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giovedì 15 ottobre 2020

L'enigma del resort: chi ha fatto la pipì fuori dal vaso? Sema Kaygusuz, La risata del barbaro

Questo La risata del barbaro, romanzo della scrittrice turca Sema Kaygusuz, mi ha veramente messa in crisi. Non sono in grado di farne una vera presentazione, anche se ho letto un'intervista con l'autrice e un paio di recensioni che in sostanza condivido, ma non mi hanno chiarito le idee. 

E' un romanzo, diciamo così, corale, in cui un certo numero di personaggi agiscono e soprattutto parlano, discutono, succedono delle cose, ma sempre come se il lettore potesse avere accesso esclusivamente alla superficie, e oltre all'interfaccia non ci fosse niente. L'ambientazione, del tutto contemporanea, è quella che molti conoscono, un albergo a bungalows sul mare come ce ne sono dappertutto sulle coste turche. L'autrice non specifica dove si trova, e già questo è un po' spiazzante. Vi si incrociano vite molto differenti, dal personale con alla testa l'indaffarata direttrice Ferhan, i camerieri Selcuk e Alikar che filosofeggiano fumando marijuana, il giardiniere, agli ospiti tra cui spiccano coppie come quella, feroce e omosessuale, costituita da Ismail e Melih, Ufuk e Eda che vuole spiegare al suo compagno come funziona il piacere femminile, Turgay e Nihan, le famiglie come Ozak e Serpil e il loro inquietante figlioletto Ozan, la famiglia numerosa, la silenziosa e solitaria Simin, e molti altri. 

I fatti che turbano la quiete dei vacanzieri scatenando reazioni incontrollate sono due: primo, Turgay fa pipì in mare, secondo, cuscini, lenzuola e altra biancheria vengono sporcati di pipì. Tutti si indignano e alcuni si scandalizzano, molti se ne vanno, altri restano fino alla fine delle vacanze pur essendo sempre più sconvolti da quello che è successo. Intanto parlano, scrivono, riflettono, mangiano, ballano. Discutono di tutto, dell'essere turchi e della situazione in Turchia (ma sempre con prudenza, non bisogna dimenticare che l'autrice vive in patria), del cibo e del sesso, dell'amore e della storia. 

Romanzo molto ambizioso, si affida a una scrittura alta, ricercata, che si lancia volentieri nel lirico e nel poetico, scivola e pattina sulle parole come se volesse evitare l'eccesso di concretezza. Parla e parla, ma non dice quasi niente dei personaggi che possa motivarne i comportamenti. Io, ripeto, non ho trovato il senso. L'ho letto con un certo piacere, riconoscendovi particolari della Turchia che tanto amo, ma mi sfugge quello che ci sta sotto. Io sono abbastanza ottusa, ho bisogno che le cose siano dette chiaramente, e non sono riuscita a capire se si tratta di necessaria reticenza per non incappare nella censura, o se l'ambizione del progetto comprendeva anche un alto grado di ermetismo. C'è anche una certa satira di costume, ma poca ironia. Mi piacerebbe tantissimo che qualcuno che ha letto La risata del barbaro mi spiegasse che cosa c'è sotto quella lingua ricercata e sfuggente. Sema Kaygusuz è una scrittrice notevole e sono sicura che ne varrebbe la pena, ed è per questo che ne parlo qui. Traduzione di Giulia Ansaldo.

mercoledì 22 luglio 2020

Ragazze libere e audaci in Turchia: Perihan Mağden, Stella non scappare più

 Perihan Mağden è una scrittrice turca piuttosto nota in patria dove ha subito un processo politico per le sue opinioni di giornalista, e tradotta in molte lingue. In Italia è pubblicata da Scritturapura, casa editrice molto attenta agli autori stranieri e turchi in particolare, con la traduzione di Barbara La Rosa Salim. Su questo blog ho già parlato di Ali e Ramazan.

Stella non scappare più è un romanzo basato su un'idea fulminante: in una Turchia contemporanea che pare presa da tutto tranne che dalla politica e dalla religione, Sun, adolescente sbandata con una famiglia difficile alle spalle, nutre una passione totalizzante per Stella, cantante pop e idolo delle folle. Per un colpo di fortuna riesce a intrufolarsi nella sua lussuosa villa sul Mar Nero, e lì per qualche tempo vive nascosta dormendo nello sterminato guardaroba di Stella coprendosi con le sue pellicce, mangia quello che riesce a rubacchiare, beandosi della vista da lontano della sua Stella e bagnandosi nella sua piscina. Dopo un po' viene scoperta prima dalla servitù, una segretaria tuttofare, un cuoco gentile e comprensivo e molti altri che ruotano intorno a Stella e dipendono dalla sua benevolenza e dal suo umore. 

A un certo punto Stella si accorge della sua presenza, che non ha bisogno di spiegazioni perché può confondersi in mezzo alla folla di persone che approfitta della cantante e sfruttandone la fragilità. Stella è una creatura piena di debolezze e dipendenze, che vive fluttuando in un mondo privo di concretezza, al di sopra e al di fuori delle convenzioni sociali, libera e promiscua, abituata a avere tutto quello che vuole e spendere senza limiti. Si incuriosisce della ragazza, la attira nella sua orbita, la vizia cercando di renderla simile a sé fisicamente e anche psicologicamente. Il loro rapporto si fa sempre più stretto, vagamente morboso e forse con una connotazione sessuale che però non diviene mai esplicitata.   

La narrazione procede in modo un po' ripetitivo e privo di sorprese, tanto che a un certo punto viene il sospetto che l'autrice non riesca a sviluppare in modo del tutto soddisfacente l'idea iniziale, la cui potenza si sgonfia e si perde. Non svelo il finale per non fare spoiler, ma un sospetto di moralismo o almeno di perbenismo, o magari di ingenuità, lo rende forse un po' deludente. Però Stella non scappare più secondo me è un romanzo da leggere senz'altro, non fosse che per l'immagine assolutamente inedita e nuova della società turca che offre. Lo consiglio vivamente, purché si tenga presente che non è un capolavoro ma un ritratto lieve, molto leggibile e veloce, di una vicenda insolita e attuale. Mi piacerebbe sapere quanto c'è di realistico in questo ritratto di una Turchia frivola e ricca, dedita a tutti i vizi che il denaro può offrire.

domenica 3 maggio 2020

Letture in quarantena 5 - Vivere e basta: ma basta per vivere? Yusuf Atılgan, Lo sfaccendato

Dello scrittore turco Yusuf Atılgan ho amato senza riserve il bellissimo Hotel Madrepatria
pubblicato in patria nel 1973, di cui questo Lo sfaccendato del 1959 è un po', per certi versi, la prima stesura, nel senso che se la vicenda è molo diversa e i luoghi dell'azione anche, il protagonista C. ha molti punti di contatto con Zebercet, nella rinuncia a incidere sul mondo circostante e la scelta di osservarlo come dal di fuori.

Siamo a Istanbul, percorsa seguendone minuziosamente la topografia, con ogni mezzo a disposizione: taxi, tram, funicolare, e ovviamente a piedi. Sui passi del protagonista (che non ha nome, nei discorsi degli altri si chiama C.) entriamo negli studi dei pittori, nei ristorantini e nelle pasticcerie, nel suo appartamento, nei cinema dai palchi profondi dove si svolgono attività misteriose, nelle pensioni sulle spiagge del Bosforo, in mare, a letto. L'intero romanzo è uno svagato girovagare, una ricerca senza necessità di trovare, un perdersi per non ritrovarsi. C. è sfaccendato in quanto è ricco, non ha bisogno di lavorare, condizione di cui si vergogna ma che prende alla lettera. Gira per la città osservando con minuziosa attenzione le persone, il loro abbigliamento, le espressioni sul volto, l'interno dei ristoranti e i camerieri, si sposta, ma nessuna delle sue azioni ha un fine pratico. Perché in realtà C. è alla ricerca della donna, dell'amore. Seguiamo un paio di questi incontri, con Ayşe, che in realtà è un ritorno, e con Güler, che non è all'altezza delle aspettative di C., mentre sempre sfiorata e sempre perduta è B., forse l'unica che avrebbe potuto amare. Güler racconta la sua storia con C. nelle lettere all'amica B., Ayşe scrive un diario in cui registra pensieri e avvenimenti, e così veniamo a conoscenza dei loro sentimenti, delle paure, illusioni e delusioni. Di C. sappiamo tutto perché siamo dentro di lui dalla prima all'ultima pagina, ma in realtà non sappiamo niente fino alla fine, quando decide di raccontarsi con sincerità sorprendendo sia noi che la sua interlocutrice, e in fondo deludendo entrambi.

Un romanzo tutto narrato al passato prossimo, scandito secondo le stagioni, dove non succede molto al di là di questo ossessivo girovagare, ma profondamente ipnotico e avvolgente. Yusuf Atılgan ha una scrittura concreta fatta di piccoli particolari che si accumulano, talvolta carichi di un significato che scopriamo solo più tardi, altre volte testimoni solo di se stessi. Certo risente dell'atmosfera letteraria degli anni '50, forse c'è un po' di Freud, ma non è assolutamente "datato", anzi, la narrazione è senza tempo e affascina inchiodando alla lettura. C. è un personaggio che non chiede empatia al lettore, ma gli presta i suoi occhi per (ri)vedere una città meravigliosa e vitale come Istanbul, in un'epoca ormai lontana ma sorprendentemente contemporanea.

Le donne sono importanti per Lo sfaccendato, e oltre a comparire nei suoi occhi e nei suoi pensieri, parlano in prima persona. L'epoca in cui è stato scritto era ancora laica, il rinascimento islamico di Erdogan ben al di là da venire; e queste ragazze, che pur vivono in casa con i genitori e quindi sottostanno al loro controllo, sono notevolmente indipendenti, come sempre, pur essendo sorvegliate  e legate alla loro condizione, riescono in fondo a fare quello che vogliono finché non lo fanno troppo pubblicamente. Una è pittrice e l'altra è studentessa universitaria, entrambe sono parecchio libere nei movimenti, non si fanno problemi a sperimentare il sesso con C. e non sembrano avere grandi scrupoli morali o religiosi. Invece, subiscono il controllo sociale e ne pagano le conseguenze. L'abbigliamento era quello tradizionale, ora riadottato dalle nuove ortodosse, e tutte portavano il pardessus, come con termine francese viene indicato in Turchia il soprabito leggero (qui tradotto come impermeabile) indossato sulla gonna lunga o sui pantaloni. Di veli, naturalmente, non c'è neanche l'ombra.

Se conoscete Istanbul, se avete preso il Tünel, se sapete distinguere Tophane da Eminönü, sarà un piacere aggiunto aggirarvi di pagina in pagina nei luoghi percorsi da quell'anima in pena del protagonista. Se non ci siete mai stati, fatevi ispirare e quando sarà di nuovo possibile, andate a vedere di persona una delle città più belle del mondo. Se di Istanbul non vi importa niente, leggete Lo sfaccendato perché è un romanzo straordinario, assolutamente diverso dai romanzi turchi di maniera che tanto successo hanno da noi, fingete che il protagonista sia finlandese e funzionerà altrettanto bene. Lasciatevi prendere dalle spirali del suo contorto pensiero, e ne sarete ricompensati dalla bellezza della scrittura e dall'originalità del tema. 
Bella traduzione di Rosita D'Amora e Semsa Gezgin.   

mercoledì 27 febbraio 2019

Dalle carceri turche una raccolta di racconti piena di sensibilità e vita: Selahettin Demirtaş, Alba

Ho comprato il libro di Selahattin Demirtaş per sbaglio, lo confesso: nel senso che se avessi letto con attenzione il nome dell'autore invece di recepire solo "racconti, autore turco" l'avrei lasciato perdere perché non amo le opere di narrativa scritte da gente che fa un altro mestiere, nella fattispecie il politico, e a un certo momento si trova a avere del tempo e pensa sai che c'è? ho cinque minuti liberi, scrivo un giallo. In questo caso la mia frasetta è doppiamente ingiusta, perché prima di tutto Alba non è un giallo, e poi Selahettin Demirtaş purtroppo ha ben più di cinque minuti a disposizione, è in carcerazione preventiva sine die e da quello che ho capito anche senza accuse precise. 

In realtà le dodici prose raccolte in Alba non possono neppure essere definite racconti, almeno non tutte, ma sono molto leggibili, direi lievi, e quasi mai vi si scorge la durezza della situazione turca. Certo, immagino che avranno dovuto superare censure e correzioni (io non sono riuscita a trovare molte informazioni sull'attività letteraria di Demirtaş, per cui non ho la minima idea della sua perizia di scrittore), ma nel complesso prevale un tocco delicato nel dipingere ritratti o brevi episodi, storie soffuse di dolcezza e nostalgia, apologhi privi di sorprese. Non mancano denunce a forti tinte,  deluderanno forse chi si aspetta invettive politiche o analisi articolate della situazione, ma invece possono soddisfare chi cerca un po' di Turchia narrata con partecipato sconforto. Io che soffro di inestiguibile nostalgia per l'Anatolia li ho amati e li ho letti con piacere. Insomma, nel mio acquisto sventato sono stata più fortunata che saggia. 

Il maschio in noi è un lieve apologo in cui a una coppia di rondini è affidato il ruolo di vittime del potere - un'ironica fantasia che ci fa immaginare il contesto carcerario in cui è nata; Seher, nome femminile che significa "alba" e dà il titolo alla raccolta, è una storia terribile di tradimento, prevaricazione, malinteso senso dell'onore e rispetto delle tradizioni, di cui è vittima principale la protagonista, ma neppure i maschi ne escono vincitori. Anche Nazo, donna delle pulizie ha come protagonista una donna, una diciottenne che interpreta il mondo e classifica le persone in base alle automobili che posseggono o che potrebbero possedere. Travolta dalla violenza dello stato poliziesco e dall'ingiustizia sociale, paga per quello che non ha commesso ma in compenso impara a sapere chi è. Più complesso Non è come credete, variazione sull'impossibilità di amare mentre in Saluta occhi neri l'amore non riesce neppure a farsi riconoscere. Il detenuto di Lettera alla commissione per la lettura delle lettere dal carcere scrive racconti ma ha deciso di smettere, eppure ci regala un commovente ricordo di un compagno delle elementari a Diyarbakir. La sirena è un poetico e brevissimo tributo ai morti nel Mediterraneo, La pasta di Aleppo parla di bombe in Siria, d'amore che non muore, di morti e dell'antichissima tradizione culinaria di Aleppo, in Ah, Asuman!, forse il mio preferito, l'incontro tra un arguto autista di pullman e uno studente ingenuo si conclude con una divertente capriola narrativa. Solo come la storia parla di padri e figlie, dei misteri che ciascuno nasconde, delle sorprese e della malinconia delle tombe. La fine sarà splendida ha forse la funzione di concludere con una storia consolatoria, di successo e giustizia.          

La dedica è A tutte le donne uccise o vittime di violenza, ma non è vero che le figure femminili siano protagoniste di tutti i racconti come recita la terza di copertina. Per fortuna, c'è molto di più, c'è un tentativo di disegnare in punta di penna un po' della vita da cui l'autore è escluso nella sua prigionia. Alla fin fine sono contenta di avere comprato Alba anche perché penso che sia importante sostenere in qualche modo Selahettin Demirtaş, e leggere i suoi libri è l'unico modo in cui posso farlo. E mi sento di invitate tutti quelli che (come me) amano la Turchia e i suoi meravigliosi luoghi, a fare lo stesso. Suggestivi disegni in bianco e nero, opera della sorella più piccola dell'autore, Bahar Demirtaş, scandiscono i brani. I ringraziamenti, per una volta, appaiono davvero sentiti e necessari. L'ottima traduzione è di Nicola Verderame. 
  

martedì 5 febbraio 2019

Fuggire da ciò che si ama per non perderlo: Pinar Selek, La casa sul Bosforo

Pinar Selek prima che una scrittrice è un'attivista battagliera e appassionata, che ha pagato di persona il suo coraggio nel denunciare molti aspetti della vita politica turca, anche se La casa sul Bosforo non è la sua sola opera di narrativa. Si tratta di un romanzo corale che abbraccia una ventina d'anni, a partire dal colpo di stato del 1980 fino al 2001, alla vigilia della salita al governo di Recep Tayyip Erdoğan e si dipana tra Turchia, Francia, Armenia pur restando fortemente ancorato al quartiere istambuliota di Yedikule i cui abitanti sono protagonisti.

Si tratta di persone semplici, due giovani coppie, il farmacista, il falegname, il perditempo, la prostituta, tratteggiate velocemente, più dette che rappresentate, ma molto efficaci e di grande umanità. Sullo sfondo scorrono le grandi tragedie del passato, il genocidio armeno (su cui Pinar Selek ha scritto molto), il terribile pogrom del 1955 contro i greci, e del presente: la questione curda, la feroce repressione governativa, il terrorismo, il terremoto del 1999, ma in primo piano ci sono le vicende degli abitanti di Yedikule.

C'è l'affetto e c'è l'amore, ma anche i sogni delle due ragazze, Elif e Sema, mai disposte a restare in secondo piano o mettere le esigenze affettive prima della propria autorealizzazione. C'è un po' di autobiografia nella figura di Elif le cui vicende ricalcano in parte quelle di Pinar Selek. C'è soprattutto la solidarietà, la straordinaria capacità di sostenersi a vicenda del quartiere che è una vera e propria comunità di fronte al mostruoso sviluppo metropolitano di Istanbul. C'è un po' di nostalgia per i tempi passati e per un mondo sparito, c'è il fascino dei nomi evocativi di Istanbul (confesso che io sono molto sensibile a quest'aspetto), ma su tutto prevale l'attenzione e la consapevolezza del mondo tutt'intorno e dei suoi problemi. C'è la necessità di partire, talvolta di fuggire, dalla propria casa e dalla propria vita. Non sono certo dei provinciali legati al passato gli abitanti di Yedikule: ma aggiungo che le storie raccontate da Pinar Selek non ne sono affatto appesantite, vi si parla anche di musica, di danza, di teatro itinerante, delle mille maniere in cui la vita riesce a manifestarsi anche nelle circostanze più difficili.

Mi ha molto stupito, dal momento che l'autrice è così impegnata politicamente e socialmente, la sua straordinaria capacità di narrare vicende individuali e marginali con grande leggerezza, velocità e empatia, che rende gradevolissima la lettura di questo romanzo, vivamente consigliato sia per la sua validità narrativa che per l'interesse aggiunto della cornice storico-politica in cui si svolge. Piacerà sia a chi ama Istanbul e la Turchia che a chi non vi è mai stato. Traduzione a cura di Ada Tosatti e Camilla Diez.

venerdì 31 agosto 2018

Un romanzo epico e romantico tra i banditi del Tauro: Yashar Kemal, Memed il falco

Avete immaginazione, vi piacciono i romanzi dove scoprire paesi, abitudini, storia e storie lontane dalla vostra? In poche parole, leggete per sognare e scoprire e non solo per identificarvi? Allora anche a voi piacerà il romanzo di Yashar Kemal, Memed il falco, uscito in Turchia nel 1955 e pubblicato in Italia nel 2001 da Tranchida con la traduzione di Antonella Passaro. A me è piaciuto tantissimo, mi ha fatto passare ore bellissime sulle montagne del Tauro con i banditi in fuga perenne, il fiato corto, le mani e i piedi sanguinanti per la durezza delle rocce su cui si arrampicano, la fame e la paura, l'orgoglio e la ferocia che gli dilaniano il cuore.

La vicenda è ambientata nella Turchia ormai repubblicana, Ankara è lontana ed è meglio non disturbarla con gli affari del posto, l'epoca precisa non è detta ma possiamo immaginare che non sia lontana da quella di pubblicazione. Malgrado tutto ciò che è cambiato, nelle campagne ai piedi dei monti vige ancora una specie di feudalesimo in cui gli Agha, signorotti autoproclamati, derubano i contadini di terre, animali e raccolti, spadroneggiano grazie alla corruzione di polizia e autorità, e per mantenere il proprio potere si appoggiano alle bande che vivono sulle montagne depredando i viandanti, e taglieggiando e o proteggendo, a seconda della propria inclinazione, gli abitanti dei villaggi. Ataturk, il padre dei turchi, non è mai nominato, e l'Islam rimane sullo sfondo, scontato ma evanescente. Ma nella visione fortemente epica e romantica di Yashar Kemal il bandito è anche il puro, l'innocente che si ribella, e mosso da un senso di giustizia superiore abbandona la società per ricreare un mondo migliore sulle vette e nei boschi del Tauro.

Tale è il protagonista Memed lo smilzo (ogni personaggio ha un suo soprannome che lo definisce e lo umanizza), orfano di padre e presto anche di madre, costretto fin dall'infanzia a lavorare nei campi infestati dai cardi che lo feriscono e lo fanno sanguinare, per dare al prepotente Abdi Agha la maggior parte del raccolto e patire la fame. Il suo sogno è fuggire dalla presa, e dalle botte, di Abdi Agha, ma quando all'età di dodici anni mette in atto il suo proposito, le conseguenze saranno solo ancora più botte e ancora più fame. Crescendo Memed giunge a uno scontro diretto con il suo nemico, c'è di mezzo una ragazza, Hatché, e un morto. Memed fugge in montagna, prima unendosi a un bandito rozzo e violento (da coloro che deruba si fa consegnare persino le mutande, costringendoli così a tornare nudi al villaggio, e guadagnandosi l'odio di tutti) poi formando una sua piccola ma sempre più temuta banda.

La vicenda è appassionante e si fa sempre più complessa via via che Memed incontra svariati personaggi, dai suoi compagni ai vari signorotti ai capi nomadi o turcomanni, ai contadini che lo aiutano; i personaggi femminili sono ovviamente meno numerosi e meno in vista di quelli maschili, ma hanno una loro potenza e una volontà fortissima. Più che Hatché, due volte vittima di conflitti in cui si trova coinvolta a causa del suo uomo, altri emergono anche se in ruoli minori: la vedova Isaz pronta a diventare madre di tutti, lei che è stata derubata dell'unico figlio, o Hürü ostinata nella sua ricerca di vendetta e giustizia, mentre tra gli uomini abbondano le figure indimenticabili, da Jabbar a Osman il grosso, i banditi e i capi villaggio, i poliziotti crudeli e quelli misericordiosi, Ali lo zoppo infallibile cercatore di piste, e molti altri. Memed emerge tra tutti perché ciò che lo anima non è solo il desiderio di vendetta, ma un fortissimo senso di giustizia sociale, un'etica contro corrente ma salda e sincera, il che gli conquista l'ammirazione e l'affetto dei contadini e il suo nuovo soprannome: il falco. 

Importantissimo è anche il ruolo della natura, aspra e difficile ma fonte di salvezza nelle montagne, dolce e generosa nelle pianure sempre vagheggiate come la fertile Chukurova. La vendetta si avvicina o si allontana a seconda delle traversie, la tragedia incombe e il destino è crudele. Ma è consolante, giungendo alla fine, pensare che Memed il falco è il primo volume di una quadrilogia, anche se credo che solo i primi due siano stati tradotti in italiano. Vale la pena di leggere la biografia di Yashar Kemal, e io sicuramente continuerò a leggere le sue opere. In ebook si trova tutto in inglese, e alcune cose anche in italiano. In questo blog ho parlato del mio primo (un po' problematico) incontro con l'autore, nelle pagine di Guarda l'Eufrate rosso di sangue.          

martedì 13 febbraio 2018

La difficoltà di essere donne in Turchia: Adalet Ağaoğlu, Coricarsi e morire


Con la pubblicazione di Coricarsi e morire di Adalet Ağaoğlu (traduzione di Fulvio Bertuccelli), L'Asino d'Oro ha affrontato un'iniziativa editoriale veramente coraggiosa. Pubblicato in Turchia nel 1973, primo volume di una trilogia che ricostruisce la storia del paese dalla fine degli anni '30 agli anni '70 del secolo scorso, è un intenso romanzo dalla struttura complessa in cui si alterna un presente in cui la protagonista Aysel attende la morte in una camera al sedicesimo piano di un albergo di Ankara, non si sa perché né come, mentre sospetta di essere incinta, con vari momenti del passato come la morte di Atatürk, la seconda guerra mondiale, le ondivaghe siampatie per la Germania o per il resto d'Europa, soprattutto la Francia, il primo dopoguerra, significativi sia per il paese che per le vite individuali di un gruppo di personaggi che si raccontano in prima persona, attraverso lettere, diari e riflessioni.

L'inizio è folgorante: la faticosissima organizzazione di una recita in una scuola elementare di paese, con cui il maestro Dündar vuole celebrare l'avvento della nuova Turchia secondo le indicazioni del Grande Padre. Dündar è una patetica e bellissima figura di insegnante di campagna idealisticamente seguace della rivoluzione, convinto assertore dell'importanza dell'istruzione, della modernizzazione, tanto da intervenire attivamente quando può per convincere i genitori riottosi a fare studiare i loro figli. E figlie, ovviamente: perché l'emancipazione e l'occidentalizzazione delle donne sono fondamentali nel programma kemalista. Ma per studiare bisogna spostarsi, lasciare l'anonima cittadina di campagna per andare a Ankara, che è il polo politico e rappresentativo della nuova società. Questi bambini sono il nucleo del romanzo, di cui seguiamo le vicende, gli sporadici incontri, i nodi relazionali, le scelte, i successi e gli insuccessi, che procedono di pari passo con notizie prese dai quotidiani che ci permettono di seguire le complesse vicende nazionali e internazionali di quegli anni complicati. Anche se non prese parte al conflitto mondiale, la Turchia ebbe un ruolo non indifferente e l'eco degli avvenimenti mondiali arriva fin nelle campagne, mentre la vita nella capitale ne è influenzata. Molti sono i personaggi di contorno, alcuni anche storici, e acutamente descritto il percorso dall'idealismo rivoluzionario alla realtà dei conflitti di potere, della corruzione, dell'ipocrisia del mondo politico che portarono al colpo di stato del 1960.  

L'unica ragazza che continua a studiare è Aysel, ambiziosa e determinata, con una famiglia che non la sostiene particolarmente perché in fondo tutti si aspettano che prima o poi rientrerà nei ranghi e si sposerà abbandonando le fantasie di emancipazione. Atatürk voleva le donne libere e occidentalizzate, ma la fatica di esserlo senza dare adito a scandalo né pettegolezzi in una società poco adatta a accoglierle è tremenda. Aysel ha un fratello che entra nei Lupi Grigi, gruppo di simpatie naziste e conservatrici, e le fa da custode manesco e severissimo (quando ha tempo). Il confronto con l'Occidente è continuo, per Aysel soprattutto con la Francia di cui studia la lingua e segue scrittori e movimenti culturali. A un certo punto ottiene una borsa di studio per un anno a Parigi, ma non se ne parla e alla fine rimaniamo con molte curiosità insoddisfatte, tanto che le parti in cui seguiamo le riflessioni del suo personaggio nella camera d'albergo risultano le meno interessanti perché non si riesce a comprenderne appieno le motivazioni.  

Si tratta di un romanzo appassionante ma molto difficile da seguire perché richiede una certa conoscenza della storia della Turchia del '900. Ci sono lodevoli anche se sparse note del traduttore, ma ci vorrebbe ben altro per aiutare il lettore di questo libro interessantissimo in potenza, oggi in particolar modo, ma praticamente ostico e scoraggiante. Non si capisce perché L'Asino d'Oro, avendo compiuto questa notevolissima impresa, non abbia investito ancora un po' in qualche pagina di prefazione o di postfazione, perché è vero che c'è internet e Wikipedia ma lo sforzo necessario per contestualizzare le vicende è grande. Anche due parole sull'autrice e gli altri due volumi della trilogia avrebbero aiutato, anche solo per spiegare i punti in sospeso. E come sempre ho provato un'enorme ammirazione per il traduttore Fulvio Bertuccelli che ha affrontato questo titanico impegno, ma il risultato finale in certi punti è davvero insoddisfacente, come se il testo non fosse stato rivisto, tanto che risulta difficile capire il senso.   
Per cui il mio consiglio di lettura è: astenersi curiosi e perdigiorno, ma se (come me) amate la Turchia, la conoscete un po' e ne avete seguito le vicende, allora Coricarsi e morire è un libro fondamentale. Con la speranza che gli altri due seguano presto.               
  

mercoledì 17 gennaio 2018

C'è stato un tempo in cui la rivoluzione era bella e possibile: Murat Uyurkulak, TOL - Storia di una vendetta

Sono stata molto incerta se recensire questo libro o infilarlo sullo scaffale dedicato alla Turchia senza più occuparmene. Il fatto è che mi vergogno di quello che devo ammettere. Ho un dubbio: si può amare un libro, esserne presi e ammirarlo, senza averne capito niente?  Ecco, questa è l'ammissione che devo fare: di TOL - Storia di una vendetta non ho capito praticamente niente. Perciò qui potere trovare una recensione bella chiara e razionale, infinitamente più interessante delle poche note confuse che riuscitò a mettere giù io.
Murat Uyurkulak, di cui potete leggere qui una bellissima intervista, ha scritto TOL, uscito in prima edizione nel 2002, a trent'anni. E vi si sente tutta la passionalità giovanile, l'ansia di dire tutto, la fiducia nella parola, nel suo potere creativo e definitivo, nella sua libertà.

Ecco, l'impressione di libertà di questo romanzo è totale: prescinde dalle necessità della narrazione, non si preoccupa del lettore, sperimenta e si abbandona a ogni sorta di tono espressivo, passa dal lirismo al vaneggiamento senza preavviso. Certo in Turchia gli argomenti cui Murat Uyurkulak fa riferimento sono molto più comprensibili, comunque è ammirevole pensare a un'editoria e un pubblico così pronti a rispondere a un romanzo oggettivamente difficile (è stato un grande successo in patria, 50.000 copie vendute), che di questi tempi di generi imperanti, di noir thriller e romance, non credo da noi avrebbe altrettanta fortuna.

La vicenda è un viaggio in treno da Istanbul a Diyarbakır in cui due personaggi, Yusuf e Poeta, dialogano e ricordano e leggono e soprattutto bevono, bevono senza mai fermarsi. Siamo all'indomani del colpo di stato militare del 1980, le istanze rivoluzionarie del decennio precedente sono state spazzate via e la repressione è tremenda. Yusuf è il narratore, e parlando della sua infanzia esordisce dicendo La rivoluzione a quel tempo era possibile, bella e possibile. Ma dopo il golpe militare per i rivoluzionari scampati alla morte e alla prigione rimane solo la disperazione. Ecco, questo romanzo è pieno di disperazione, di lacrime e grida e follia, e anche di illusioni che non riescono a morire del tutto. 

I personaggi che compaiono nello sviluppo del dialogo tra Yusuf e Poeta sono moltissimi, a cominciare dal padre di Yusuf (che all'inizio di sé dice Ero un Yusuf privo anche di padre), l'ambiguo fratello maggiore, gli amici e i compagni di lotta, le donne, e ne veniamo a conoscenza attraverso le parole dei due protagonisti ma anche nelle pagine scritte che i due si scambiano, e questo rende veramente difficile seguire le evoluzioni di ognuno, anche i nomi cambiano ogni tanto, e l'io narrante cambia in continuo. Nel delirio alcolico la rivoluzione è al centro dei desideri ma il risultato è rovina e autodistruzione. La speranza sta nei curdi, che non hanno abbandonato la lotta e sulle montagne si organizzano per continuare a combattere. Ma la generazione che nella rivoluzione ha sperato è stata spazzata via o è stata cambiata, si è trasformata tanto da diventare irriconoscibile. Non mi addentro nell'argomento, ma è ovvio che può essere allargato a molte altre realtà fuori dalla Turchia.  

Però vale la pena di affrontare la difficoltà di seguire il complesso groviglio perché la scrittura è fantastica, sembra una parete coperta di edera che cresce e si attorciglia attorno agli spigoli della facciata di una casa, copre tutto e tutto trasforma in una lussureggiante foresta di parole. Ho provato un'ammirazione sconfinata per il traduttore Luis Miguel Selvelli che ha affrontato il compito immane di rendere in italiano questa giungla creativa, cavandosela egregiamente (e gli perdono le incertezze che in quasi 300 pagine sono poche, e competono più a un lavoro di editing che al suo). Penso che l'editore Passigli avrebbe potuto essere un po' più generoso con il paratesto, le note alla fine sono lodevoli ma una prefazione, o postfazione, di chiarimento del momento storico ci sarebbe stata benissimo. 

Mi piacerebbe che molti leggessero questo difficile, affascinante e insolito libro, e ne scrivessero. Io posso solo dire: sono felice di avere resistito alla fatica e al senso di inadeguatezza (ho persino riletto le prime 60 pagine per scrupolo), ne valeva la pena.      

mercoledì 18 ottobre 2017

Il vero amore supera anche le delusioni: Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi

Confesso che mai avrei pensato di poter scrivere quello che sto scrivendo, ma La donna dai capelli rossi (traduzione di Barbara La Rosa Salim) del mio amatissimo Orhan Pamuk non mi è piaciuto per niente. E dirò di più, non mi è interessato per niente, ma questo può dipendere da un mio limite, il fatto che il tema centrale mi ha lasciata freddina. La storia è presto detta, evitando lo spoiler sul finale che comunque qualsiasi lettore appena sveglio (nel senso letterale di non addormentato durante la lettura) si può immaginare senza difficoltà: il protagonista Cem, adolescente borghese che parla in prima persona, abbandonato dal padre militante marxista, per potersi mantenere agli studi passa un'estate come aiutante di uno scavapozzi, Mahmut Usta, in una località di campagna, Öngarën.

Tra i due si stabilisce uno stretto rapporto, e si raccontano a vicenda storie ossessivamente legate al tema padre - figlio, dichiarato fin dalla prima pagina. Cem racconta l'Edipo di Sofocle, Mahmut Usta il Rostam e Sohrab di Firdusi stabilendo l'inizio di una contrapposizione che è il tema di tutto il libro. La sera i due hanno l'abitudine di recarsi al villaggio a prendere un tè. Qui Cem vede una donna per strada e zac! se ne innamora perdutamente. Avrebbe anche un nome, ma Pamuk decide di chiamarla per tutto il libro la Donna dai Capelli Rossi, il che non aiuta a rendere più credibile e coinvolgente la storia. Il destino fa i suoi giochi, e molti anni dopo Cem, diventato un imprenditore edile di successo, torna a Öngarën,


dove tutto è cambiato, Istanbul si è tanto allargata che la campagna è diventata periferia residenziale, ma comunque i nodi si sciolgono e nell'ultima parte è la Donna dai Capelli Rossi a parlare in prima persona, fornendo la sua chiave di interpretazione dei fatti. I temi di fondo, molto insistiti e ribaditi in dialoghi piuttosto innaturali, esprimono tutti un contrasto o un confronto: padre - figlio, ubbidienza - libertà, oriente - occidente, laicismo europeizzato - fede in dio, modernità - ubbidienza.

In realtà il romanzo è pieno dei temi tipici di Pamuk che riaffiorano qua e là: i lavori scomparsi, l'allargarsi irrefrenabile di Istanbul (La stranezza che ho nella mente), le antiche miniature persiane (Il mio nome è Rosso), la contrapposizione oriente-occidente (Il castello bianco), i movimenti politici e i colpi di stato (La casa del silenzio), la donna vagheggiata, elusiva, misteriosa e in fondo  inconsistente (Il museo dell'innocenza), con una variante perché qui la donna parla, il sottosuolo, fa una comparsa stile "cameo" per iniziati persino l'occhio in cielo che tutto segue (Il libro nero), non manca qualche cenno al cinema turco della Yeşilçam (Il museo dell'innocenza) ma per qualche ragione mancano di seduzione.

Ma mancano anche i motivi fondamentali per cui Orhan Pamuk è diventato uno degli autori che amo e ammiro di più: l'ineffabile e meravigliosa sensazione di nostalgia che pervadeva gli altri romanzi, anche quelli per me incomprensibili (l'inverno silenzioso di Kars (Neve), il capitolo decimo di Istanbul, le strade struggenti dell'Anatolia in La nuova vita, gli squarci meravigliosi come la descrizione del Bosforo prosciugato in Il libro nero), e soprattutto manca la bellissima scrittura, le frasi così necessarie e perfette da far venire voglia di accucciarvisi dentro. In parte dipende certo dalla traduzione piuttosto piatta (ovvio che non mi riferisco alla sicuramente ottima conoscenza del turco della traduttrice, ma all'italiano in cui si esprime), ma anche il testo iniziale non è eccezionale, pieno di ripetizioni come se l'autore avesse paura che il lettore non capisca bene, frettoloso in certe parti e sbrodolato in altre (per esempio tutta la prima parte a Öngarën è francamente noiosa).

Certo non rinnego il mio amore per Orhan Pamuk, né mai mi pentirò di tutto quello che ho fatto al suo inseguimento. Mi limito a dire che se il nostro incontro fosse cominciato con questo libro non ne avrei letti altri, ma so per certo che avrei fatto malissimo: come tutti i veri amori il nostro è fatto di alti e bassi, di momenti di incomprensione e riavvicinamenti, e adesso aspetto con fiducia e piacere anticipato il prossimo regalo di riappacificazione da parte del mio amato. A uno che ha scritto Neve Istanbul, Il museo dell'innocenza e Il mio nome è Rosso posso perdonare qualsiasi cosa. 

lunedì 5 giugno 2017

Perihan Mağden, Stella non andare via

Un libro veramente sorprendente, Ali e Ramazan della scrittrice turca Perihan Mağden. Per molti motivi: è una struggente storia d'amore omosessuale tra giovanissimi, preadolescenti; parla di pedofilia, sfruttamento sessuale di bambini, corruzione nelle istituzioni, prostituzione maschile, dando colpi mortali all'immagine rocciosa del maschio turco; parla di violenza della polizia, vizi e perversioni nella gioventù ricca, alcol, senzatetto, solitudine e disperazione; eppure riesce a essere intriso di tenerezza, amore incondizionato e amicizia pur nel degrado. Inoltre è stato pubblicato in Turchia nel 2010, e ha avuto notevole successo.

La storia è quella di due bambini che si conoscono in orfantrofio a Istanbul, e da quel momento saranno inseparabili. Varie e profonde sono le ferite ricevute nella loro pur brevissima esistenza, il che ne cementa l'amicizia che si riconosce prestissimo in un amore esclusivo e appassionato. Le loro vicende costituiscono il tessuto del libro, che si dipana tutto per le strade, i parchi e le piazze di Istanbul, con una breve parentesi nella maggiore delle Isole dei Principi. Il punto di vista è quello di Ramazan, il bellissimo e estroverso "bambino di un film turco" abbandonato alla nascita nel cortile di una moschea, mentre Ali detto l'Arabo, che proviene dall'estremo est dell'Anatolia, ai confini con la Siria, ha alle spalle una tragica vicenda familiare.
La narrazione ha un andamento semplificato al massimo e ripetitivo, scandito in frasi brevi, piene di punti esclamativi, sicuramente per adattarsi alla semplicità dei due protagonisti (a questo proposito ho letto che già nel romanzo Due ragazze l’autrice aveva fatto un gran lavoro sul linguaggio per individuare il lessico usato dalle adolescenti) ma forse non del tutto convincente in traduzione. In ogni caso nulla toglie alla godibilità di Ali e Ramazan, che nessun amante della Turchia e della sua letteratura deve perdere. Traduzione di Barbara La Rosa Salim.    

lunedì 27 febbraio 2017

Non è tutt'oro quel che luccica: Ahmed Altan, Scrittore e assassino

Ho il massimo rispetto per il giornalista e scrittore turco Ahmed Altan, autore di una decina di romanzi e alcuni saggi, attualmente (almeno fino al 28/1/17 per quel che ne so io) in prigione per motivi politici, e spero con tutto il cuore che sia rilasciato al più presto e possa continuare con la sua attività. Ma il suo romanzo Scrittore e assassino, tempestivamente tradotto da Barbara La Rosa Salim per e/o, su cui ho letto molte recensioni estremamente elogiative, non mi ha convinta.

Siamo in una cittadina senza nome non lontana dal mare, divisa tra agricoltura e progetti di sviluppo turistico, una di quelle abitate da greci prima della megali katastrofì perché sulla collina che la sovrasta sorge una chiesa attorno alla quale aleggiano delle leggende, che vi sia la tomba di Gesù ma soprattutto che nella cripta sia nascosto un grande tesoro, intorno al quale si scatena una faida sanguinosa che coinvolge tutti i politici e i mafiosi locali. La descrizione degli intrighi di potere tra i maggiorenti, e delinquenti locali, sorprende e interessa, le personalità dei vari personaggi maschili sono ben delineate. L'ambientazione, secondo me, è il principale motivo di interesse del romanzo.

Il protagonista, che parla in prima persona, si presenta fin dalle prime righe come un assassino, e la molla che spinge avanti nella lettura dovrebbe essere la curiosità circa l'identità del morto. Io, confesso, me ne sono dimenticata immediatamente, e quando alla fine sono arrivata al delitto, non me ne importava più granché. Comunque: il protagonista è anche uno scrittore che arriva nella cittadina in cerca di tranquillità per scrivere. Incontra subito una donna, Zuhal, l'archetipo della donna fatale, bellissima, misteriosa, sensualissima, ambigua, contraddittoria, libera e spregiudicata ma anche dolce e soprattutto disponibilissima... un eterno femminino in salsa turca. Il fatto che sia innamorata di Mustafà, sindaco della cittadina e capo di una delle bande criminali che si fronteggiano, non le impedisce di intrecciare una rovente relazione di sesso con lo scrittore. Tra frequenti sparatorie, tipi minacciosi, donne spregiudicate e intriganti, falegnami saggi, pranzi e cene, un matrimonio in moschea, la vicenda scorre in maniera piuttosto inverosimile e tavolta campata in aria. Si capisce benissimo che dietro c'è il tentativo di parlare della Turchia in maniera simbolica e metaforica per non incappare nella censura (ma, povero Ahmed Altan, evidentemente non gli è bastato) ma il risultato non è molto felice.

Ma la parte meno convincente, spesso al limite dell'ingenuità, è quella erotica. Il sesso abbonda,
soprattutto quello virtuale praticato in chat, senza immagini né webcam, tutto verbale, di testa e iperbolico. Ora, l'idea (e la pratica) del sesso scritto è interessante ma qui non si riesce a crederci neanche per un attimo: non voglio dire che non esista, dico solo che nelle parole di Ahmed Altan è così madornale che non è possibile esercitare la sospensione dell'incredulità. Una forte carica erotica è presente in tutte le donne: dalla fascinosa Zuhal alla matura Kamile, dalla cameriera Hamiyet alla prostituta Sunbul, sono potenti e insieme rinchiuse nel loro ruolo di calamite sessuali.

Qui devo ammettere un grande limite mio: la parte unanimamente lodata in tutte le recensioni è quella che più mi ha annoiato nella lettura. Il protagonista si rivolge continuamente a Dio in quanto scrittore supremo, che scrive tutti i romanzi di tutte le vite umane, discute come con un collega, discetta di letteratura e vita. Io sono proprio negata per le astrazioni quindi mi astengo. Spero che il
grande romanziere abbia già scritto un lieto fine per il collega Ahmed Altan, in cui questi ricupera la libertà e si dedica a scrivere in un paese sereno e democratico, più facile da raccontare della Turchia di oggi e bello come la Turchia di sempre, che tanto amo e mi manca.

  

lunedì 20 giugno 2016

Gioventù, amore e morte a Berlino: Sabahattin Ali, La Madonna col cappotto di pelliccia


Uscito per la prima volta nel 1943, La Madonna col cappotto di pelliccia di Sabahattin Ali è stato ripubblicato in Turchia nel 2002, come ci informa nella prefazione (tradotta dall'inglese da Francesca Ferrua) Feride Çiçekoğlu, autrice di Non sparate agli aquiloni, diventando una delle letture più popolari tra i giovani che occuparono Gezi Park nel 2013: fenomeno che si può spiegare tanto con la personalità e la breve, tragica vita dell'autore quanto con il contenuto del romanzo. Nel 2015 Scritturapura lo ha lodevolmente pubblicato in italiano, nella traduzione dal turco di Rosita D'Amora.

La madonna col cappotto di pelliccia ha una curiosa struttura con un doppio io narrante. Nella parte introduttiva, un giovane scrittore senz'arte né parte viene assunto per i buoni servigi di un amico in una grande azienda, a Ankara. Dato che è l'ultimo arrivato, si trova a condividere la stanza con un oscuro travet, Raif Efendi, traduttore dal tedesco, introverso e solitario. Un lento avvicinamento lo porta a frequentarne la casa, intravederne la squallida vita familiare, e infine a entrare nella sua intimità leggendo un vecchio diario. E qui, con la voce di Raif Efendi, si entra nel vivo del romanzo, dove le tracce autobiografiche sono evidenti. Come Sabahattin Ali, che vi soggiornò dal 1928 al 1930, Raif in gioventù si reca a Berlino per studiare la produzione del sapone profumato, visto che la sua famiglia possiede alcuni oliveti e un saponificio. Impara il tedesco ma non conosce quasi nessuno, se non gli ospiti della pensione dove vive, finché nella sua solitudine irrompe un'immagine femminile, l'autoritratto di una pittrice di nome Puder, che lui battezza "Madonna col cappotto di pelliccia" perché gli ricorda la Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto.
Andrea del Sarto, La Madonna delle Arpie

Le vicende successive, i suoi rapporti con Maria Puder, gli sviluppi e la conclusione, costituiscono una delicata fantasia romantica, dal sapore vagamente decadente, non aliena da tocchi di patetismo. Il tono, malgrado la drammaticità, ha una delicatezza adolescenziale, un forte gusto di tenerezza. La cosa che colpisce è che tra queste pagine cui si può rimproverare solo una certa verbosità, una ripetitività come se l'autore si preoccupasse molto che il lettore capisca bene quello che vuole dire, non c'è assolutamente la storia maggiore né la politica, non compare nessun conflitto di cultura o religione, tra vecchio e nuovo, tra modernità e tradizione, ma solo sentimenti e emozioni. In un certo senso è un romanzo totalmente antimoderno. Quello che fa piacere è non trovarvi nessun giudizio sulla ragazza tedesca e la sua libertà, sebbene poi incontriamo anche un malinconico matrimonio inteso come dovere sociale.

Certo La Madonna col cappotto di pelliccia difficilmente potrà avere sul lettore italiano l'impatto avuto sui ragazzi di Gezi Park, ma è un bel romanzo straniante che ci parla da un passato non troppo lontano, pieno di verità, gioventù e sofferenza.