrivo annuale dei gitani era una
grande festa. Questa armonia crolla dopo il 1990 come altre sicurezze, e i
gitani ne subiscono amarissime conseguenze.
Un
romanzo che mi ha lasciata un po’ insoddisfatta, ma che sicuramente piacerà a
chi cerca una narrazione moderatamente esotica, molto di pancia, molto di
donne, molto leggibile, di superficie, veloce, leggera malgrado la drammaticità delle vicende.
Magari sono io che non l’ho saputa apprezzare.
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