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sabato 2 marzo 2024

Chi si ricorda del Capodanno del 2000? Non più mille, un racconto ormai preistorico

 

La donna camminava lentamente facendo dondolare con una mano un parasole di seta color crema.  Portava un abito scollato di pizzo nero e tacchi altissimi che la facevano barcollare. Mi chiesi come potesse sopportare il gelo della notte invernale. Vista da dietro, la sua figura sottile faceva pensare a una giovinezza inoltrata e un’espressione meditativa. Quando la superai e mi volsi a guardarla, vidi invece che era quasi vecchia e sotto alle spesse lenti da miope piangeva lacrime così brucianti da esalare vapore. “Non si sente bene? Le serve qualcosa?” le chiesi. Non è mia abitudine rivolgere la parola per strada a donne sconosciute, ma quella era una notte speciale, sembrava che tutti conoscessero tutti e parlassero con tutti. Lei scosse il capo, forse non mi vide nemmeno, tra il buio, le lenti e le lacrime. Non insistetti, perché ero in ritardo. Viola, vestita di lamé d’argento, mi aspettava nella baraonda della sua casa profumata di fiori e frizzante di champagne, calda di cibo, vibrante di musica e dell’allegria di chi in quel momento stava pensando: “Purché mi basti il fiato ancora per tre ore, due ore, un minuto, dong! Mezzanotte!” Nella strada non c’era più nessuno. I caroselli con il claxon schiacciato, le urla ubriache, i fuochi artificiali e gli spari sarebbero cominciati dopo, nel nuovo millennio.  Mi volsi ancora a guardare la donna. Si riparava sotto il parasole per difendersi dai primi fiocchi lenti e radi. Quando mi aprì la porta, Viola aveva in mano una coppa piena di vino e due orchidee bianche dietro all’orecchio. Mi baciò sulla bocca e disse: “E’ bello essere insieme stanotte.” Gli amici mangiavano e si scambiavano brandelli di ricordi, dichiarazioni d’amore, e nomi, sfilze di nomi di assenti lontani spariti defunti. Viola mi teneva per mano come se avesse paura che d’improvviso mi sarei buttato dalla finestra, spalancata per fare uscire il fumo. Trascinandomela dietro, mi affacciai a guardare in strada. La donna in nero era sul marciapiede di fronte, avanzava piano piano nel vortice di fiocchi bianchi stringendo il parasole con entrambe le mani. “La neve!” gridò qualcuno, spingendomi via. A mezzanotte le coppe scintillanti volavano l’una verso l’altra in brindisi storditi, su tutti i volti splendeva il sollievo: “Ce l’abbiamo fatta! Siamo qui, siamo vivi, noi, i privilegiati, abbiamo piantato solidamente un piede nel 2000, alla faccia delle persone care o dei  nemici caduti per strada!” Ballai un lento con Viola, sussurrandole nell’orchidea ciancicata parole d’amore che non avevo mai saputo prima. Verso l’alba uscimmo. Nevicava fitto e quel bianco intatto era più eccitante dello champagne. Tutta la città era per strada, solo i malati e i troppo vecchi erano rimasti nelle loro tane calde a leccarsi le ferite. Certo qualcuno stava morendo, felice di avere comunque varcato la soglia fatidica o incosciente del giorno e dell’ora. I fuochi d’artificio scoppiavano anche se la neve li spegneva prima che potessero levarsi nel cielo giallognolo. Ebbi la visione di tutto il pianeta che brindava, ventiquattr’ore di tappi che saltavano, baci distribuiti a casaccio o con intenzione, coppie che copulavano per inaugurare il millennio, bambini che nascevano al momento giusto, un caos di vita e di morte  che festeggiava un evento insignificante, un giorno di più per il mondo, uno di meno per noi sopravvissuti. Per un attimo mi parve di riconoscere la donna in nero appoggiata a un lampione, con un bicchiere in mano e un braccio che le cingeva la vita. Poi la folla si mosse e non la vidi più. Tornai a casa con Viola per fare l’amore, ma eravamo così ubriachi che ci addormentammo vestiti nella luce sporca del mattino. La sera, la neve era già sciolta.     

sabato 24 dicembre 2022

Natale ancora, un altro racconto cattivo e inedito (1990), e poi per quest'anno basta!

NATALE ANCORA 

"E' di nuovo Natale" disse Francesca cupamente, po­sando i pacchi che aveva trascinato su per le scale dal momento che l'ascensore era rotto. "Dal salumaio c'è un albero di plastica bianca coperto di salamini e dadi da brodo e in via Po tutti i negozi hanno fuori un altoparlante che diffonde nauseanti musichette natalizie."

     Alberto cominciò a sistemare i pacchetti nel frigorifero e nella dispensa.

     "Be'" rispose "che cosa ti aspettavi, che ci fosse un uovo di Pasqua? E' il cinque dicembre, e non c'è scampo. Tra venti giorni è Natale."

     "Che cosa vuoi mangiare?" chiese France­sca. "Puoi scegliere tra frittata e fagiolini surgelati, o spaghetti e formaggio, o una fettina al burro sempre con fa­giolini surgelati. Decidi tu."

     Alberto fece una smorfia. "Scelgo cotechino con lenticchie, o agnolotti al sugo di arrosto, visto che è Natale."

     Francesca fece l'aria offesa e lui le sorrise.

     "Fagiolini e fettina sono il mio ideale di cena prenatalizia. Teniamoci leggeri per i festeggiamenti che cominceranno tra poco."

     Davanti alla sua fettina, Francesca riprese il discorso.

     "Non ho ancora pensato a nessun regalo. Non riesco a immagi­nare nemmeno una cosa che potrebbe fare piacere a tua madre o alla mia, per non parlare dei padri, dei fratelli e degli amici. Vorrei addormentarmi stasera e risvegliarmi il venti­sei. Giuro, sarei disposta a rinunciare a venti giorni di vita per risparmiarmi questo strazio."

     Alberto annuì.

     "Ti capisco, ma non c'è scampo."

     "Ti ripeti, amore mio" disse Francesca in tono polemico, ma poi cambiò argomento, perché aveva un sacco di cose da raccontare sulla sua giornata.

     Quella notte sognò un enorme pacco avvolto in carta rossa da cui uscivano ributtanti salsicce rosicchiate e topo­lini bianchi, caramelle al rabarbaro e pezzi di formaggio ammuffito. Lei raccoglieva tutto e ringraziava a destra e a manca, distribuendo baci a una folla di volti senza linea­menti, le cui bocche senza labbra ripetevano in coro: buon Natale! Si svegliò con un tremendo mal di testa e di perfido umore, bisticciò con Alberto in bagno e arrivò in ritardo al lavoro.

    

A tempo debito, tuttavia, il tavolo dell'entrata di Alberto e Francesca si coprì di pacchetti colorati e infiocchettati, alcuni con il loro bigliettino o il nome scritto a pennarello, pronti per essere distribuiti o scambiati con pacchetti del tutto simili portati da visitato­ri inattesi. Si erano sforzati di ricordare tutti e di preve­dere tutti quelli che avrebbero potuto eventualmente compari­re con un regalo, per non farsi prendere alla sprovvista, senza nulla con cui ricambiare.

     In uno dei pacchetti Francesca aveva messo, con grande cura, i contenuti del suo sogno. Era stato facile pro­curarsi una salsiccia e del formaggio, come pure le cara­melle al rabarbaro; più difficile era stato trovare il topo­lino bianco, ma lei lo aveva sostituito con una cavia che aveva comprato viva e poi chiusa nel freezer per qualche ora. Il pacchetto era confezionato con la stessa carta rossa degli altri ed era difficile distinguerlo; infatti, Francesca non lo distingueva affatto, e l'aveva piazzato tra quelli senza nome, quindi poteva essere dato a chiunque. Ogni volta che ci pensava, Francesca aveva un brivido di eccitazione immaginando il momento in cui sarebbe stato aperto.

     Vennero i giorni di Natale e i pacchetti cominciarono a sparire, scambiati con pacchetti analoghi. Francesca e Alberto ebbero sciarpe in cambio di guanti, e guanti in cambio di sciarpe, grilletti e bicchieri in cambio di camicie da notte e pigiami. Il ventiquattro c'erano solo pochi pacchetti sul tavolo dell'entrata, quelli per i parenti con i loro bigliet­tini, che sarebbero stati presentati il giorno dopo al pranzo natalizio familiare, e un paio senza nome, an­cora in attesa degli ultimi donatori. Francesca era un po' delusa che a nessuno fosse toccato quello che secondo lei rappresentava il vero spirito natalizio, ma si consolò con l'idea che avrebbe sempre potuto aggiungerlo al dono preparato per la suocera, un sofisticato scialle da sera di seta rossa; o ancora meglio a quello per sua madre, che le sembrava davvero un po' modesto, perché consisteva solo in una cornice indiana di papier-maché contenente la foto dei donatori.

     Ma il destino volle altrimenti. All'ora dell'aperitivo, quando la coppia si stava preparando per andare a cena al ristorante e il rumore isterico di clacson e frenate che aveva riempito la città per tutta la giornata si era calmato fino a scompa­rire nel silenzio delle cene familiari e dei festeggiamenti casalinghi, suonò il campanello. Era la vicina con un piatto contenente una torta coperta da un tovagliolo. Francesca le dette un pacchetto e la donna non aprì sul momento, ma se ne andò ringraziando timidamente e rinnovando gli auguri. Francesca sperava ardentemente che il pacco che aveva scelto sul tavolo fosse proprio quello delle salsicce e della cavia, ma non cercò di controllare.

     Al momento in cui stavano già sulla porta, telefonò una vecchia amica, Franca.

     "Posso venire a farvi gli auguri?" chiese.

     "Ma stiamo andando al ristorante" rispose Alberto.

     "Ditemi dove andate e passerò un momento prima di andare a cena dai miei" disse Franca, e si presentò all'appuntamento con un pacchetto avvolto in carta d'argento.

     Alberto aveva preso, prima di uscire, l'ultimo pacco senza nome, e lo consegnò a Franca.

     "Lo aprirò domani mattina sotto l'albero" disse lei con un sorrisetto lezioso, e così Francesca fu defraudata dell'ultima possibilità di verifica­re l'effetto del suo specialissimo dono.

     La cena le piacque, soprattutto perché il ristorante era semideserto (lei si ricordava quand'era bambina, e sua madre diceva che la sera prima di Natale, in giro c'erano solo la piccola fiammiferaia, Oliver Twist e l'incompreso) e i pochi tavoli occupati ospi­tavano gruppetti di amici festosi che bevevano spumante scartocciando pacchetti. Lei e Alberto non avevano pacchetti né si scambiavano auguri, e bevevano birra, perché la sera­ta non fosse troppo festiva.

     Durante la notte, Francesca fece un altro sogno. Sotto un albero di Natale mastodontico, centinaia di pacchetti era­no completamente coperti da un brulicare di scarafaggi. C'erano un sacco di persone intorno all'albe­ro, che facevano esclamazioni deliziate, dicendo:

     "Che bello! Che idea splendida! Che decorazione azzeccata!"

     Svegliandosi, Francesca pensò che era effettivamente un'idea splen­dida, e proprio quello che mancava ai suoi regali per renderli perfetti. Per cui, mentre Alberto si radeva, scese velocemente in cantina con un sacchetto e lo riempì di scarafaggi, che poi attaccò con dello scotch sui pacchetti. Siccome erano ancora vivi, gli scarafaggi si agitavano e facevano un bellissimo effetto sulla carta rossa. Lei li sistemò nella grande cesta che aveva preparato a quello scopo, e quando Alberto fu pronto, sce­sero e presero la macchina per andare a pranzo dalla madre di Francesca. La vicina non uscì per ringraziarli del dono e neppure Franca telefonò.

     Prima del pranzo, ci fu lo scambio dei regali. Gli scarafaggi di Francesca erano indisciplinati, e qualcuno si era liberato dallo scotch, così lei dovette affannarsi a rimetterli al loro posto. Le zampine si agitavano spasmodica­mente disegnando ghirigori sulla carta natalizia. Ogni regalo fu consegnato al proprietario del nome scritto sul bigliettino, ognuno ringraziò adeguatamente e scartocciò il suo pacchetto con lo scarafag­gio. Nessuno osò dire niente: e Alberto e Fran­cesca ebbero i loro pacchetti in cambio, avviluppati in carta rossa, verde, viola e dorata, con fiocchi e ghiande e stelle di Natale, mentre i destinatari dei loro doni spalancavano gli occhi soffocando grida di ribrezzo. Ma nessuno disse nulla; i genitori e i suoceri si spinsero fino a ringra­ziare. Fratelli, cognati, nipoti e zii tacquero, e lasciarono i pacchetti aperti con le loro decorazioni di zampette mobili in un angolo senza più toccarli.

     "Francesca, stai bene?" disse sua madre.

     Alberto era impressionato, ma l'idea parve geniale anche a lui. Il pranzo fu in un certo modo un successo, perché tutti fecero finta di niente e mangiarono come se non fosse capitato niente di strano.

     Quando Francesca e Alberto tornarono a casa, nel pome­riggio, trovarono sullo stuoino una cavia morta e puzzolente accuratamente avvolta in carta rossa.

     "Allora è la vicina che ha avuto il pacco" disse Francesca, ma poi rifletté che anche Franca avrebbe potuto facilmente arrivare fino allo stuoino.

     Alberto era stupito: non sapeva niente dell'origina­le pacco natalizio confezionato da Francesca.

     "Che strane cose succedono a Natale" disse, "Francesca, sei sicura di stare bene?"

     Lei scoppiò a ridere e annuì.

     "E' il più bel Natale della mia vita" disse, e diceva la verità.

 

 

martedì 20 aprile 2021

Intanto, a Bolzaretto Superiore... Danda, un racconto breve

Mi piaceva tanto andare a trovare la zia Tera a Bolzaretto Superiore perché da lei c'era Danda.

Vecchia era vecchia, e neanche bella da vedere. La cosa che colpiva più in lei erano i denti finti, bianchi e tanti e troppo regolari. Si muovevano quando lei parlava, all'inizio catturavano tutta l'attenzione. Io li guardavo affascinata aspettandomi che cadessero tutti insieme dietro le labbra pallide e Danda se li inghiottisse, plop, in un boccone. Ma poi si dimenticavano ascoltando Danda e le sue storie.

Certe erano storie da ridere.

"C'era una mia amica che aveva un figlio che usciva sempre, le diceva 'Ciau mama, vadu a piè d'aria'. Una sera le ha detto: 'Mama, doman am mario'. 'E chi at marie?' 'Am mario Daria, mama.'"

E rideva, contenta, con tutti i suoi trentadue denti di porcellana. A me questo figlio, questa madre, questa Daria mi facevano sognare per giorni. Però preferivo le storie tristi.   

"C'era una mia amica che si chiamava Maria. Diceva sempre: 'Ah, son bel e stufia.' Stufia di che? 'D'esi bela e balè bin.' E com'è finita? Normale, la bela Maria tuti la veulo e niun la pia."

Oh quella povera Maria piena di innamorati, finita sola e stanca di ballare ed essere bella!  Avrei voluto consolarla e portarla con me al cinema.

La casa di zia Tera era di quelle chiuse e compatte verso la strada, ma poi dentro c'era un cortile acciottolato e un giardinetto di piante da frutta e rose, dalie, gigli, zinnie, fiori modesti e colorati. In primavera una topia di glicine si copriva di grappoli profumati e nuvole di vespe e calabroni, in autunno la vite americana che correva lungo il poggiolo esibiva grappoli neri e scompigliati.

A Danda non piaceva l'uva americana, e nemmeno a me.

"Dimmi te se quel brav'uomo non poteva piantare della bella uva regina! che mi piace tanto! No, l'uva fragola, che nessuno mangia e resta lì a marcire, al massimo va bene a conservarla per Natale e far figura. Tuti sgnor, e se ci tocca comprare l'uva non importa a nessuno."

Quel brav'uomo era il suocero di zia Tera, morto da almeno vent'anni. Danda era stata la balia dello zio Gigi, marito di zia Tera, poi cameriera o come diceva lei serventa, e da quando era così vecchia che non riusciva più nemmeno a camminare dritta abitava in una stanza nel cortile col cesso sotto la scala che portava al primo piano, l'acqua della pompa e la cucina economica per farsi un brodino e il caffè la mattina. Tutto il resto glielo portava zia Tera dalla sua cucina.

"Mangia come un caporale, quella lì" diceva la zia.

"Giusto un boccone di carne la domenica e un po' di cavolo lesso per andare di corpo" ribatteva Danda.

Stavano sempre a pitoccarsi come due galline. Io tenevo per Danda, naturalmente.

Vittorio e Carletto, i miei cugini, dicevano che quelle due erano come fidanzati, sempre a bisticciare e cercarsi tutto il giorno.

"Mamma Toni me toca, tocame Toni che mamma non vede" diceva Vittorio. 

A me Danda piaceva perché mi dava sempre retta. Mai che mi dicesse 'vai a giocare che mi stai tra i piedi', mai che leggesse il giornale o avesse mal di testa. Mi trattava come un grande, mi chiedeva come stavo, che cosa avevo fatto. Mi offriva acqua e zucchero o acqua e vino in cui bagnare certi biscottini al finocchio duri come sassi. Si grattava in testa con un ferro da calza e mi guardava con i suoi occhi scoloriti:

"Allora, cosa succede a Torino?"

"E' arrivata la primavera, in tutti i viali ci sono gli ippocastani fioriti."

"Ti sembra una gran novità? Qui la primavera è arrivata da due mesi."

Guardavo il bicchiere pieno di violette davanti alla foto di suo marito Bastiano e mi sentivo mortificata.

"Sono andata al cinema a vedere 'Via col vento'. Ho pianto tanto."

"C'è bisogno di andare al cinema a vedere tutti quei balenghi che si baciano e poi si prendono a schiaffi e si strozzano? Se ti piace piangere ti racconto di quando a sedici anni andavo a fare la mondina a Vercelli, tutta sola e fresca come una pasta di meliga uscita dal forno."

"Contami."

Probabilmente ai miei genitori non sarebbe piaciuto quello che mi contava Danda. Io non capivo proprio tutto, ma non ne avevo mai abbastanza.

"Dimmi ancora di tua figlia Celestina."

"Riposi in pace, povera anima. Era così bella nella sua bara piena di gigli bianchi."

Quella era una storia che non mi stancava mai. Celestina era morta a sette anni per avere mangiato troppi darmassin con i noccioli. Le era venuta la diarrea, poi aveva vomitato sangue e noccioli, poi era morta, così, senza fiatare.

Ma la specialità di Danda era leggere il futuro nei tarocchi e nei fondi di caffè. Che disponesse le carte molto vissute sul tavolo coperto da una tovaglia rossa o versasse la tazza sul piattino di terraglia bianca, la sua faccia assumeva un'espressione concentrata, le rughe si disponevano secondo una planimetria arcana, gli occhi perdevano l'acquosità, la bocca si stringeva in un filo bianco di concentrazione.

"Ben, ben, che cosa vedo qua? Sei ben fortunata te. Le anime ti proteggono."

"Che anime, Danda?"

"Le anime buonanima. Non fare domande finché non te lo dico io. Ciai una donna bionda che ti vuole bene. Tre lettere il mese prossimo. Ti piace cantare? Perché c'è qualcosa che va bene sulla voce, sulla gola, non vedo bene. Magari diventi una grande cantante."

Una cantante! Proprio quello che desideravo di più al mondo. Però Danda mi smontava subito.

"Oppure vuol dire che quest'inverno non ti viene mal di gola. E di intestino, come vai?"

"Ma, mi pare bene."

"Infatti c'è una carta positiva sulla pancia. Fai attenzione ai cavalli, non passare mai dietro a un cavallo o a un asino. Vedo dei calci."

Io invece non avevo mai visto un cavallo da vicino.

"Vedi questa macchia qui? Son soldi. Ti arriveranno un sacco di soldi."

Chi se ne fregava dei soldi! Io volevo diventare una cantante rock.

E poi, sapeva storie belle di masche e diavoli scatenati.

"Mia zia che era suora, una notte si è svegliata che nel letto c'era qualcuno, gelato, ma gelato che neanche un morto di tre giorni. Lei ha sporto la mano, l'ha toccato un po' e ha capito che era il diavolo. Tre giaculatorie, tre segni di croce e psss! Quello è sparito lasciandosi dietro una puzza di zolfo da far venire la tosse."

"Ma davvero davvero, Danda?"

"Eh se ti dico che mia zia era suora! Le suore mica dicono le bugie."

Quando raccontai del diavolo nel letto ai miei genitori, prima risero talmente che gli andò la saliva per traverso, poi mi sgridarono come se avessi detto qualcosa di sconveniente e mi proibirono di passare tanto tempo con Danda. Per fortuna se ne dimenticarono subito.

"Se di notte un cane ti abbaia o una capra ti corre dietro, soprattutto su un ponte che sono pericolosissimi, devi tirargli delle pietre mirando alle gambe. Il giorno dopo, se vedi una donna che zoppica, saprai che è una masca."

Non avevo mai sentito di nessuno che fosse stato inseguito da una capra, né di giorno né di notte, ma dei cani sconosciuti avevo una gran paura. Non ero sicura che avrei avuto il coraggio di fermarmi per tirare pietre, pensavo piuttosto che sarei scappata più presto che potevo.

"Non devi mai scappare! Se scappi ti acchiappano, c'è niente da fare. Le masche corrono più del vento, son furbe loro, sanno la fisica. Se ti vedono impaurita aam! Ti mangiano in un boccone."

Deliziosi brividi di paura mi correvano per la schiena, guardavo con sospetto negli angoli bui dietro la stufa.

"Qui sei sicura, stai tranquilla. Ha ancora da nascere il satanasso che la possa fare a Danda! Dai, bevi un po' di acqua e vino che ti fa venire grande."

 

Poi la zia Tera venne a vivere in città e Danda rimase a fare la guardia alla casa. Io le mandavo i saluti dai cugini, qualche cartolina dal mare. Un paio di volte, d'estate, tornai al paese e rimasi nell'odore di chiuso della cucina ad ascoltare storie. Danda era sempre più vecchia, anche se pareva impossibile. Le gonfiavano le gambe, certe volte si addormentava proprio in mezzo a una frase, ma era lucida, mica rimbambita.

Infine morì. Vittorio mi portò una scatola di latta, di quelle per la cotognata, con un'etichetta scritta a mano che portava il mio nome, nome e cognome, senza possibilità d'equivoco.

"Ha detto che ti voleva lasciare questo perché sei sempre stata ad ascoltarla."

Dentro c'era un anello del tipo che portano gli uomini in campagna, in una lega povera con una pietra finta, rosso vivo, e gli orecchini d'oro che avevo sempre visti annegati nei lobi grassi di Danda. 

"Come avete fatto a toglierglieli?"

Vittorio si strinse nelle spalle.

"Io non c'ero mica."

Chiusi la scatola e gliela porsi.

"Non la voglio. Dalla a qualche parente."

"Non ci sono parenti. Poi è per te, non puoi rifiutarla. Perché vuoi essere così cafona con una morta?"

Mi venne una rabbia furiosa. Non volevo regali da Danda, non volevo esserle riconoscente, non volevo essere costretta a custodire le sue memorie. Non volevo dover pensare ai suoi denti finti con tenerezza.

Buttai la scatola in fondo a un cassetto, nascosta sotto una pila di vecchi fazzoletti che non usavo, e cercai di dimenticarla.

Ci riuscii benissimo. In un trasloco la persi, o forse no, chi si ricorda? Non ha nessuna importanza.

Per questo, ora, qui, scrivo di Danda. Per dimostrarle che mi ricordo le storie e le puzze anche se non ho mai portato i suoi orecchini.

Per farle sapere che sono diventata una cantante rock e nessun cavallo mi ha mai presa a calci. 

 


venerdì 19 marzo 2021

Un racconto autobiografico per la festa del papà: Mio padre è un libro aperto

MIO PADRE È UN LIBRO APERTO

             Per me, padre si traduce libro e viceversa.


             Non riesco a ricordare la mia vita prima dei libri. O meglio, delle storie. La meraviglia dei libri, secondo me, è che sono fatti di parole. Senza mattoni né pietre né cazzuola né malta, senza effetti speciali né facce bellissime di attori né technicolor, parola dopo parola, aprono mondi e ti portano via, dove vogliono loro. Cattedrali di parole sontuose o ignobili, fresche o vecchie come il mondo, non hanno limiti legati ai materiali di costruzione, dicono quello che vogliono e tacciono quello che non gli interessa. Con la minima spesa possono tutto, e anche se oggi viviamo nell’età dell’immagine, rimangono il regno inarrivabile dell’economia fantastica. L’immaginazione esiste anche senza l’immagine, e prospera grazie alla parola.

             Mio padre aveva l’abitudine, quando ero piccolina, di raccontarmi l’Iliade a puntate, però dal punto di vista dei troiani. Quando, molti anni più tardi, scoprii che in realtà gli eroi di quella storia erano i Greci invasori che arrivavano da lontano con le loro navi e i loro inganni, rimasi basita. Ma come? Il povero Ettore mi faceva molta più simpatia di quello sbruffone di Achille, e così via. E ancora adesso non riesco a convincermi. Quando sono stata a Troia e sull’isola di Tenedos, scrutavo il mare con paura e diffidenza. E a Samotracia avrei voluto scalare il monte Fengari, per seguire le sorti dell’assedio insieme a Poseidon da quel punto di vista privilegiato.  

Mi faceva anche fare lunghi viaggi sugli atlanti: viaggi a puntate, oggi andiamo dall’Italia alla Grecia, domani arriviamo in Persia, poi in India. Di ogni paese mi raccontava tutto quello che sapeva, lui che aveva viaggiato pochissimo e si era fatto le sue conoscenze sui libri ma era curiosissimo. Ecco, non riesco a scindere i libri dal viaggio. Sono stata una viaggiatrice abbastanza precoce e baldanzosa per i tempi, e ogni luogo che ho visitato mi mostrava una faccia che aveva lunghe, forti radici nelle letture fatte quando non sapevo neppure che i luoghi di cui leggevo fossero reali, raggiungibili, gremiti di persone vive. Di questo, lo so per certo, è responsabile mio padre con la sua biblioteca. La strada su cui mi ha accompagnata tenendomi per mano è quella su cui continuo a camminare, e al cui selciato ho contribuito anch’io come sapevo. E oggi, che mio padre è morto da tanto, ogni volta che mi precipito a cercare su internet ogni nome, ogni notizia, ogni luogo che non conosco, penso a lui che ogni volta che sentiva un nome, una notizia, un luogo che non conosceva tirava fuori un volume d’enciclopedia (la sua prediletta era un’antica Larousse illustrata), e andava a cercarli esattamente come faccio io ora. Oh sì, mio padre avrebbe adorato internet e le infinite possibilità di conoscenza che offre. Ma allora non c’era: e da lui ho imparato che nei libri c’è tutto. La conoscenza prima di tutto, ma anche l’avventura e la fantasia, il viaggio senza confini né limiti. Il viaggio in ogni angolo della Terra e oltre. 

Più tardi cominciò a leggermi a voce alta i romanzi di Emilio Salgari, che mi sono entrati nel sangue, proprio, e hanno nutrito la mia fantasia per anni e anni. Mi sono precocemente innamorata del Corsaro Nero: non riuscivo nemmeno a nominarlo tanto mi emozionava. Carmaux e Van Stiller, le battute scipite che mi parevano geniali (“Chi va là?” “Il diavolo!”), il fratellino sacco di carbone, i lamantini che affioravano nel buio ricordando al Signore di Ventimiglia i fratelli morti, “Guarda! Il Corsaro nero piange”, i turni di guardia di notte, la Folgore, gli arrembaggi, le navi nemiche arpionate e Honorata Van Guld, potrei continuare per venti pagine a accumulare ricordi che ancora mi fanno tremare il cuore. Da lì nasce la mia passione per i viaggi, per l’Oriente, l’India dei marabù e dei Thug, le pagode e i vicoli di Benares, i misteri della jungla nera, i fuochi nella notte, i babirussa, le tigri, i manghi che hanno il gusto di mille sorbetti, l’albero del pane e chi più ne ha più ne metta. Sono stata molte volte in India e certamente Salgari ne è responsabile, ma la cosa più incredibile è che ho potuto verificare che c’era tutto quello lui mi aveva promesso. Non ho incontrato mai Tremalnaik né il fedele maharatto Kammamuri, la tigre Darma e il cane Punti, la folle Ada né ho mai sentito il ramsinga dei thug ma solo perché non ho cercato bene. La casa della mia infanzia aveva due piani e io avevo paura a fare le scale, un po’ perché erano buie e un po’ perché c’era appesa una stampa di Fouquet che mi guardava male (e che ora, benevolo nume, mi tiene compagnia nel mio studio), per cui chiamavo sempre mio padre che mi aspettasse di sotto quando dovevo scendere. Lui si divertiva a fingere di suonare il ramsinga (quale strumento sia in realtà non l’ho mai saputo) terrorizzandomi, e insieme riempiendomi di piacere.

Salgari è un vero esponente del decadentismo, i suoi personaggi sono febbrili, nevrotici, tormentati, si innamorano di bellissime quindicenni che comunque muoiono subito. Poi è profondamente libertario, anticolonialista, capace, in tempi in cui i bianchi portavano in giro con orgoglio il loro fardello di razza superiore uccidendo e depredando con disprezzo in nome della civiltà, di eleggere a eroi indiani, malesi, filippini e cinesi, corsari e deportati in fuga dalle prigioni di Port Blair. Non c’è angolo del mondo su cui non abbia scritto. Qualche anno fa, visitando il sito di Angkor in Cambogia, ho scoperto che era nientemeno che La città del Re Lebbroso. A Sandokan, principotto malese, ha fornito un aiutante tuttofare portoghese, l’ineffabile Yanez che fuma l’ennesima sigaretta sdraiato sul canapè. Si può essere di più larghe vedute? Chi ha lo ha letto nell’infanzia non potrà mai essere razzista. Salgari ha contato più di un amore, più di quello che ho studiato e letto negli anni successivi. Ė una pietra miliare, un demiurgo della mia immaginazione e di tante esperienze che ho inseguito sulle sue tracce. Ho per lui una riconoscenza totale. Senza Salgari, probabilmente, la mia vita sarebbe stata diversa.

A casa mia c’erano due biblioteche: una vera, il regno di mio padre, una grande sala con un tavolo al centro e intorno armadi a vetri, e un’altra per bambini, composta da uno scaffale rosso pieno di libri squinternati nella stanza dove studiavo e giocavo, e un armadio di legno scanalato, scrigno di meraviglie inenarrabili, nell’anticamera al primo piano. Questa seconda biblioteca era il mio libero terreno di caccia. Ho potuto usufruire dell’eredità di quattro fratelli maggiori, più quelli che mi appartenevano davvero, un territorio praticamente infinito da cui forse non sono mai uscita. Ora cerco nei mercati dell’usato i libri della mia infanzia, tesori sepolti che so esistere ma di cui non ho la mappa. Ogni tanto ho qualche emozione felice, esaltante, quando sollevando un volume qualsiasi scopro uno dei miei amici perduti. Lo vivo come un miracolo, il segno di un destino che di colpo mi sorride contento, sapendo di farmi un grandissimo favore. Ancora ne desidero molti, ma ormai ho la speranza di imbattermi in loro prima o poi, quando meno me lo aspetto, in certi giorni fausti per congiunzioni astrali che non conosco e in cui non credo, ma agiscono di sicuro indirizzandomi al banchetto giusto.

Leggevo come una furia da bambina, ma questo non mi impediva di giocare anche come una furia con amiche e amici furiosamente amati. Ero molto libera pur avendo genitori anziani, probabilmente perché essendo l’ultima si erano un po’ stancati del ruolo. Mi guardavano vivere, dandomi regole e sicurezze ma anche una fiducia illimitata. La serie meravigliosa di Karin Michaelis, Bibi, una bimba del Nord, che aveva i disegni più belli che abbia mai visto, per esempio, oggi sarebbe improponibile tanto Bibi è libera, priva di paure e paranoie, sempre pronta a partire da sola e ficcarsi in situazioni pericolose come farsi ospitare da un gruppo di zingari nel loro carrozzone. Nessun genitore contemporaneo, iperprotettivo e ansioso, metterebbe in mano ai figli dei libri così, li considererebbe antieducativi, ma io ho imparato molto da Bibi, e quando intorno ai vent’anni ho cominciato a viaggiare da sola in Grecia, Egitto, Tunisia, Algeria, Portogallo e altro, non ha mai provato a impedirmelo. Mi scriveva al fermo posta e mi dava consigli tipo “cerca di non bere l’acqua del rubinetto”.

Quando avevo dieci anni mio padre, che mi nutriva di libri e immaginazione, decise che potevo passare a letture da grandi e cominciò con I Malavoglia. Mi piacque enormemente. Ho sempre apprezzato i libri che non capivo fino in fondo: mi costringevano a pensare, a interrogarmi sulle parole che mi risultavano oscure, e mi spingevano a fantasticare a lungo. Per questo non ho mai creduto che ai bambini si debba fornire solo letteratura calibrata, quelle tremende classificazioni “dai nove ai tredici anni”, “dagli undici ai quattordici e cinque mesi”, come se ci fossero degli ingranaggi che scattano, clic clic, a ogni compleanno. Il troppo facile non aiuta a crescere. Non so che cosa capii a quella prima avventura nel mondo complesso della vita adulta, ma so che rileggendo I Malavoglia anni dopo mi piacquero altrettanto. Fui presa, stregata ancora una volta e non mi fermai più. Cominciò, per mio padre, un tormentone che non ebbe fine fino a quando non fui abbastanza grande da comprarmi i libri che volevo: “Papà, che cosa leggo?”. Andavamo in biblioteca e lui cercava, sfogliando i volumi su cui, all’ultima pagina, scriveva con una matita con la mina dura a pressione la data dell’ultima volta che l’aveva letto (non era raro ci fossero tre, quattro date) e un “Sì” o un “No” che volevano dire adatto o non adatto, in base a una pruderie sessuale legata alla sua educazione. Mio padre era un uomo d'altri tempi, e non mi negò mai un libro perché troppo difficile, troppo problematico, ma solo perché, a suo parere, era troppo scollacciato. Devo dire che i suoi standard non erano severi. Non mi diede mai Zola ma Balzac, Stendhal, Flaubert, moltissimi romanzi inglesi e russi, storie che della vita parlavano eccome, in tutti gli aspetti, solo che non usavano certe parole né descrizioni precise. Ricordo ancora con dispiacere e vergogna quando per Natale gli regalai, ero ormai più che ventenne, Fattaccio a Buenos Aires di Manuel Puig. Non l’avevo letto ma ero stata incuriosita da una recensione. Ne fu scandalizzato, e rivedo l’espressione mortificata con cui mi chiese: “Ma tu l’hai letto?”. Risposi, sinceramente, di no, lui non fece commenti e non ne parlò più. Di Puig in seguito ho letto alcuni romanzi che ho trovato molto belli, ma capisco che non erano adatti per mio padre, proprio per niente.

Mio padre, industriale, in politica conservatore, uomo molto colto, profondamente liberale e rispettoso degli altri ma certo non in sintonia con i rivoluzionari, era in letteratura un amante dell’avanguardia. Leggeva Joyce in inglese ben prima che fosse tradotto in italiano, adorava Gadda, Musil, era di una curiosità senza prevenzioni quando si trattava di libri. Ricordo di essere corsa alla mitica libreria Hellas di Angelo Pezzana, l’unica libreria moderna nella Torino della mia giovinezza, per comprare su sua commissione Il tamburo di latta appena tradotto, molto prima del Nobel che rese famoso Gunther Grass. Senza che mai me l’avesse insegnato, da lui ho imparato a leggere le recensioni e capire se quello di cui si parla può diventare un “mio” libro. Le recensioni indirizzano i miei acquisti, e raramente mi sbaglio. Forse per questo adesso scrivo volentieri di libri, ma faccio fatica a occuparmi di quelli che mi hanno delusa. Stroncare non mi sembra utile né mi interessa. Se invece un libro mi è piaciuto ne parlo, ne scrivo e vorrei farlo leggere a tutte le persone che amo. Adoro imprestare i libri, mi provoca una profonda soddisfazione essere diventata per alcuni amici una sorta di biblioteca circolante, almeno finché non ho cominciato a leggere prevalentemente in digitale. Anche se come autrice può sembrare che mi dia un po’ la zappa sui piedi, sono convinta che ogni libro prestato diventerà, prima o poi, un libro comprato in più.

L’adolescenza è stata la fase dei grandi romanzi cui mi lasciavo andare con totale adesione. Da bambina amavo portarmi da leggere nel prato in fondo al cortile per godere insieme dello straniamento spaziale e di quello immaginativo, oppure restavo in camera mia sdraiata sul letto come faccio ancora oggi. Ora frequento spiagge solitarie dove non ci sono lettini né ombrelloni, e anche sulla sabbia, sui ciottoli o su uno scoglio la lettura mi sembra più completa, o nelle sale d’aspetto degli aeroporti, nelle camere d’albergo, in treno. Non mi piace leggere in poltrona. Eppure a casa mia, dove la televisione è arrivata tardissimo, la sera in salotto stavamo in sette, cinque figli e due genitori, ognuno con il suo libro, e la domanda più frequente era: che cosa stai leggendo? Ho cominciato molto presto a leggere tutto quello che potevo nella lingua originale, senza dizionari, sforzandomi di capire le parole sconosciute dal contesto. Leggevo romanzetti francesi per signorine, Mon oncle et mon curé, o Mon cousin Guy, o La folle histoire de Fridoline, e a ogni riga chiedevo il significato di una parola a uno dei miei fratelli, che vuol dire moine? abbaye? e loro, annoiati, alzavano lo sguardo dalla pagina e mi dicevano: ma perché leggi in francese se non lo sai? Invece è proprio così che ho imparato inglese e francese, più tardi anche lo spagnolo, leggendo. Anche in questo ho seguito le orme di mio padre che affrontò anche il portoghese senza mai sapere la pronuncia, ma scavando ostinato nelle parole che lo affascinavano.

Anche se la poesia non la frequentava tanto, è da mio padre che ho imparato ad amare Guido Gozzano. Ingiustamente inchiodato alle piccole cose di pessimo gusto, per chi non lo conosce frequentatore del salotto di nonna Speranza, è raffinatissimo maestro di metrica e disincantato cantore della rinuncia alla vita, intellettuale che si guarda agire con occhio ironico, antiromantico per eccellenza nei temi e romantico per condizione esistenziale, condannato dalla tisi a una morte precocissima. Molti dei suoi versi mi tornano alla mente spesso perché riassumono esperienze quotidiane. Di un altro poeta ho ricordi infantili, Palazzeschi, perché mio padre ogni volta che ero troppo lenta a salire una scala mi diceva: salisci, mia Diana, salisci codesto scalino, lo vedi, è bassino, o cloppete cloppete clop davanti a qualche spruzzo di fontana un po’ sputacchiante. Sotto forma di volume ben rilegato in pelle se ne stette a lungo sul tavolo del salotto dove ebbi tempo e modo di sfogliarlo, finché sparì di colpo quando, avendo letto il verso puttane, ma strane, care puttane! chiesi spiegazioni su quella parola nuova. In seguito ho letto tutte le sue poesie, e mi rallegro di non aver incontrato, nei miei anni più freschi, i fiori parlanti del suo giardino e soprattutto di non aver chiesto a mio padre quali lavoretti con la bocca sapesse fare così bene la violacciocca.

Questa religione del libro in cui sono cresciuta mi ha influenzato pesantemente quando ho cominciato a scrivere. Per molto tempo ho avuto in testa il desiderio di farlo, ma fino all’8 dicembre 1982 avevo scritto solo diari, tanti, lettere, anche, temi, la tesi e una serie di itinerari geografici per un testo scolastico. Quel giorno mi misi alla macchina da scrivere (non ho mai scritto a mano da quando ho cominciato con la narrativa cosciente di sé, e sono passata prestissimo al computer, verso il 1987) e buttai giù un racconto, Quattro storie di viaggio. Ora lo trovo illeggibile ma allora ne fui soddisfatta e stupita: avevo scritto quello che volevo scrivere nel modo che desideravo. Certo vi si trovavano già, in nuce, molti dei temi che mi appartengono. Fu l’inizio di una passione che con il tempo è cresciuta fino a diventare dominante, predominante, soddisfacente più di qualsiasi amore e molto più tormentosa, ma insieme liberatrice perché non dipende dalla volontà di un altro, è mia e solo mia. Comunque mi sentivo tremendamente colpevole di presunzione: consideravo, e forse considero, scrivere la più alta delle attività umane, e osavo farlo! Mi pareva un atto di hubris per il quale avrei potuto essere amaramente punita. Per almeno dieci anni non ho avuto il coraggio di confessarlo a nessuno, nemmeno alle persone con cui avevo maggiore confidenza. Mia madre è morta senza saperne niente, mio padre, che forse se ne sarebbe rallegrato, era morto già da tempo. Ma anche se la cosa gli fosse dispiaciuta, avrei potuto rispondergli con uno dei proverbi che gli piaceva citare: chi è causa del suo mal pianga se stesso, perché se sono quella che sono, e ho vissuto come ho vissuto, è perché lui ha spalancato per me la porta del mondo più meraviglioso che ci sia: la biblioteca.