martedì 20 aprile 2021

Intanto, a Bolzaretto Superiore... Danda, un racconto breve

Mi piaceva tanto andare a trovare la zia Tera a Bolzaretto Superiore perché da lei c'era Danda.

Vecchia era vecchia, e neanche bella da vedere. La cosa che colpiva più in lei erano i denti finti, bianchi e tanti e troppo regolari. Si muovevano quando lei parlava, all'inizio catturavano tutta l'attenzione. Io li guardavo affascinata aspettandomi che cadessero tutti insieme dietro le labbra pallide e Danda se li inghiottisse, plop, in un boccone. Ma poi si dimenticavano ascoltando Danda e le sue storie.

Certe erano storie da ridere.

"C'era una mia amica che aveva un figlio che usciva sempre, le diceva 'Ciau mama, vadu a piè d'aria'. Una sera le ha detto: 'Mama, doman am mario'. 'E chi at marie?' 'Am mario Daria, mama.'"

E rideva, contenta, con tutti i suoi trentadue denti di porcellana. A me questo figlio, questa madre, questa Daria mi facevano sognare per giorni. Però preferivo le storie tristi.   

"C'era una mia amica che si chiamava Maria. Diceva sempre: 'Ah, son bel e stufia.' Stufia di che? 'D'esi bela e balè bin.' E com'è finita? Normale, la bela Maria tuti la veulo e niun la pia."

Oh quella povera Maria piena di innamorati, finita sola e stanca di ballare ed essere bella!  Avrei voluto consolarla e portarla con me al cinema.

La casa di zia Tera era di quelle chiuse e compatte verso la strada, ma poi dentro c'era un cortile acciottolato e un giardinetto di piante da frutta e rose, dalie, gigli, zinnie, fiori modesti e colorati. In primavera una topia di glicine si copriva di grappoli profumati e nuvole di vespe e calabroni, in autunno la vite americana che correva lungo il poggiolo esibiva grappoli neri e scompigliati.

A Danda non piaceva l'uva americana, e nemmeno a me.

"Dimmi te se quel brav'uomo non poteva piantare della bella uva regina! che mi piace tanto! No, l'uva fragola, che nessuno mangia e resta lì a marcire, al massimo va bene a conservarla per Natale e far figura. Tuti sgnor, e se ci tocca comprare l'uva non importa a nessuno."

Quel brav'uomo era il suocero di zia Tera, morto da almeno vent'anni. Danda era stata la balia dello zio Gigi, marito di zia Tera, poi cameriera o come diceva lei serventa, e da quando era così vecchia che non riusciva più nemmeno a camminare dritta abitava in una stanza nel cortile col cesso sotto la scala che portava al primo piano, l'acqua della pompa e la cucina economica per farsi un brodino e il caffè la mattina. Tutto il resto glielo portava zia Tera dalla sua cucina.

"Mangia come un caporale, quella lì" diceva la zia.

"Giusto un boccone di carne la domenica e un po' di cavolo lesso per andare di corpo" ribatteva Danda.

Stavano sempre a pitoccarsi come due galline. Io tenevo per Danda, naturalmente.

Vittorio e Carletto, i miei cugini, dicevano che quelle due erano come fidanzati, sempre a bisticciare e cercarsi tutto il giorno.

"Mamma Toni me toca, tocame Toni che mamma non vede" diceva Vittorio. 

A me Danda piaceva perché mi dava sempre retta. Mai che mi dicesse 'vai a giocare che mi stai tra i piedi', mai che leggesse il giornale o avesse mal di testa. Mi trattava come un grande, mi chiedeva come stavo, che cosa avevo fatto. Mi offriva acqua e zucchero o acqua e vino in cui bagnare certi biscottini al finocchio duri come sassi. Si grattava in testa con un ferro da calza e mi guardava con i suoi occhi scoloriti:

"Allora, cosa succede a Torino?"

"E' arrivata la primavera, in tutti i viali ci sono gli ippocastani fioriti."

"Ti sembra una gran novità? Qui la primavera è arrivata da due mesi."

Guardavo il bicchiere pieno di violette davanti alla foto di suo marito Bastiano e mi sentivo mortificata.

"Sono andata al cinema a vedere 'Via col vento'. Ho pianto tanto."

"C'è bisogno di andare al cinema a vedere tutti quei balenghi che si baciano e poi si prendono a schiaffi e si strozzano? Se ti piace piangere ti racconto di quando a sedici anni andavo a fare la mondina a Vercelli, tutta sola e fresca come una pasta di meliga uscita dal forno."

"Contami."

Probabilmente ai miei genitori non sarebbe piaciuto quello che mi contava Danda. Io non capivo proprio tutto, ma non ne avevo mai abbastanza.

"Dimmi ancora di tua figlia Celestina."

"Riposi in pace, povera anima. Era così bella nella sua bara piena di gigli bianchi."

Quella era una storia che non mi stancava mai. Celestina era morta a sette anni per avere mangiato troppi darmassin con i noccioli. Le era venuta la diarrea, poi aveva vomitato sangue e noccioli, poi era morta, così, senza fiatare.

Ma la specialità di Danda era leggere il futuro nei tarocchi e nei fondi di caffè. Che disponesse le carte molto vissute sul tavolo coperto da una tovaglia rossa o versasse la tazza sul piattino di terraglia bianca, la sua faccia assumeva un'espressione concentrata, le rughe si disponevano secondo una planimetria arcana, gli occhi perdevano l'acquosità, la bocca si stringeva in un filo bianco di concentrazione.

"Ben, ben, che cosa vedo qua? Sei ben fortunata te. Le anime ti proteggono."

"Che anime, Danda?"

"Le anime buonanima. Non fare domande finché non te lo dico io. Ciai una donna bionda che ti vuole bene. Tre lettere il mese prossimo. Ti piace cantare? Perché c'è qualcosa che va bene sulla voce, sulla gola, non vedo bene. Magari diventi una grande cantante."

Una cantante! Proprio quello che desideravo di più al mondo. Però Danda mi smontava subito.

"Oppure vuol dire che quest'inverno non ti viene mal di gola. E di intestino, come vai?"

"Ma, mi pare bene."

"Infatti c'è una carta positiva sulla pancia. Fai attenzione ai cavalli, non passare mai dietro a un cavallo o a un asino. Vedo dei calci."

Io invece non avevo mai visto un cavallo da vicino.

"Vedi questa macchia qui? Son soldi. Ti arriveranno un sacco di soldi."

Chi se ne fregava dei soldi! Io volevo diventare una cantante rock.

E poi, sapeva storie belle di masche e diavoli scatenati.

"Mia zia che era suora, una notte si è svegliata che nel letto c'era qualcuno, gelato, ma gelato che neanche un morto di tre giorni. Lei ha sporto la mano, l'ha toccato un po' e ha capito che era il diavolo. Tre giaculatorie, tre segni di croce e psss! Quello è sparito lasciandosi dietro una puzza di zolfo da far venire la tosse."

"Ma davvero davvero, Danda?"

"Eh se ti dico che mia zia era suora! Le suore mica dicono le bugie."

Quando raccontai del diavolo nel letto ai miei genitori, prima risero talmente che gli andò la saliva per traverso, poi mi sgridarono come se avessi detto qualcosa di sconveniente e mi proibirono di passare tanto tempo con Danda. Per fortuna se ne dimenticarono subito.

"Se di notte un cane ti abbaia o una capra ti corre dietro, soprattutto su un ponte che sono pericolosissimi, devi tirargli delle pietre mirando alle gambe. Il giorno dopo, se vedi una donna che zoppica, saprai che è una masca."

Non avevo mai sentito di nessuno che fosse stato inseguito da una capra, né di giorno né di notte, ma dei cani sconosciuti avevo una gran paura. Non ero sicura che avrei avuto il coraggio di fermarmi per tirare pietre, pensavo piuttosto che sarei scappata più presto che potevo.

"Non devi mai scappare! Se scappi ti acchiappano, c'è niente da fare. Le masche corrono più del vento, son furbe loro, sanno la fisica. Se ti vedono impaurita aam! Ti mangiano in un boccone."

Deliziosi brividi di paura mi correvano per la schiena, guardavo con sospetto negli angoli bui dietro la stufa.

"Qui sei sicura, stai tranquilla. Ha ancora da nascere il satanasso che la possa fare a Danda! Dai, bevi un po' di acqua e vino che ti fa venire grande."

 

Poi la zia Tera venne a vivere in città e Danda rimase a fare la guardia alla casa. Io le mandavo i saluti dai cugini, qualche cartolina dal mare. Un paio di volte, d'estate, tornai al paese e rimasi nell'odore di chiuso della cucina ad ascoltare storie. Danda era sempre più vecchia, anche se pareva impossibile. Le gonfiavano le gambe, certe volte si addormentava proprio in mezzo a una frase, ma era lucida, mica rimbambita.

Infine morì. Vittorio mi portò una scatola di latta, di quelle per la cotognata, con un'etichetta scritta a mano che portava il mio nome, nome e cognome, senza possibilità d'equivoco.

"Ha detto che ti voleva lasciare questo perché sei sempre stata ad ascoltarla."

Dentro c'era un anello del tipo che portano gli uomini in campagna, in una lega povera con una pietra finta, rosso vivo, e gli orecchini d'oro che avevo sempre visti annegati nei lobi grassi di Danda. 

"Come avete fatto a toglierglieli?"

Vittorio si strinse nelle spalle.

"Io non c'ero mica."

Chiusi la scatola e gliela porsi.

"Non la voglio. Dalla a qualche parente."

"Non ci sono parenti. Poi è per te, non puoi rifiutarla. Perché vuoi essere così cafona con una morta?"

Mi venne una rabbia furiosa. Non volevo regali da Danda, non volevo esserle riconoscente, non volevo essere costretta a custodire le sue memorie. Non volevo dover pensare ai suoi denti finti con tenerezza.

Buttai la scatola in fondo a un cassetto, nascosta sotto una pila di vecchi fazzoletti che non usavo, e cercai di dimenticarla.

Ci riuscii benissimo. In un trasloco la persi, o forse no, chi si ricorda? Non ha nessuna importanza.

Per questo, ora, qui, scrivo di Danda. Per dimostrarle che mi ricordo le storie e le puzze anche se non ho mai portato i suoi orecchini.

Per farle sapere che sono diventata una cantante rock e nessun cavallo mi ha mai presa a calci. 

 


venerdì 16 aprile 2021

Un libro diverso, un libro necessario e vero: Adriana Ferrari, Lelegìa o contabilità del sorriso

 In questo periodo il mio blog è piuttosto polveroso e pieno di ragnatele,
prima di tutto perché leggo poco e mi sono imbattuta in alcuni mattonazzi che non mi hanno dato alcun piacere né desiderio di scriverne, ma non ho potuto mollarli a metà in quanto la cosa mi ripugna (tanto per non fare nomi, I vagabondi di Olga Tokarczuk, premio Nobel 2018), e poi l'atmosfera generale e le circostanze non hanno una buona influenza sul mio cervello. Sono dispersiva e pigra. Ma poi, ecco che mi arriva dal cielo (no, non voglio esagerare, diciamo per corriere) un regalo inaspettato quanto gradito, la Lelegìa o contabilità del sorriso di Adriana Ferrari (Nino Bozzi Editore). Ora, le circostanze della mia amicizia con l'autrice varrebbero un racconto a parte, ma mi limito a dire che è iniziata con un altro dono preziosissimo: le Strade paralLele

Adriana è poeta, scrittrice e artista, autrice di magnifici collages, viaggiatrice e soprattutto una persona molto intelligente, simpatica e disponibile. Se Strade paralLele mi aveva conquistato è perché rappresenta la poesia come piace a me, discorsiva, narrativa, ironica, razionale, aliena da lirismi e voli pindarici (per rimanere nel campo dei Nobel, oggi mi gira
così: à la Wislawa Szymborska), ma non ne avevo parlato esaustivamente perché di poesia ne so troppo poco, non sono in grado di analizzare un testo di questo spessore e profondità. Ma Lelegìa, in quanto prosa, è più alla mia portata.  

E' un libro molto diverso da quello che siamo abituati a leggere di solito. Non è un romanzo e nemmeno è un libro di ricordi. Ha l'andamento, e il suono, di una chiacchierata, di una lunga ciancia a cuore aperto su un tema che per l'autrice è il perno della vita: Lele Luzzati e i loro incontri, le parole e i sorrisi scambiati, le occasioni perse e quelle afferrate al volo, i doni e le scoperte, le osservazioni dal vivo di quell'esplorazione continua che fu la loro amicizia. 

Uso questa parola, amicizia, sapendo bene che è al tempo stesso troppo e troppo poco. Quello che ci viene narrato in modo accattivante, ben lontano dal dramma come dallo scavo psicologico, è l'assedio a una fortezza più scivolosa che imprendibile, ben decisa a non lasciarsi invadere ma pronta a cedere ogni tanto, a rinunciare alla difesa di un bastione per non scoraggiare l'assalitore. Un assedio mai aggressivo, oscillante tra gioiosa determinazione e dolorosa fatica. Dopo il primo incontro avvenuto quando entrambi erano decisamente maturi, per molti anni, fino all'inevitabile epilogo, Adriana scruta e spia Lele, spinta da un'adorazione che rasenta l'ossessione, conquistandone a poco a poco la fiducia e un burbero affetto certo poco espansivo ma innegabile, che trapela dalle parole del grande artista e soprattutto dall'agognato sorriso che le dedica; e Adriana ne tiene conto, gli dedica appunto la contabilità del sorriso. C'è anche, in queste pagine, una contabilità del dono, fatto o ricevuto, che ho trovato particolarmente commovente perché vera. Chi non conosce l'importanza dei piccoli regali scelti con cura e dati con timore che si scambiano con le persone che contano veramente, ha perso un piacere profondo.

Adriana racconta questi anni con coinvolgente passione e disarmante sincerità. Narra le conquiste ma anche le sconfitte, le conversazioni e i silenzi, le cortesie ma anche le parole pungenti e le mortificazioni. Questa cronaca minuziosa ma piena di andirivieni sia nel tempo che nello spazio (tra Genova e Imperia, su e giù per la Riviera di Ponente) si legge con un grande piacere, lo stesso piacere che si prova quando un'amica ci racconta le sue vicende esistenziali. Neanche l'ombra del pettegolezzo, del sentito dire, dell'illazione avventata, ma un continuo affrontarsi e specchiarsi di due anime, quella di Adriana aperta e ansiosa di mettersi in comunicazione, quella di Lele meno comprensibile, forse semplicemente meno bisognosa di contatto. Attorno si aggirano molti personaggi, noti e meno noti, sullo sfondo di mostre, musei, rappresentazioni teatrali, conferenze, scambi e incontri, tutto un mondo che ferve di cultura e bellezza, un'atmosfera stimolante che fa sognare il lettore, in netto contrasto con questi tempi stagnanti e cupi. 

Ma quella di Adriana è una guerra vinta, perché Lele l'aveva ammessa nella sua casa e nel suo mondo. L'aveva riconosciuta tra le persone della sua vita. E a noi rimane questo bel libro, sincero e a tratti illuminato dall'ironia dell'autrice, pervaso dall'ammirazione per l'opera di un grande del Novecento come è stato Lele Luzzati, e potente stimolo a andare a ricercarne le opere per ritrovarci almeno un po' della magia che ha ispirato una simile passione.