Visualizzazione post con etichetta Elliott. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Elliott. Mostra tutti i post

giovedì 26 marzo 2015

Le ragazze e la difficoltà di crescere, con ironia: Margherita Giacobino, L'uovo fuori dal cavagno


Sulla copertina di questo libro, che preannuncia con geniale fedeltà quello che troveremo all’interno, metà del volto di una bellissima ragazzina sorride tra sé per qualche suo pensiero stupendo mentre dal retro l’altra metà ci guarda serena, e il titolo anticipa il tono di elegante ironia che permette a Margherita Giacobino di affrontare temi anche dolorosi senza mai farsi travolgere dal sentimento né dalla cupezza. 

Siamo in una Torino precisissima come topografia e atmosfera, a cavallo tra il secolo scorso e quello attuale. Le due protagoniste, Gioia e Debora, che non si conoscono, narrano le proprie vicende in prima persona a capitoli alterni, disegnando così due educazioni sentimentali – e non solo – parallele, poi tangenti e forse, noi lettori lo speriamo, coincidenti. O intrecciate. La giovane Gioia è l’uovo fuori dal cavagno del detto popolare: qualcosa di speciale. Speciale come te. Che al mondo non ce n’è un’altra, le dice la vecchia Cecca che si prende cura di lei quando la madre è al lavoro. Cresce ribelle alle convenzioni, orgogliosa della propria unicità. Quello che lei stessa definisce il mio avventuroso viaggio nel mondo dei diversi da me comincia nell’infanzia, alle scuole elementari dove si trova a verificare la verità della sua percezione […] non pensavo di essere diversa dagli altri. Ma mi rendevo conto che erano gli altri a essere diversi da me. Queste poche parole sono un esempio dell’understatement ironico quando non caustico di cui l’autrice è maestra. Gioia ha una precocissima coscienza di sé, sa che non vuole essere come le bambine della sua scuola, smorfiose col culetto fasciato dai pantacollant e scarsissimi segni di attività cerebrale, o ancora quelle piccole smorfiose sempre pronte a sedurre e a fare la spia. Però quelle smorfiose le piacciono: amavo le bambine, lo ammetto. Non era solo sesso. Mi coinvolgevo. Perdevo la testa, come tutti gli innamorati. Si capisce che un personaggio in grado di fare un’affermazione simile in prima elementare non può essere che straordinario, e infatti lo è. 

La sua divinità personale è la madre, Elisabetta, personaggio che assurge a dimensioni mitologiche nella sua affettuosa bruschezza, e dotato al massimo grado della capacità di non sprecare parole emettendo sentenze definitive di fantastica causticità. L’inciampo sulla strada di Gioia è Stefania detta Stef, grande amore dell’adolescenza che le spezza il cuore trasformandola in Dolores, il nome che si sceglie e non abbandonerà più. Stef è anche un personaggio di grande fascino, ambiguo, ambizioso e contradditorio, sfuggente e pasticcione, che determinerà alcuni degli snodi narrativi principali della vicenda. 

L’altra protagonista è Debora, sorella minore di Stef, abituata a difendersi da una madre ossessiva che ha puntato tutto sulla figlia maggiore, da una sorella senza scrupoli nell’appropriarsi di quello che le piace e da un padre sciagurato che però l’accetta com’è. Anche a Debora piacciono le bambine, ma la sua solidità di fondo le fa seguire una strada più lineare, cercando l’aiuto di donne uguali a lei, più esperte e sicure, che finiscono per rappresentare la sua vera famiglia. Con loro capisce che la diversità non esiste se non per chi si considera regola e misura della norma, e sperimenta finalmente l’amore con una donna tanto sognato in solitudine. 

Dolores, selvaggia e spericolata, ha davanti l’esempio negativo della zia Manu che vive corteggiando la morte, e sa procedere sul filo del rasoio senza farsi troppo male; l’incontro con Victoria Sereni, anziana scrittrice di sereno egoismo, una donna che ce l’ha fatta a vivere come voleva senza doversi abbassare a incarnare un cliché femminile, capace di capirla e darle sostegno, la conduce finalmente alla scoperta del proprio talento. Anche Debora, dopo aver cercato di aiutare la sua disastrata famiglia, si salva trovando la strada che le appartiene. E noi facciamo il tifo incondizionatamente per le due ragazze, perché dopo le tante peripezie che le hanno viste procedere fianco a fianco senza mai vedersi, riescano a girarsi per guardarsi negli occhi.

Oltre a essere divertente e profondo, L’uovo fuori dal cavagno ha una struttura molto sapiente. È un romanzo fatto di specchi, dove Dolores e Debora si muovono incomplete come le due mezze facce della copertina, le loro vicende speculari sono intessute di rimandi non solo per quel che riguarda i fatti, ma anche per i personaggi che si muovono nei rispettivi ambienti. Speculari le madri, che svolgono entrambe attività legate alla bocca: ma Elisabetta, la mamma buona, nel suo ristorante cucina per nutrire, la mamma cattiva di Debora è assistente alla poltrona di un dentista, e non c’è bisogno di commento. Speculari il padre solido e quello sciagurato, entrambi poco più che appendici delle madri; la sorella Stef seminatrice di guai e la zia Manu che i guai li cerca e li corteggia, Sylvette l’amica coetanea ma saggia di Dolores, sempre pronta a darle una mano, e Meri l’amica anziana di Debora, esperta e disincantata, anche lei sempre disponibile a offrire un porto sicuro nei momenti difficili. E la figura di Vic, in cui Margherita Giacobino rende omaggio a figure di scrittrici a lei molto care, pur campeggiando unica come se non avesse bisogno di specchiarsi in nessuno per essere completa, in realtà fa da contraltare perfetto alla vecchia, ignorante, affettuosa Cecca di quando Dolores era ancora Gioia.

Anche grazie a una scrittura controllata ma piccantina e piena di sorprese, alla fine della lettura di questo romanzo si rimane di buon umore e con un buon gusto in bocca come dopo un ricco gelato, senza controindicazioni per la salute. 
(Questa recensione è uscita nel 2010, anno di pubblicazione del romanzo, su LN-LibriNuovi).


giovedì 7 giugno 2012

Paul Torday, Pesca al salmone nello Yemen


Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Quest’aurea regola l’ho ripetuta fino alla nausea ai miei allievi nella mia vita precedente, quando facevo l’insegnante, ma evidentemente non l’ho interiorizzata a sufficienza. Ho letto una recensione su una rivista (tanto per non fare nomi, su D di Repubblica, dove ho già preso notevoli bidoni nello stesso campo e per mano dello stesso giornalista) che mi ha incuriosita, e al Salone del Libro, tanto per non sentirmi in colpa che non compro più cartaceo, ho acquistato il libro in questione allo stand di Elliott, se ricordo bene, con un paio di euro di sconto: rimangono però pur sempre 14 euri buttati nel cesso. Si chiama Pesca al salmone nello Yemen, lo ha scritto Paul Torday, lo ha pubblicato Elliott, lo ha tradotto (benissimo) Annamaria Raffo, ha 253 pagine e costa € 16,50. Adesso che lo conoscete, evitatelo. 

È un libro totalmente inutile, e noiosissimo. La sua unica funzione potrebbe essere quella di spaventare i bambini facendogli vedere i guai prodotti dalle nuove tecnologie. Infatti usa l’astutissimo, e nuovissimo (sto facendo dell’ironia per tenere compagnia all’autore) espediente di metterci al corrente della trama attraverso un fitto scambio di email tra i personaggi. Più brani di diario, di un’autobiografia non pubblicata, interviste e interrogatori. Nooo! direte voi. Com’è avanti Paul Torday! Va be’. 

La storia è questa: uno sceicco yemenita straricco e idealista (?) vuole importare dei salmoni dall’Inghilterra in Yemen, per fare diventare la pesca uno sport locale. Henriette, una bella signorina che lavora per lui, contatta Alfred che fa l’ittiologo all’Ente Nazionale per la Tutela e lo Sviluppo del Patrimonio Ittico. Lui, che ha problemi matrimoniali (ma questo non c’entra), non vorrebbe, ma il suo capo riceve pressioni politiche e lo costringe. Henriette sta per sposarsi con un militare che viene spedito improvvisamente in Iraq. Il portavoce del Primo Ministro concepisce l’astuto piano di sfruttare il progetto per migliorare l’immagine della Gran Bretagna in Medio Oriente. Il Primo Ministro si fa sedurre dall’idea. L’ittiologo fa un progetto, lo sceicco paga, la stampa commenta, Henriette trema per il fidanzato che non dà notizie, la moglie dell’ittiologo si trasferisce in Svizzera, in Yemen si lavora duro per realizzare il progetto che presenta difficoltà sovrumane. Progetto realizzato. Tutti nello Yemen, Primo Ministro compreso, per l’inaugurazione. E qui mi fermo perché se per caso qualcuno vuol farsi del male, non voglio rovinargli la sorpresa. 

Ma mi piacerebbe dire due paroline a Torday per il suo finale che mi ha fatto ancora salire il nervoso: si sente molto spiritoso per avere creato aspettative che si spengono come micce bagnate? Il tutto raccontato con la vivacità di un salmone affumicato e condito di luoghi comuni così comuni da diventare esclusivi di chi, come scrittore, dovrebbe avere almeno un po’ di pudore. Ho sbadigliato dalla prima pagina all’ultima e mi sono costretta a arrivare alla fine come punizione per la mia stupidità a aver dato retta a D. No, in realtà c’è una pagina che mi ha fatto ridere in questo libro: la quarta di copertina, che strilla: […] lo strepitoso romanzo d’esordio di Paul Torday, il miglior narratore inglese d’oggi. Non nomino l’autore della citazione, né il giornale da cui è tratta, perché tanto l’avete già capito. Ma mi faccia il piacere!