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lunedì 5 marzo 2018

I mille gusti della cucina greca: Amanda Michalopulu, Il giardino del polpo

Ho un intero scaffale di libri accumulati e mai letti, comprati in libreria o ai saloni, ai mercatini o in giro per il mondo, che mi hanno incuriosita al momento e poi sono stati ricoperti dalla marea montante, e mai calante, dei loro simili. Quando gli butto un'occhiata sono sommersa dai sensi di colpa, dai desideri ancora accesi, e dall'abitudine ormai difficile da superare di leggere in digitale (e non parliamo degli accumuli anche lì). Per esempio, ci sono cinque o sei romanzi greci dell'inarrivabile Crocetti che non possono più aspettare. Comincerò da Il giardino del polpo di Amanda Michalopulu. 

Non essendo riuscita a trovare una sua biografia in rete, copio dalle note di copertina (del 2002): "Amanda Michalopulu è nata ad Atene nel 1966. Ha studiato Letteratura francese ad Atene e giornalismo al CFPJ di Parigi. Dal 1990 collabora con il quotidiano ateniese “Kathimerinì”. Ha esordito con la raccolta di racconti Fuori la vita è variopinta (1993). È autrice dei seguenti romanzi: Il giardino del polpo (1996, vincitore del premio della rivista “Diavazo” per il romanzo), Finché resisti (1998), Tempaccio (2001), della favola per bambini La casa volante, e di una serie per l’infanzia intitolata Pinacoteca familiare. Il suo ultimo romanzo, Perché ho ucciso la mia migliore amica, è del 2003. Suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue europee". Il giardino del polpo è uscito in italiano nel 2002, con l'ottima traduzione di Valentina De Giorgi. 

Premetto che se c'è qualcosa che mi annoia al mondo sono la cucina e le ricette, la mania per i cuochi diventati chef eccetera (e per quanto ami la Grecia e la frequenti ormai da decenni, non è certo per motivi gastronomici). Un altro argomento che mi respinge è la famiglia e i suoi noiosissimi intorcinamenti. Eppure questo romanzo mi ha acchiappata come non mi capitava da un po', rafforzando la mia opinione che la scrittura è tutto. Perché una cosa bisogna dire: Amanda Michalopulu è un mostro di bravura. Ha scritto Il giardino del polpo prima dei trent'anni padroneggiando con una sicurezza incredibile una struttura molto complessa e dei piani narrativi che si incrociano pericolosamente. E scrive con la grazia e la perizia di un surfer, scivolando senza sforzo ma in modo spettacolare tra narrazione fattuale, riflessioni, notazioni erudite, ironia e paradosso.

Le vicende si dipanano attorno ai componenti di due generazioni della famiglia Xenos che vive ad Atene ma ha radici a Astipalea, dove la nonna mandava avanti un ristorante. I figli inurbati studiano, fanno carriera, tra università e planetari successi gastronomici. I narratori sono due, come annuncia in prima pagina l'io narrante Athina, lei e suo fratello Elias che frequenta un master di psicologia a Londra; in realtà sono molti di più perché la parte scritta da Elia (dal suggestivo titolo Ti sbatterò come un polpo, frase usata frequentemente dalla nonna isolana e cuoca) è composta da una serie di capitoli in cui parlano in prima persona svariati ingredienti di cucina, polpette, peperoni, l'acqua del rubinetto, tacchino, ricotta, olive e così via, scritti in inglese e affidati alla sorella perché li traduca. 
Inoltre, Elia inventa e distorce i fatti, mentre Athina ristabilisce la realtà di quello che è avvenuto e procede in una narrazione più o meno lineare della propria vita dal momento in cui Elia le ha affidato il manoscritto. 

Aggiungete a questo il fatto che il padre dei due è un docente universitario di linguistica, mentre la madre è un'artista che nei suoi quadri utilizza cibi e bevande e Athina lavora con lo zio chef di rinomanza internazionale; il che permette a Amanda Michalopulu di spaziare da Chomsky a Brillat Savarin alle ultime tendenze dell'arte alla letteratura, con strepitosi pezzi di bravura, scialo imponente di nomi, citazioni, erudizione da bibliotecaria folle, e una cadeidoscopica capacità di tenere il tutto sotto controllo. Certo, nei capitoli di Elia l'effetto barocco è un pericolo costante, e forse l'eccesso di esibizionismi alla fine si fa un po' stucchevole, ma nell'insieme Il giardino del polpo (naturalmente l'Octpus' garden dei Beatles c'entra e c'è) è un libro che ipnotizza e spinge a andare avanti con curiosità e incanto. Risultato tanto più stupefacente se si pensa che le vicende della famiglia Xenos sono minime, niente di particolarmente avventuroso né insolito. Storie che si trovano in tutte le famiglie, ma che cucinate da Amanda Michalopulu diventano appetitose come un piatto di polpo dolce, ricetta segreta della nonna di Astipalea che nessuno è più riuscito a riprodurre.          

mercoledì 20 aprile 2011

ROBERTA ANAU, ASINI, OCHE E RABBINI


Fresco di stampa per le edizioni e/o questo bel libro, che la quarta di copertina definisce romanzo ma in realtà è tutt’altra cosa, anzi, molte altre cose. È innanzitutto una dichiarazione di appartenenza e identità ebraica, piena di affetto e orgoglio. È un’autobiografia che si diverte a ricostruire un teatrino famigliare pullulante di tutto ciò che è vita, dalle manifestazioni alte come la religione, la tradizione, alle sue espressioni più basse e corporee, che tanto divertono i bambini, nulla disdegnando né dimenticando; e la voce della protagonista fa rivivere davanti ai nostri occhi i personaggi della sua infanzia (alcuni larger than life come l'amata-temuta-ammirata madre Fernanda), l’amatissima Ferrara e le sue nebbie avvolgenti e tiepide, gli oggetti, i cibi, gli spazi della “casa d’angolo” in città e della Luchinata, la casa di campagna delle estati di libertà e natura, le parole (moltissime) che trasmettono la cultura ebraica e i riti familiari, quelle del dialetto ferrarese paterno e soprattutto quelle del nonno materno Orazio, piemontese e depositario di formule adatte a qualsiasi occasione. Man mano che Roberta cresce, lascia Ferrara per la gelida Torino in seguito alla morte del padre, al calore della famiglia d’origine si sostituisce il matrimonio, la nascita di una figlia, dolori grandi, grandissimi, e piccole difficoltà, le fatiche e le gioie della vita degli adutli, la voce diventa più dolente e il mondo un po’ più monocromo. Ma non diminuisce la sensazione di ricchezza che questo libro trasmette. Il punto di forza è la scrittura sapiente di Roberta Anau, euforica e barocca, amante dell’accumulo fin dal titolo, dei sinonimi, delle liste di paragoni e metafore, pimpante e esagerata. Una scrittura che vuol farsi notare, non teme di portare via la scena ai contenuti, soprattutto all’inizio in cui sembra che voglia rendere conto dello stupore goloso di una bambina di fronte alla vita bella e nuova, tutta da scoprire. È viscerale e carnale, cresce su se stessa, un pensiero tira l’altro, non ha bisogno di fatti cui appoggiarsi, è sovrabbondante e ellittica, espressionista. Fa un generoso uso di ironia, condimento paragonabile solo all’amato grasso d’oca. Sa operare trasformazioni favolose sulla realtà (basti come esempio l’episodio della conserva di pomodoro di pagina 125), caratterizza i numerosi personaggi con voci sempre personali, li accarezza con amore e li punzecchia senza pietà nel caso che lo meritino.
Asini, oche e rabbini è un libro intensamente originale sia nell’affrontare l’argomento mille volte trattato della ricostruzione di un mondo dell’infanzia, sia nell’appassionata dichiarazione di appartenenza ebraica, nella sensualità con cui racconta i cibi, la scoperta della sessualità, la baldanza giovanile e le prime malinconie dell’età, definite con felicissima ironia le ultime stagioni della mia “età della ragione”. Per concludere, ottima la scelta editoriale di mettere in copertina i genitori di Roberta, ritratti nello splendore del loro giorno di nozze. Un esauriente glossario riunisce i termini ebraici disseminati nel testo.
Roberta Anau ha vissuto a Ferrara e a Torino, è stata insegnante e ora gestisce un agriturismo, La Miniera, nel Canavese, dove propone cibi della tradizione ebraica e piemontese. Ha pubblicato con Elena Loewenthal Cucina ebraica (Fabbri 2000), La cucina della Bibbia (Il leone verde 2002) con Daniela Messi e Gianburrasca: ragazzo di marzapane e cervello di crema (Il leone verde 2010).