Essere in viaggio non facilita la scrittura del blog perché il tempo è poco e non sempre coincide con un collegamento wifi, ma si leggono lo stesso cose bellissime di cui viene voglia di parlare (anche boiate, ma questo è un altro discorso). Sono stata un paio di giorni a Argirocastro, in Albania, città gradevolissima e patria di Ismail Kadarè, scrittore che amo, ne ho visitato la casa e questo mi ha stimolato a cercare Chronicle in stone, libro dedicato alla sua città e alla sua infanzia. Non sono riuscita a trovare una traduzione in italiano e ho letto quella in inglese, ma appena sarò a casa cercherò meglio. Non riesco a credere che non sia mai stato tradotto.
(E infatti, appena tornata in patria, l'amico Ettore Dovio mi ha segnalato l'edizione Tea 2009, titolo La città di pietra, traduzione di Francesco Bruno).
Chronicle in stone ė un libro magnifico, che ricostrusce la vita ad Argirocastro dalla metà degli anni trenta del ‘900 alla fine della guerra. Allora sotto il dominio degli italiani (visti come pessimi, ma caratterizzati dalla cura nel vestirsi - i bottoni lucidi dei soldati - e una ridicola vanità personale - l’odore di brillantina che ne annuncia l’arrivo, oltre che per avere introdotto in città l’inaudita novità di un bordello), sperimenta ben presto l’orrore della guerra cambiando continuamente occupante quando greci e tedeschi se la passano di mano ogni poche ore. Gli inglesi si fanno conoscere perché, al posto dei pascoli nella valle, costruiscono una pista per aerei. Gli aerei, appunto: grande novità, grandissimo amore e passione di occhi e cervello per il piccolo protagonista, lo stesso autore che narra ciò che ha vissuto in prima persona.
Ma intorno non c’è solo guerra e minaccia, la città ferve di vita e i personaggi, all’interno e fuori della famiglia, sono numerosissimi. Il nonno, le nonne, le zie, le amiche di casa - le donne sono moltissime e fondamentali, sia quelle che girano portando notizie che quelle che si parlano gridando da una finestra all’altra, praticano la magia e altre arti esclusivamente femminili - e poi gli amici con cui commentare e cercare di interpretare il mondo degli adulti, e i tipi più o meno strani che circolano per le vie, e ognuno è portatore di una storia diversa. E la città stessa, l’antica città di pietra con le grandi case costruite sulle cisterne che possono nascondere terribili misteri, con i tetti di pietra che luccicano al sole, e l’antica cittadella che sovrasta dall’alto... Poi tutto precipita, l’avvicendarsi degli occupanti si intreccia alla nascita della resistenza e alle diverse posizioni politiche, alle rappresaglie, i continui bombardamenti diventano parte della routine quotidiana, la guerra semina sangue e tradimenti, le persone, anche le più vicine, cambiano, con l’occupazione nazista si realizza un’antica profezia - la città finirà quando sarà invasa da nemici con i capelli gialli -, c’è lo sfollamento, e quella che sicuramente finisce è l’infanzia del protagonista.
Ora, posso testimoniare che la città esiste ancora ed è molto bella. Vale la pena di andarci e di passarvi qualche giorno. Io ci sono stata due volte, ho visitato alcune delle grandi case sopravvissute alle vicende storiche del secolo passato, in cui Argirocastro ha avuto un destino alterno avendo dato i natali, oltre che a Ismail Kadarè, anche a Enver Hoxha. La casa di Kadarè è stata ricostruita dopo un incendio che l’ha distrutta nel 1999, quella di Hoxha è stata trasformata in museo etnografico. Vi sono ottimi alberghi e ristoranti, un centro vivacemente commerciale, una vasta parte nuova, la cittadella è molto interessante da visitare. Certo conoscere la città aiuta, ma ovviamente questo libro, scritto in una prosa vivace e semplice, priva sia di retorica che di pesantezze stilistiche, spesso ironica, e corredato di veloci pagine di notizie tipo titoli di giornale che contestualizzano gli eventi, avvince, interessa, incuriosisce a prescindere. E spero che faccia venire la voglia, a chi lo legge, di visitare la bella città cui è dedicato.
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lunedì 6 agosto 2018
martedì 28 novembre 2017
L'Italia come non l'avete mai vista: Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia
Elvis Malaj con Marco Lazzarotto alla libreria Pantaleon di Torino, 23/11/17 |
Felice perché i dodici racconti che lo compongono sono belli, interessanti, ben scritti e originali. Elvis Malaj è giovane e scrive come è giusto che faccia un giovane, ma è felicemente libero dai vezzi che rendono insopportabili, a mio gusto, tanti libri generazionali: niente impronta da scuola di scrittura, per me il peggiore tra i tanti difetti. Si sente che Malaj ha cercato la sua voce e l'ha trovata, ed è una voce forte, personalissima, che spero verrà confermata nelle prossime uscite. E' anche molto ironica e allo stesso tempo mite, attenta ai minimi dettagli, e riesce a risultare divertente anche nel raccontare minimalia.
Importante perché l'autore, che ascoltato dal vivo appare molto lucido e intelligente, riesce a imbastire storie brevissime che ci danno un quadro della vita di un ragazzo albanese (l'essere albanese è al centro di tutti tutti i racconti) alle prese con le difficoltà, gli aspetti buffi, le stranezze, i luoghi comuni e anche i pregiudizi che condizionano i rapporti con gli altri. E soprattutto le altre, le ragazze, universo amichevole e bizzarro con cui confrontarsi continuamente. Non ci sono lamentele né pietismi né rivendicazioni orgogliose, ma attraverso l'autoironia e la velocità di scrittura si rispecchia acutamente la società italiana, nei suoi difetti ma anche nei suoi pregi. Elvis Malaj ha l'occhio tollerante di chi, più che giustamente, non ha complessi d'inferiorità e capisce benissimo con chi ha a che fare.
I racconti sono ambientati in buona parte a Belluno dove l'autore, che ora risiede a Padova, ha trascorso alcuni anni, ma qualcuno anche in Albania. In Vorrei essere albanese, il cui incipit è davvero magistrale, il protagonista Marenglen (acronimo di Marx, Engels e Lenin) deve destreggiarsi con una banda di ragazzini ubriachi e razzisti, ma ha un asso nella manica: quando dovevo minacciare qualcuno non dicevo "chiamo i miei cugini albanesi", dicevo "chiamo la mia ragazza italiana". Da cui peraltro, alla fine riceve una lezioncina del tutto inaspettata. La vergine Maria tratta della controversa iniziazione sessuale di due adolescenti, mentre Il televisore è una doppia vicenda di abbandoni e ritrovamenti, tra Bakshim, un vecchio apparecchio televisivo fuori uso e la sua ragazza Maddalena, sul cui sfondo si intravede la gerarchia degli esclusi che mette in campo albanesi, romeni, marocchini e neri. L'incidente è quello che interrompe la prima cena tra Gjokë e Selvi, la ragazza di cui è sempre stato innamorato, risolvendo un equivoco. Scarpe, dedicato alla mia Albania e ambientato a Bajzë, paese di origine dell'autore, è la storia apparentemente farsesca e boccaccesca di Dedë, cameriere e puttaniere, delle sue scarpe, di un cane e di una ragazzina che va a scuola con la scarpe prestate dalla sorella, ma in controluce fa intuire una miseria che non è solo materiale. La nuova classe, il più tragico, laconico e bellissimo nella sua nervosa velocità, mette in scena l'ansia e lo spaesamenteo di un ragazzo diviso tra la difficoltà di inseririsi in un ambiente nuovo e la vita che preme tutt'intorno. L'uomo con la cravatta con un motivo a fiori forse è salvato da un colloquio ascoltato sull'autobus tra un'infermiera e una sua amica, mentre La Carriola, di nuovo di ambiente albanese, è la scabra rappresentazione di una solitudine infantile estrema. Straordinariamente complessa è la vicenda di Agron e Silvia, protagonisti di A pritni miq, due vitalissimi scriteriati che dopo essere fuggiti insieme per vivere un amore osteggiato dalla famiglia di lei, italiana quindicenne, sperimentano la potenza delle tradizioni albanesi in terra straniera sia nel bene che nel male, si amano, bisticciano e si rappacificano con dialoghi di esilarante semplicità e follia. Il lupo della steppa è ancora una conversazione casuale in treno tra Çoban, scrittore, e un signore pieno di buone intenzioni e di luoghi comuni, mentre Mrika non riesce a godersi le vacanze estive a Durrës. Morte di un personaggio è forse il mio preferito, e leggendolo si scopre il significato del geniale titolo del libro. Kastriot, il protagonista scrittore, per fare contenta sua madre si lancia in un'impresa azzardata e pericolosa, fa un incontro sorprendente con Veronica, il tutto mentre nella sua testa si agita la trama del romanzo che sta scrivendo. Le scene e i dialoghi che scandiscono gli incontri tra Kastriot e Veronica sono veramente straordinari, senza una sbavatura rendono plausibile l'assurdo acchiappando il lettore nelle loro spire.
Elvis Malaj è veramente maestro nel narrare rovesciamenti fulminanti in pochissime parole, nel taglio della scena e della vicenda: senza mai seguire la stucchevole deriva carveriana, ma dimostrandosi semplicemente maestro nel saper chiudere al momento giusto. E mi ha fatto piacere scoprire che sono passata da Bajzë, il suo paese d'origine. Se fossi stata meno frettolosa, se mi fossi guardata meglio intorno, forse avrei incontrato qualche abitante del luogo che parlava italiano, disposto a intrecciare con me una delle meravigliose conversazioni che Elvis Malaj mette in bocca ai suoi personaggi.
P.S. Alla presentazione si è parlato anche dell'orrore, stile aglio per i vampiri, che suscitano i racconti negli editori. So di ripetermi (e non me ne frega niente) in quanto appassionata di racconti sia come scrittrice che come lettrice. Ma non mi ero mai fermata a riflettere sul fatto che ormai si utilizzano eufemismi per la parola racconti, come se fosse un termine osceno. E' stata citata una quarta di copertina in cui si parlava di storie, ma naturalmente la scelta più sicura è short stories. Con quella si fa una doppia carambola e i racconti diventano quasi appetibili, visto che si può parlarne anche nella lingua ufficiale dell'Impero.
mercoledì 8 gennaio 2014
Suggerimenti per una vacanza interessante, gradevole, economica, istruttiva e chi più ne ha più ne metta.
Questo post mi serve per fare un esperimento: ho
notato che certe parole nei titoli fanno crollare le letture, e quindi ho
evitato di utilizzare il nome del paese di cui si parla, che appare solo
qualche riga più in basso.
Quest’estate sono stata in Albania, e la maggiore difficoltà che ho incontrato è la mancanza di una guida affidabile. Ne avevamo una, di Gillian Gloyer, ma era assolutamente incompleta e sovente imprecisa. A onor del vero devo confessare che, avendola comprata su internet, ci è arrivata in spagnolo e può essere che un po’ della precisione sia sparita passando attraverso troppe lingue. Comunque, l’unica cosa che ho trovato a Torino è questo libro, Hotel Albania. Viaggi, emigrazione, turismo che si è rivelato una lettura preziosa oltre che molto interessante. Francesco Vietti, l’autore, è dottore di ricerca in antropologia culturale, ha compiuto ricerche sul campo nei Balcani e nei paesi dell’ex Unione Sovietica, e si è occupato in particolare delle badanti provenienti dalla Moldavia. In questo libro affronta l’intreccio tra l’emigrazione e il turismo in Albania, e nelle sue pagine ho trovato molte informazioni e osservazioni che hanno completato e illuminato il mio viaggio.
Prima di tutto la consistenza e la natura dell’immigrazione albanese in Italia, ancora pesantemente condizionata nell’immaginario mediatico e individuale dai grandi sbarchi degli anni ’90, a cominciare dalla Vlora (agosto ’91) con i suoi ventimila maschi disperati. Ora tutto è cambiato e l’emigrazione albanese in Italia è caratterizzata dalla presenza di nuclei familiari ben inseriti, ben distribuiti e sufficientemente benestanti da dare origine a un fiorente turismo di ritorno, con tutte le conseguenze che questo comporta. L’Albania ha una superficie modesta, 28 mila chilometri quadrati, poco di Piemonte e Liguria,e una popolazione di 3 milioni 6000mila abitanti, meno degli abitanti del Piemonte; negli ultimi vent’anni (tra il 1991 e il 2011) è emigrato oltre un milione di cittadini, pari al 25 per cento della popolazione (romeni e marocchini all’estero si fermano a circa il dieci per cento della popolazione complessiva). Oltre all’ondata di sbarchi sulla costa pugliese dell’estate 1991 in corrispondenza al crollo del regime comunista, un picco di migrazione si registra nel 1997, in seguito al crollo delle “piramidi finanziarie” che portarono alla rovina tanti cittadini che vi avevano investito tutto, e a un’ondata di violenze e distruzioni le cui conseguenze si vedono ancora adesso. “A vent’anni dai primi arrivi, nonostante i meccanismi di stigmatizzazione e di esclusione messi in atto dalla società italiana per almeno un decennio, l’immigrazione albanese in Italia può essere definita per molti aspetti una “migrazione riuscita” […] sono oggi il gruppo più numeroso di stranieri non-comunitari residenti in Italia, con oltre 482 mila presenze, secondi in assoluto solo ai romeni(ISTAT, 2010). Tra il 1994 e il 2009 la percentuale di donne è salita da poco più del 20 per cento al 45 per cento del totale, così come la percentuale di uomini sposati è salita dal 22 al 47 per cento, e quella degli uomini con figli dal 7 al oltre il 20 per cento. 92000 gli studenti di origine albanese nell’anno scolastico 2008-2009, con una grande uniformità di diffusione sul territorio nazionale. Ora, dopo quindici anni, in realtà è il turismo, di ritorno e delle aree circostanti, Kosovo, Montenegro, Bosnia e Macedonia, oltre che il grande flusso delle rimesse di chi lavora all’estero, che ha cambiato totalmente l’aspetto del paese, in particolare le coste.
Oltre a ricostruire la storia dei viaggi in Albania nel tempo ottomano (dove spicca Edward Lear, proprio quello dei limerick, che la visitò intorno al 1850 lasciando bellissime illustrazioni di città, bazar e persone), i complessi rapporti con l’Italia e il fascismo, le strutture e i flussi del turismo nell’epoca comunista, Francesco Vietti si sofferma su due interessantissimi “casi”: un viaggio compiuto insieme a un gruppo di ragazzi di origine albanese residenti a Torino, alcuni nati in Italia altri giunti da pochi anni, e quello del villaggio di Ksamil, nel sud del paese. Entrambi sono estremamente significativi. L’itinerario dei ragazzi era più meno lo stesso che ho seguito io, e mi ha molto divertito trovare conferma a abitudini notate in loco, come il xhiro, cioè il giro, struscio serale molto importante per residenti e turisti di ritorno.
Infine due parole sul viaggio. Quando quest’estate mi chiedevano dove sarei andata e quando rispondevo “In Albania”, la reazione era invariabilmente un silenzio imbarazzato. Al ritorno, la domanda era solo: “Ti è piaciuta? È bella?”. Un vero peccato, ma bisogna ammetterlo: in Italia, l’Albania rievoca l’idea di delinquenti, prostituzione, furti, insomma un classico “Mamma li albanesi”. Non è così evidentemente per tutti, perché abbiamo incontrato parecchi turisti di altri paesi europei, oltre ai tantissimi turisti di ritorno. E non dirò se è bella, o se mi è piaciuta. Dirò che è un viaggio che vale assolutamente la pena di fare, che ci sono posti bellissimi come l’Occhio Azzurro, Gjirokaster o Berat, Butrinto, Bylis, città gradevolissime come Scutari, Durazzo, Körce, e vere sorprese come Tirana, laghi struggenti e fortezze magnifiche, gente che guida come pazzi furiosi, strade orrende e pericolose, ottima cucina (italiana), alberghi di tutti i tipi, alcuni davvero di gran livello e tutti molto dignitosi, gente gentilissima e pronta a aiutare, indicazioni stradali carenti e nessuna informazione turistica, impossibilità di avere notizie sulle strade, prezzi ottimi, acqua di mare fantastica, birra a fiumi, bar, birrerie e caffè strapieni e allegri, ecc ecc.
Soprattutto, un paese pieno di storia e storie a due passi da noi, che sarebbe una vera vergogna trascurare perché gli ultimi contorcimenti della storia lo hanno trasformato in un mistero e in uno spauracchio. Dove tornerò di sicuro perché ci sono posti che non ho ancora visto e voglio vedere assolutamente. Forse è meglio evitare luglio e agosto se volete andare sulla costa, credo che sia veramente affollata. A settembre, una spiaggia del sud si presentava così.
Anilda Ibrahimi, Non c'è dolcezza
oppure Rosso come una sposa.
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sabato 2 marzo 2013
Le mille sfumature dell'identità di genere: il mistero delle vergini giurate albanesi
Questa doppia recensione è già uscita (a suo tempo anche su LN-LibriNuovi), ma la ripubblico perché tratta un argomento che mi affascina, le vergini giurate, perché è in uscita un film italiano tratto proprio dal modesto romanzo di Elvira Dones con Alba Rohrwacher nel ruolo della protagonista e perché riguarda l'Albania, paese interessante e sconosciuto ai più di cui mi fa sempre piacere occuparmi.
Leggendo
gli interessantissimi saggi antropologici ed etnografici raccolti nel volume Altri
generi, a cura di Flora Bisogno e Francesco Ronzoni, Il dito e la luna 2007, mi si sono spalancate davanti realtà che non conoscevo neanche per
sentito dire, e mi hanno fatto venire voglia di saperne di più su un argomento,
l’identità di genere, che mi sembra fondamentale perché alla base della
percezione di sé della stragrande maggioranza dell’umanità. Ma maggioranza non
è totalità, quindi può solo fare del bene a tutti scoprire che in India
prospera un’intera casta di eunuchi sacri (Hijra), nelle tribù degli indiani
d’America esistevano uomini che sceglievano un’identità femminile (i berdache),
che a Samoa il travestitismo maschile è in forte aumento per motivi sociali,
che nelle Filippine sono seguitissimi i concorsi di bellezza maschili en
travesti, e ancora l’intreccio inestricabile delle identità di genere a
Salvador, Brasile, e infine quello che mi ha incuriosito più di tutto, il
fenomeno delle vergini giurate, donne che assumevano un’identità maschile nelle
montagne dell’Albania settentrionale. I vari saggi, di studiosi diversi e di
taglio più o meno accademico ma comunque estremamente documentati e autorevoli,
ruotano intorno al concetto di “terzo genere”, per superare l’ipotesi di un
unico sistema dualistico. Però per un lettore profano hanno il fascino
indiscutibile di racconti di vite sconosciute e piene di interesse.
Ecco
perché mi aspettavo molto dal romanzo Vergine giurata, Feltrinelli 2007, di Elvira Dones, scrittrice albanese che
vive tra la Svizzera e gli Stati Uniti, sceneggiatrice e autrice di
documentari, che ha pubblicato quattro libri scritti in italiano, che sostanzialmente mi ha parecchio delusa. E se la parte
in cui la trentaseienne protagonista Hana rivive in flashback la sua gioventù e
le motivazioni che l’hanno spinta a farsi vergine giurata è abbastanza
suggestiva e convincente, il suo presente (ai giorni nostri) di immigrata negli
Stati Uniti è piattamente sottoposto alla necessità di spiegare il suo
adattamento alla nuova situazione, utilizzando nodi narrativi che a volte
sfiorano il grottesco (vedi la deflorazione ginecologica), o che comunque
risultano noiosi, o inverosimili come il finale melenso e scontato. Comunque, è
un romanzo agile che può essere utile per avvicinarsi a un aspetto di
una cultura che ci è vicina geograficamente ma di cui, confessiamolo senza
timore, non sappiamo e forse non vogliamo sapere niente.
giovedì 21 febbraio 2013
L'albania delle donne, l'Albania delle madri: Anilda Ibrahimi, Non c'è dolcezza.
Continuando
la marcia di avvicinamento all’Albania, ho letto Non c’è dolcezza di Anilda Ibrahimi, di cui mi era piaciuto molto
il fresco Rosso come una sposa e
molto, molto meno L’amore e gli stracci
del tempo. Neanche Non c’è dolcezza
mi ha convinta granché. C’è una storia anche troppo melodrammatica ma poco
chiara, in certi punti tirata via in scene troppo sintetiche e superficiali.
Forse una vicenda simile, che sbocca in tragedia per poi tornare sui propri
passi, avrebbe bisogno di un passo antico, un tono da romanzo ottocentesco, e
anche di una costruzione psicologica più solida. Così com’è non acchiappa, non
emoziona malgrado sia del genere che sulle emozioni fa continuamente leva, tra
maternità e allattamenti, segreti letteralmente sepolti e segreti svelati.
Anilda Ibrahimi scrive molto bene, è capace di raccontare benissimo un mondo a
metà tra arcaismi e modernità, ma sembra sempre sul limite, come se non volesse
essere troppo legata a quella Albania semplice e contadina cui le sue storie
riportano. Inoltre penso che non giovi la scelta della narrazione al
presente, che diluisce l’aspetto narrativo in una serie di scene staccate e
toglie peso e profondità all’aspetto accattivante dell’ambientazione lontana nel tempo e
nello spazio. In un villaggio in riva al mare che possiamo immaginare dalla
parti della sua natia Valona, due ragazze, Lila di famiglia benestante e Eleni
figlia di un pastore, stringono un’amicizia strettissima sulla base dell’amore
condiviso per Andrea, un ragazzo bellissimo che non le guarda neppure.
Crescendo la vita le divide, Lila sposa il fratello di Andrea e vive nella
capitale, Eleni rimane al villaggio aspettando chissà che. Quando il suo
destino si presenta, è molto più crudele di quello che potrebbe sembrare, e
ritorna a intrecciarsi indissolubilmente con quello di Lila. Protagonista è il
bambino Arlind, la cui nascita è un insormontabile ostacolo tra le due amiche. E
qui mi fermo perché il plot è articolato e rivelare gli snodi narrativi sarebbe
una cattiveria. Intanto intorno il mondo cambia, il regime comunista che ha
retto l’Albania dal 1946 al 1990 crolla portando con sé le vite di molti,
niente rimane uguale a come lo conoscevano i personaggi del romanzo, e questa è
la parte più affascinante su cui mi sarebbe piaciuto che Anilda Ibrahimi si
soffermasse di più. Però forse non può lasciarsi andare ai ricordi, alla
nostalgie dell’infanzia, per lo stigma obbligatorio che ogni regime comunista
ormai si porta con sé. Mi ha molto interessato il rapporto tra i contadini e i
gitani, di grande simpatia e affinità, anche una certa ammirazione da parte
degli abitanti del villaggio per i quali l’arrivo annuale dei gitani era una
grande festa. Questa armonia crolla dopo il 1990 come altre sicurezze, e i
gitani ne subiscono amarissime conseguenze.
Un
romanzo che mi ha lasciata un po’ insoddisfatta, ma che sicuramente piacerà a
chi cerca una narrazione moderatamente esotica, molto di pancia, molto di
donne, molto leggibile, di superficie, veloce, leggera malgrado la drammaticità delle vicende.
Magari sono io che non l’ho saputa apprezzare.
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