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martedì 10 dicembre 2019

Da Karen Blixen ai fantasmi sulla Luna, tanto per fare quattro chiacchiere

E' un periodo che non sono proprio fortunata con le letture. Dopo La saga dei Cazalet non ne ho più azzeccata una, e nulla di quello che ho letto mi ha fatto venire voglia di scriverne (con un'eccezione, Tutti i racconti di Grace Paley, ma siccome mi sono data la regola di non parlare mai su questo blog di libri che non mi sono piaciuti assolutamente, a meno che non mi abbiano fatto arrabbiare eccessivamente come Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini o Il piccolo amico di Donna Tartt, non ho potuto scriverne perché l'ho detestato). Per cui, ripensando ai tempi belli in cui mi imbattevo in libri belli di cui mi veniva voglia di scrivere belle cose, mi è venuto in mente che nel canone di scrittrici ormai iconizzate e imbalsamate come empireo femminile (e anche qui, non fatemi dire che cosa penso di alcune di queste icone) non salta mai fuori il nome di una scrittrice che ho amato moltissimo: Karen Blixen, di cui al massimo si ricorda La mia Africa (che ho amato molto meno degli altri) o il racconto Il pranzo di Babette, mentre io sono stata stregata da Sette storie gotiche, Capricci del destino, Racconti d'inverno e soprattutto Ehrengard. Non ne ho parlato in questo blog per la semplice ragione che l'ho letta molto prima di aprirlo, ma appena ho un attimo di tempo lo farò. 

In realtà ho letto una raccolta di racconti e un'antologia entrambi ottimi, ma non mi sento in grado di parlarne perché si tratta di fantascienza, un argomento su cui bisogna saperne molto più di me per azzardarsi a dare giudizi. Per cui a proposito della raccolta di racconti, Culti svedesi di Anders Fager, mi affido all'autorevole voce di Silvia Treves che l'ha recensito sulle pagine di LibriNuovi.net. 
Dell'antologia DiverGender, a cura di Silvia Treves e Caterina Mortillaro, che compaiono anche come autrici (qui l'intervista sul blog Diario di ErreBi), posso dire solo che è interessantissima e unisce nove racconti godibilissimi e intriganti a tre momenti saggistici di riflessione e informazione sul tema del genere, che ne fanno una lettura a tutto tondo e di stringente attualità. Più che raccomandabile anche a chi non è un appassionato di fantascienza. 

E visto che di questo si tratta, segnalo che nella pirotecnica collana Alia Arcipelago edita da CS_libri le pubblicazioni continuano e si aggiungono al succulento catalogo in cui, tanto per farvi venire l'acquolina in bocca, potete trovare Isola di passaggio di Silvia Treves, Isole nella Corrente di Massimo Citi, Fantasmi sulla luna di Paolo S. Cavazza, Da zero a infinito di Fabio Lastrucci e molti altri titoli. Se ne è parlato insieme a DiverGender alla libreria Vecchi e Nuovi Mondi di Torino, ben nota cattedrale del culto fantascientifico e fantastico e dei suoi adepti.    

lunedì 27 febbraio 2012

La necessità della passione

 Lei coltiva fiori bianchi: intervista a Consolata Lanza

A cura di Silvia Treves


Lei coltiva fiori bianchi è stato definito da Consolata un libro «sentimentale», e io concordo perché esplora in profondità i nostri sentimenti, le aspettative più o meno sensate, le speranze e il nostro diritto alla felicità. Più che un tema, forse, è un interrogativo: ognuno di noi è un intero o la metà di una coppia? Ed è più saggio sopportare il compromesso di una vita a due per averne anche tutte le gioie, oppure accettare la solitudine per non tradire le nostre aspettative di perfezione?
Ma Lei coltiva fiori bianchi esplora anche un altro tema, non meno importante: quello del tempo che passa e della sensazione, incomprensibile a chi è giovane, che ognuno di noi, pur continuando a imparare, a cambiare, a trasformarsi, resti sempre quello di un tempo, di quando era «giovane»: medesimi i desideri, che forse hanno cambiato oggetto ma non intensità, medesime le speranze, medesima l’aspirazione – sopita ma non dimenticata – alla felicità. Dentro un corpo diverso, più fragile, più logoro, che piano piano giunge alla fine, restiamo pur sempre quelli di «allora».
Ed è proprio in questa frattura fra tempo del cuore e tempo del corpo, fra il tempo del nostro io e il tempo reale, che trascorre e si definisce la nostra vita e che noi impariamo ad accettare gli altri e a sopportare, ad amare perfino, i nostri limiti.
Il libro di Consolata è un trittico ricco e variegato; il primo racconto è modulato dai confronti: la giovane Bea e Gloria dalla già lunga vita, il giardino di Gloria, lussureggiante a giugno e umido e severo in ottobre, addormentato, sul punto di giungere alla fine; il secondo si scioglie nello straniamento, in un vuoto vertiginoso e rasserenante, nel sogno di vite inventate che avrebbero potuto essere vere; il terzo si affaccia sul timore di concedersi alla felicità, di perdere tutto e risvegliarsi soli.


Il dialogo che segue è un estratto di quanto è stato detto durante  la presentazione del libro organizzata nella libreria della CS_Libri, una serata piacevole arricchita da letture di brani del romanzo da parte di Francesca Maria Rizzotti.  

Fiori di catalpa
S.T. Vorrei cominciare dal giardino di Gloria, dove si volge il primo incontro fra le due protagoniste. Un giardino pieno di fiori solo e completamente bianchi. Come pensa Bea, ad un certo punto, la follia botanica di  Gloria appare  piena di metodo… Ti ho invidiato moltissimo per questo brano! Io l’avrei trasformato in un noioso trattato di botanica, tu sei riuscita a farne una descrizione piena di odori, colori, molto sensuale. Al di là dei personaggi di contorno, a volte disegnati rapidamente – come nel caso degli occasionali incontri di viaggio di Gloria – altre volte più dettagliati, come il marito di Bea, due sono i personaggi fondamentali: un’anziana e una ragazza. Il loro è un incontro piuttosto improbabile che si avvera per la testardaggine della giovane Bea e per la curiosità, forse identificazione, di Gloria. Sono personaggi molto diversi, quasi speculari. Uno dei tanti doppi del libro, come il giardino nelle due stagioni, il giardino bianco e quello rosso. Gloria «recita» la parte dell’amante che non vuole diventare una moglie normale, Bea quella contraria, tutta presa dal suo sogno di normalità. È una lettura sbagliata?

Fiori di tiglio
C. L. Sai, io più che tanto non so interrogarmi sulle azioni dei personaggi. Loro fanno così perché 1) glielo faccio fare io e 2) non possono fare altrimenti.
Però devo dire che non ho mai pensato a Gloria come una che recita: Gloria è essenzialmente se stessa, e nell’esserlo pienamente nelle circostanze diverse della sua vita mia ha interessato come personaggio. In questi racconti ho cercato di rappresentare due personaggio che hanno una visione diversissima dell’amore e di come vogliono condurre la propria vita, e ci riescono ognuna a modo suo. Nel mio modo di vedere il nucleo è proprio questo confronto fra le due donne.

S.T. Dicendo che Gloria «recita», che è un personaggio che mette in scena la propria vita, non intendo dire che finge ma che si adopera in maniera lucida e consapevole per rispettare un programma di vita: rendere la vita e l’amore un evento sempre eccezionale. La sua è una scelta compiuta ogni giorno, ogni volta. Non vuole essere la moglie quotidiana a fianco della quale ci si sveglia, ma la donna sempre misteriosa, indipendente.

Frangipani
C. L.  Il risultato è questo, la scelta è vivere la passione invece della quotidianità, del concreto. Fare di tutto perché un amore resti passione e non diventi mai… amore, forse, perché in genere amore e passione sono considerati termini contrapposti. Gloria, il personaggio più anziano, ha fatto questa scelta di vita drastica. Come coltiva un giardino straordinario contemporaneamente coltiva questa passione, l’accudisce perché rimanga tale; la sua è una scelta, non una necessità obbligata. Per contrasto Bea, molto più giovane, va nella direzione opposta, non le interessa la passione che comporta il rischio e un continuo lavoro. In realtà anche la scelta di vita di Bea comporta un lavoro continuo, ma di tipo differente. Per Bea la passione è un rischio tremendo, vivere una vita di passione per lei significa non avere nulla a cui radicarsi. Lei vuole un uomo con cui vivere, una famiglia… non per rinchiudervisi, perché è un personaggio con gli occhi ben aperti sulla realtà… però Bea vuole questo genere di amore come prerequisito.

S.T. Però in un certo senso Bea ha timore del cambiamento.

C.L. Sì, del cambiamento ha una paura folle, ma soprattutto non ne sente la necessità. A me Bea non sembra una che si nega alle sorprese. Anche lei, come Gloria, ha preso delle decisioni che per il momento hanno prodotto la sua felicità, o serenità, e teme le minacce dall’esterno. Però io non vedo Bea come un personaggio che vuole tenere tutto sotto controllo, piuttosto come una persona che in un determinato momento ha realizzato ciò che voleva nella propria vita e quindi ha questo timore, ansia, idea che possa sparire da un momento all’altro. Come dicevi tu all’inizio, il tempo trasforma tutto, e un momento di perfezione totale non è detto che duri. Non è un sentimento che abbiamo tutti? Non sappiamo tutti che, malgrado i nostri sforzi, ci può sempre essere la famosa tegola che ci casca sulla testa, il terremoto, l’attentato terroristico? È una cosa che io penso, e Bea non ha bisogno di svegliarsi, ha gli occhi ben aperti, anzi si guarda attorno e nota persone e cose. Solo, sa che ha molto da perdere.

S.T. Io trovo che il timore di Bea per la passione, per l’imprevisto, per una vita eccezionale, coltivati invece da Gloria in maniera un po’ maniacale, emerga con chiarezza nel terzo racconto, nel quale si verifica una situazione straordinaria, una perturbazione: la sparizione della vicina di casa, di un frammento del suo universo. Sparendo, la donna, le provoca una grossissima insicurezza, alla quale Bea risponde in maniera interessante da scoprire. Tu pensi che il suo bisogno di radicarsi e la sua reazione alla sparizione di quel tassello nel mosaico siano legate?

C.L. La sparizione della vicina non le crea insicurezza, almeno rispetto alla sua vita, ciò che la agita è scoprire come sia possibile perdere la propria vita. Qui devo fare una nota personale. L’episodio narrativo della sparizione della vicina nasce da un episodio reale, la sparizione, proprio a Torino, di una donna quarantenne; alcuni dei presenti forse lo ricorderanno. Io, mia sorella e molte amiche abbiamo vissuto quel caso con molta partecipazione. Ovviamente non ha minato la nostra sicurezza, non ha colpito direttamente la nostra vita, ma l’abbiamo seguito con passione. Io guardo sempre Chi l’ha visto, lo dico senza imbarazzo. Mi inquieta e mi affascina la possibilità di potere sparire e cancellare la propria vita da un momento all’altro. Mi affascina perché quando è voluta mi sembra una cosa a suo modo bellissima. Quello della sparizione è un tema che ha ispirato libri bellissimi, come Bambini nel tempo di mcEwan e un romanzo di Gilmore che recensirò a breve. La sparizione è un evento conturbante e affascinante, nel bene e nel male. Non credo di poter entrare più che tanto nella psicologia dei miei personaggi, questo è un vecchio discorso tra noi, perché loro possono fare soltanto ciò che io gli permetto, quindi… Però la vedo così, Bea prova paura ma anche fascino per la cancellazione di questa persona la cui vita l’ha semplicemente sfiorata, la vedeva in tram, ne conosceva il viso, e poi è sparita. Ci sono anche altre vicende simili che vede accadere attorno a sé. Io non l’ho intesa come un timore, ma ciò che il lettore percepisce in realtà sfugge al mio controllo.

S.T. Mi piace sempre molto discutere con te, scoprire che a volte cogliamo sfumature simili e a volte differenti. Prima di questa sera ci siamo scambiate delle idee su Lei coltiva fiori bianchi… Spesso collimavano ma c’erano alcune sfumature che io vedevo e tu non vedevi in un certo personaggio, e viceversa. Penso che questa diversità di vedute sia il sintomo di un libro vivo, vitale, capace di suscitare sensazioni differenti, di far dire ai vari lettori «io la vedo così» e «io invece ci vedo anche questo»… Mi sembra una dimostrazione della ricchezza del testo, un’ambiguità feconda.

C.L. Prendo questa tua versione benevola come un complimento, in realtà può darsi benissimo che l’autore non riesca a rendere un personaggio…

basilica del Bom Jesus, Goa
S.T. Leggendo alcuni libri accade di pensarlo. Ma in questo caso è davvero un sintomo di ricchezza. Tornando alla fascinazione esercitata dalla possibilità di sparire… Questa medesima fascinazione io l’avverto nel secondo episodio, nel quale Gloria, in vacanza a Goa, sembra non volere contatti reali con gli altri. Sembra pensare:  «Io sono qui e vi vedo vivere, voi vedete vivere me. Ma c’è distanza tra noi e non la voglio colmare». Di  fronte alle varie persone che incontra e che vogliono scambiare con lei frammenti della propria vita e indirizzi, Gloria ogni volta si reinventa, dandosi nomi e vite differenti. Talvolta ricamandoci anche, facendone una versione complessa. È un’altra modulazione del tema della sparizione volontaria?

C.T. Devo ammettere che in questo caso ho veramente prestato a un personaggio una cosa mia che mi ha sempre esaltato tantissimo. Viaggiare da soli come in questo caso Gloria e non essere nessuno. Quando sei da solo in giro, sei solo tu con il tuo passaporto e un po’ di soldi, una carta di credito. E basta. Ti presenti alle persone che incontri con la tua faccia, sei senza storia, senza background, gli altri non possono che accettarti o rifiutarti per il tuo vero essere, per ciò che sei. Questo mi è sempre piaciuto da morire e ho praticato a lungo questa possibilità in passato. Ora non ho più tanta voglia di viaggiare da sola, ma in passato sì. È l’esatto opposto del «Lei non sa chi sono io», è invece: «lei per fortuna proprio non sa chi sono io». Ho prestato questo a Gloria e lei, più che inventarsi delle vite, si presenta semplicemente con la propria vera interfaccia. Dà una forza enorme presentarsi e vivere in questo modo, stabilire rapporti, crearsi dei rapporti.

S.T. Spendendo solo te stessa…

C: Spendendo solo te stessa, però scoprendo che non c’è bisogno di altro.

S.T. Mi è piaciuto moltissimo il brano nel quale Gloria incontra la ragazza francese. Un esempio, davvero liberatorio, della piccola malevolenza che tu nutri verso alcuni personaggi. Ora vorrei farti una domanda che probabilmente non ti piacerà. Te l’hanno già posta anni fa, durante una  presentazione di un altro tuo romanzo, credo Est di Cipango. Ti avevano chiesto quale avrebbe potuto essere  il futuro di un certo personaggio. Tu allora rispondesti, e lo comprendo perfettamente: «Non lo so. Ho visto soltanto fino a quel certo punto, e fino lì ho scritto. Oltre no, perché oltre non ho visto». Te la ripropongo perché sono curiosa… Vedi, a me sembra di  poter intravedere il futuro di Gloria,  potrebbe fare altri viaggi, o magari no, potrebbe non desiderare  più di vedere altra gente o forse incontrare alcuni amici… Invece Bea mi incuriosisce perché mi è difficile immaginarla «dopo». Mi piacerebbe leggere di Bea dopo dieci anni.

Pittosporo
C.L. Ho due risposte, oltre quella scontata. Tu non puoi immaginarti il futuro di Gloria, perché il suo futuro deriva da un passato che è completamente diverso dal tuo e quindi… Mentre invece mi sembra che il tuo presente, almeno come struttura, sia più simile a quello di Bea…
In ogni caso, la sua ricerca, che è quella della maggioranza degli essere umani, non mi pare mediocre. Non è volere una famiglia che è mediocre, ma tutto quello che ci sta attorno: la chiusura agli altri interessi, la miopia, il rinchiudersi egoistico, che mi pare il personaggio non pratichi. Per passare invece alla domanda specifica… Io dico sempre che le mie storie finiscono perché io più in là non vedo, non arrivo. Giunte a un punto morto finiscono lì. Credo che accada a chiunque scrive storie. In questo caso, il libro stesso è una risposta. C’è un primo racconto in cui due personaggi s’incontrano per la contingenza dell’intervista e fanno amicizia. Si specchiano uno nell’altro e si danno delle risposte. Gli altri due racconti sono una risposta a quell’esigenza: che cosa accade all’una e all’altra, nel secondo racconto si segue Gloria e nel terzo Bea. Come vedi, quando ne sento la necessità vado a vedere oltre.

S.T. Io ho definito una sorta di trittico questa forma narrativa che non è propriamente un romanzo. Altre volte hai utilizzato questa struttura – tre racconti, tre situazioni – ad esempio ne Il gioco della masca, in D’amore e no, in  La lametta nel miele

C.L. In verità io ho pubblicato alcuni libri formati da tre racconti per puri motivi editoriali. Mi chiedevano: «Hai tre racconti, così facciamo un libro…». I libri che citavi sono antologie, raccolte, ospitano tre racconti per motivi di lunghezza, potrebbero essere quattro o cinque, se fossero più brevi. I racconti possono avere rimandi interni, ma non hanno niente in comune, come narrazione. Invece ha la medesima struttura di Lei coltiva fiori bianchi proprio Est di Cipango, dove nel primo racconto si parla di un personaggio, nel secondo di un altro che ha incrociato la vita del primo… Anche Ragazza brutta, ragazza bella è simile, anche se i racconti sono più numerosi. I racconti di questi libri continuano a esplorare la vita di personaggi che non si esauriscono in un racconto solo. È una forma che mi piace moltissimo e che penso di riprendere prima o poi, anche se gli ultimi due romanzi (inediti) che ho scritto sono del tutto diversi come struttura. Mi permette di scrivere racconti, che è la forma narrativa che preferisco, e di riprendere i personaggi se mi viene voglia di pensarci ancora. Così non mi stufo come mi può succedere scrivendo un romanzo.

S.T. Parliamo dei luoghi. Uno dei brani che preferisco appartiene al terzo racconto ed è il momento in cui Bea attraversa il Ponte della Gran Madre; non soltanto le tue parole trasportano il lettore esattamente dov’è Bea, ma esprimono sensazioni che provo spesso, andando a lavorare a piedi. Questa Torino, che scivola discreta fra i pensieri mentre la attraversiamo, è forse la meno conosciuta da chi viene da fuori e la più amata da chi vive qui. Anche in altre tue opere, mostri un legame molto forte con la città e con la provincia, la Bolzaretto dell’anima, diciamo. In Lei coltiva fiori bianchi, Torino e i dintorni sono una presenza continua ma rarefatta: la città traspare poco nel primo racconto, nel secondo è come reinventata da Gloria, è un luogo nel quale continua a collocare la propria casa e la propria vita; ha invece una parte importante e molto d’atmosfera nel terzo. Che cos’è Torino per te?

C.L. È l’ambiente che conosco meglio, che posso descrivere meglio. Io scrivo sempre di cose che conosco e posti che ho visto perché altrimenti non riesco a ricrearne l’atmosfera che per me è fondamentale. Poi mi documento anche, ma solo a cose fatte, per controllare di non aver scritto cazzate.

Torino, Ponte della Gran Madre sul Po
S.T. Odori, sapori, colori, suoni, sensazioni tattili… nei tuoi racconti scivolano da una pagina all’altra, avvolgono il lettore, gli entrano dentro. A leggerti sembra che sia tanto facile, scrivere così. Che tutto, nella tua narrativa, nasca dalle sensazioni. Cioè che tu prima annusi la scena e i personaggi, li esplori con i sensi. È così?

C.L.  Sì, è verissimo. Per questo non posso scrivere di posti che non conosco bene, non parliamo di quelli che non ho mai visto. Molto sovente parto da un odore, un colore o una sensazione da cui nasce un teatro temporaneo in cui poi si inseriscono i personaggi e infine le azioni. In questo caso non c’è bisogno di dire che l’origine è il giardino di Gloria, ma piuttosto dall’esterno che dall’interno, quelle macchie di vegetazione attorno alle ville antiche che si vedono certe volte in pianura, circondate da un muro basso a righe orizzontali. Anche per la scena iniziale della Y10 che corre la mattina presto… la strada che da Strambino va verso Masino ha avuto molto peso.

S.T. Un’ultima domanda: mettendo da parte le tue opere dichiaratamente di genere, come ad esempio i racconti Alessandro il grande vive e regna (Alia Italia - CS-libri) o Monemvasia (Fata Morgana 7 - CS-libri), l’aura fantastica ha spesso un posto anche nei tuoi racconti e romanzi più realistici: penso a certi brani di Irene a mosaico, per esempio. In Lei coltiva fiori bianchi  il fantastico è solo un aroma, dato forse dalle vite inventate da Gloria in viaggio e dal mistero della sparizione della vicina…

C.L. Irene a mosaico è certamente una delle mie cose più fantastiche in quanto il fantastico vi irrompe continuamente. Pensa alla casa che si ribella, o all’esplorazione delle cantine… In questo libro direi che il fantastico è del tutto assente, almeno a livello della mia coscienza. D’altra parte forse c’è proprio nel mio modo di scrivere qualcosa che tende al fantastico, o forse semplicemente al surreale. Ad esempio, molti hanno parlato di Ragazza brutta, ragazza bella come di un romanzo fantastico… mentre non c’è proprio niente di fantastico, nemmeno un piccolo fatto che devii dalla concreta realtà, ma c’è molto grottesco e molto surreale.



pubblicazione e-book on line: http://www.amazon.com/dp/B0077AWWY8

Questo post è pubblicato per gentile concessione del blog  librinuovi-out-of-print

venerdì 27 novembre 2009

Una fantastica scrittrice per un libro fantastico: Silvia Treves, Sarà ieri

Qualche nota in margine all'uscita del romanzo di Silvia Treves Sarà ieri, per i tipi delle edizioni CS_libri. La prima cosa da dire è: finalmente! Silvia è scrittrice troppo brava per restare negli steccati delle antologie e meritava da molto un "libro tutto per sé". L'espressione è logorata dall'uso ma mi pare adatta. Il libro è bello, leggetelo e basta. E' una storia fantastica, in tutti i sensi. Parla di una donna che vuole uscire di casa per conquistarsi una "stanza tutta per sé", uno studio in cui poter lavorare con tranquillità, lontana dalla quotidianità domestica. E lo trova, non in una villa fatiscente né in un condominio neogotico, ma in un normalissimo palazzo di città. Qui comincia la parte "fantastica". Senza sangue né orrore, senza magie, incantesimi, ectoplasmi o esseri maligni. I fantasmi ci sono, ma sono nella mente della protagonista e fino alla fine non potremo distinguere tra realtà e suggestione. La via attraverso la quale si manifestano è concreta, materiale, visibile a tutti eppure piena di inquietudini: oggetti abbandonati e raccolti, relitti di vite passate, abat-jour, foulard, tazze, poltrone... e qui si vede la maestria della scrittrice e anche, secondo me, la vera natura della letteratura fantastica, che se è autentica suscita brividi attraverso le parole, le sfumature, ciò che si intuisce più che ciò che si vede e si tocca. Silvia Treves prima ci immerge nell'atmosfera polverosa ma normalissima di un appartamento di città poi ci fa tremare il terreno sotto i piedi, ci scioglie le ginocchia, ci toglie il fiato per la buia insicurezza creata con tocchi impercettibili ma pieni di efficacia. Questo secondo me è fantastico per tutti, nel senso che anche quei lettori che davanti all'etichetta recalcitrano, storcono il naso, possono leggere Sarà ieri con la sicurezza di non incontrare baracconate vampiresche né fatucchiere new-age. Solo solida, genuina buona letteratura.

giovedì 12 giugno 2008

Chiacchierando con Silvia

A proposito di una conversazione molto stimolante che ho avuto con Silvia Treves nella sede della libreria CS a Torino. L'occasione era la presentazione del mio libro Lei coltiva fiori bianchi, pubblicato dalla CS_libri, e Silvia ha fatto del suo meglio (che è molto!) per indurmi a dare risposte sensate alle sue domande. Le risposte non contano, ma le domande hanno continuato a girarmi in testa e farmi riflettere. Mi hanno fatto prendere atto che io penso molto a quello che sto scrivendo, ma pochissimo a quello che ho scritto. E' come se una storia, una volta scritta, per me fosse in se stessa la risposta. Perciò posso sembrare reticente o obliqua, ma in realtà sono solo poco capace di astrazione, di concettualizzazione. Mi fermo al fatto. Comunque, importante è che Silvia mi ha chiesto delle cose che io non sapevo a proposito dei personaggi. Davvero, come è già successo con Silvia in altre occasioni e anche con altre persone con cui ho avuto colloqui a proposito dei miei libri, io non vedo molto dentro ai personaggi al di là di quello che ci ho messo. Infatti mi incuriosisce sempre molto sentire gli scrittori che parlano delle loro creature, e spesso mi stupisco di come sono sicuri – "*** è una così e cosà, °°° invece è molto cosà e così" anche a proposito di aspetti che non c'entrano con la vicenda, aspetti che implicano un'intimità con il personaggio invidiabile. Io non ci riesco, come non ci riesco con le persone che pure conosco bene. Mi ricordo che questo era un problema che mi si poneva spesso, quando avevo l'età in cui ci si pone questo tipo di problemi. Dicevo di un'amica, per esempio: lei è curiosa, va sempre a fondo nelle questioni. Come l'avevo detto, mi veniva un dubbio: ma davvero è curiosa? se l'ho vista curiosare una volta, questo vuol dire che è curiosa sempre? Ecc ecc, per fortuna che quell'età è passata e mi faccio meno trip. Però con i mei personaggi non posso proprio dire più di quello che c'è sulla pagina. Cioè, li vedo agire, in genere capisco i motivi delle loro azioni, ma non vado a fondo, non scavo troppo, per me agiscono nell'unico modo in cui possono agire in quanto sono quel personaggio in quel determinato contesto, non hanno alternativa. Ci ho pensato in questi giorni leggendo il romanzo di Ann Tyler Ragazza in un giardino (appena pubblicato da Guanda, ma l'edizione originale è del 1972). La protagonista, Elizabeth, è una di pochissime parole, capace di comportamenti abbastanza inaspettati, in apparenza anche un po' torpida, o comunque una che si tiene per sé i propri pensieri. Chissà, pensavo, che cosa c'è dietro la costruzione di questo personaggio. Chissà se la Tyler prima l'ha pensato, l'ha costruito, poi lo ha fatto agire secondo gli input iniziali. Oppure se (come avrei fatto io) ha costruito un ambiente e poi l'ha lasciato libero di muoversi, l'ha seguito, ha registrato le sue azioni. I romanzi della Tyler hanno sempre una naturalezza e un'apparente semplicità che non fa mai pensare a un eccesso di costruzione, ma of course questo non è un motivo perché siano semplici e naturali, anzi.
Be', questo è uno dei pensieri che la chiacchierata con Silvia mi ha suscitato. Ce ne sono altri, e ne riparlerò.

domenica 16 marzo 2008

Visto che tutti ne parlano male (dei premi)

Allora dirò anch'io la mia, in controtendenza. E tanto per non fare dell'autobiografia, comincio dalla mia esperienza. Quando ho cominciato a scrivere ero completamente isolata nel senso che i miei amici della scrittura se ne infischiavano se non nella fase finale, quando è pubblicata e si fa leggere. Per parecchi anni ho scritto in totale solitudine, senza confessare il mio vizio neanche al moroso o all'amica del cuore. Secondo me è stato molto utile perché ho sperimentato i miei limiti, e sicuramente mi è servito a trovare una voce, se ce l'ho, e a eliminare, almeno spero, molti dei borborigmi che scappano quando si produce con l'ansia di mettere fuori subito tutto. Comunque. E' poi arrivato il momento in cui mi è venuta voglia di farmi leggere da qualcuno e verificare l'effetto di quello che scrivevo. Ancora adesso un mio grosso problema è che riesco a giudicare, a prodotto finito, se ho realizzato quello che mi ero proposta, ma sono del tutto incapace di capire se piacerà agli altri. Insomma, a chi rivolgermi? Internet non c'era ancora, e probabilmente adesso sarebbe tutto diverso. I concorsi per me sono stati fondamentali. Primo, mi permettevano di farmi leggere senza vedere in faccia il lettore – fondamentale per una che non era ancora riuscita a superare la vergogna per il peccato di presunzione commesso scrivendo e la paura di scoprirsi troppo. Secondo, se le mie opere facevano schifo nessuno me lo veniva a dire risparmiandomi umiliazioni e ali tarpate. Terzo, mi hanno dato un sacco di soddisfazioni. Ne ho vinti parecchi, e ancora rimpiango quel periodo, in cui ogni tanto una telefonata o una lettera mi portavano una bella notizia. Un gioco d'azzardo senza rischi. Quarto, di lì è cominciata la mia "carriera", letteralmente. Uno dei premi che ho vinto consisteva nella pubblicazione del mio testo (un volume di 125 pagine) presso la casa editrice che lo organizzava, e anche se non l'hanno poi molto commercializzato, in compenso me ne hanno regalato quasi duecento copie che mi sono servite tantissimo come biglietto da visita. Poi una bravissima scrittrice che avevo conosciuto alla premiazione, Emilia Bersabea Cirillo, mi ha presentata prima a Filema e poi a Avagliano. E se non avessi pubblicato non avrei conosciuto Massimo Citi e Silvia Treves con tutti gli inenarrabili vantaggi e piaceri che questo incontro ha comportato. E nei vari premi ho conosciuto molte persone con cui sono rimasta in contatto, ci sono stati scambi, ho fatto delle cose, e a poco a poco mi hanno dato la sensazione di fare parte, di non essere più così isolata. Certo io non ero impaziente e l'iter è stato lungo (ma non poi così tanto), e non è che poi sia decollata granché, ma questo è un altro discorso che dipende da tutt'altro, principalmente dai miei limiti caratteriali. E limitatamente ai premi per esordienti, non credo che siano tutti così biechi come vengono dipinti, cioè normalizzatori, incapaci di osare, retrivi. A parte quelli che conosco per essere parte di giuria, quelli che ho frequentato da premiata mi sono sembrati onesti, più o meno qualificati culturalmente, ma onesti. Credo che sia molto diverso il discorso dei premi per libri pubblicati, dove entrano in campo gli interessi delle case editrici. Comunque non è nel merito del discorso generale che volevo entrare, ma solo portare la mia esperienza per spiegare il motivo per cui spezzo una lancia in favore di un'istituzione così universalemente considerata ridicola e patetica come il premio letterario. A me ha dato molto. E io nella scrittura ci credo, eccome.