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sabato 19 settembre 2015

Date retta a Lou Reed, quanto si chiacchiera a NY! Letture futili su argomenti seri, David Leavitt - Martin Bauman

Ma quanto si chiacchiera a New York! New York telephone conversation di Lou Reed è la perfetta colonna sonora per questo libro: Oh oh my, and what shall we wear? Oh oh my, and who really cares?

Di David Leavitt ho letto a suo tempo La lingua perduta delle gru (1986), di cui ricordo poco se non che mi era piaciuto abbastanza da spingermi a leggere anche Ballo di famiglia (1984). Poi confesso di essermi persa tutta la sua produzione finché sono incappata in Un posto dove non sono mai stato (1990) e infine in Martin Bauman (2000). Questo romanzo mi ha fatto pensare molto, e per molte ragioni. Prima di tutto il lungo monologo in prima persona mi ha costretta a farmi continuamente una domanda che considero sbagliata, inutile e anche stupida: ma Martin Bauman è David Leavitt? Quanto di quello che l'autore racconta è autobiografia, quanto è invenzione? Il fatto è che il protagonista ha in comune con l'autore così tante caratteristiche che è difficile non pensarci. Martin Bauman è un giovane ebreo (come Leavitt), omosessuale (come Leavitt), borghese (come Leavitt), con istruzione universitaria (come Leavitt), ambizioso e determinato (qui posso solo immaginare che lo sia anche Leavitt, ma non credo di essere molto lontana dal reale), raggiunge una grande notorietà letteraria all'età di 23 anni, all'inizio degli anni '80, con una raccolta di racconti (come Leavitt con Ballo di famiglia), vive a New York.

L'altro aspetto che mi ha acchiappata, tra stupore e incredulità, è tutto quanto riguarda lo scrivere e la carriera dello scrittore (e mi ha fatto ripensare allo sventurato Joël Dicker e il suo La verità sul caso Harry Quebert, probabilmente ispirato nella figura del protagonista da un'indigestione di Martin Bauman & friends). Martin e i suoi amici scrivono con l'unico scopo di raggiungere il successo, che a sua volta consiste (oltre a strappare anticipi sempre più consistenti agli editori - ma non ve l'avevo detto che questo è un romanzo di fantascienza!?!) nella partecipazione continua e compulsiva ai party letterari pieni di celebrità, da indicare all'inizio con stupefatta ammirazione e salutare poi per nome con familiarità paritaria. E chiacchierano un sacco, fanno un sacco di pettegolezzi, commentano i rapporti di questo con quello, stanno tra di loro, si consolano e si specchiano l'un l'altro. I personaggi sono molti e meravigliosamente descritti. Naturalmente chi è addentro nel mondo descritto ha capito subito chi è chi, ma per noi umani questo è un dettaglio di poca importanza. Spiccano il maestro amato e odiato Stanley Flint, l'amica nemica Lisa Perlman, e l'amante non tanto amato Eli Aronson.

La storia è impalpabile, non succede praticamente niente se non traslochi e incontri ma la lettura incanta, David Leavitt è uno scrittore eccellente che riesce a tenere incollati per centinaia di pagine su quello che lui ha detto a lei e quello che lei ha risposto. Persino quando parla di argomenti tragici e seri come l'AIDS riesce a farli sembrare futili, come se tutta la vita fosse un lungo gossip, e nello stesso tempo riuscire interessante. Un romanzo vivamente consigliato a chiunque, e in particolar modo a chi scrive e punta molto alla celebrità letteraria. Con un'avvertenza: da quello che racconta David Leavitt, non pare che i VIP dell'editoria a New York vadano molto in televisione. Se è quello cui aspirate, forse è meglio restare in Italia.
Bella traduzione di Delfina Vezzoli.

venerdì 17 aprile 2015

Maschi, giovani e americani: Breece D'J Pancake, Trilobiti e David Leavitt, Un posto dove non sono mai stato

Li metto insieme perché sono due libri di racconti, usciti molti anni fa, di maschi giovani (al momento della pubblicazione) e americani, ma per il resto non potrebbero essere più diversi. Entrambi però condividono un'altra caratteristica: scrivono straordinariamente bene, e i loro racconti sono una dimostrazione perfetta del perché io amo tanto questa forma di narrativa. 

Breece Pancake, nato in West Virginia, a South Charleston, nel 1952 e morto a Charlottesville, probabilmente suicida, nel 1979, ho cominciato a leggerlo, del tutto casualmente, proprio il giorno anniversario della sua morte, l'8 aprile. Chi lo conobbe ne parla come di un giovane timido e strano; verso i vent'anni si convertì con fervore al cattolicesimo. Nella sua breve vita pubblicò sei racconti, il primo dei quali, Trilobiti, uscì nel 1977 su The Atlantic Monthly. Nel 1983 questi racconti più altri sei inediti uscirono nella raccolta postuma The Stories of Breece D'J Pancake. La biografia dell'autore contribuì sicuramente a farlo diventare da subito una specie di figura mitica, ma si tratta comunque di racconti abbastanza straordinari anche a prescindere dalla sua giovane età.

Il fatto è che Breece D'J Pancake è uno scrittore eccellente: ipermacho, pieno di testosterone, ruvido, nervoso, racconta di  miniere, minatori, camionisti, pugili, marinai sulle chiatte, intorno ai quali le donne sono fantasmi piagnucolanti o traditrici, puttane minorenni o vecchie madri. La scrittura è ellittica, richiede attenzione e immaginazione per colmare i vuoti, le storie non importano quanto l'ambiente, lo sfondo, i personaggi di contorno, le azioni. I personaggi non pensano, agiscono; non si parla mai d'amore. In compenso gli animali sono onnipresenti: il toro da marchiare, il combattimento di galli, la tartaruga uccisa e mangiata, le api bruciate, i maiali nell'agghiacciante Ora e ancora, i cani, i cerbiatti, gli scoiattoli, le volpi, gli opossum. Sono animali amati e uccisi, la caccia e le armi onnipresenti. Viene da interrogarsi come si sarebbe evoluta la sua scrittura se fosse vissuto leggendo Che ne sarà del legno secco, un racconto diverso, melodrammatico, gonfio.

Breece D'J Pancake è giovane e parla di giovani, è forzuto e veloce ma ha una voce da vecchio, non saggia ma priva di illusioni, slanci, forse persino di desideri. Prima o poi lo rileggerò in inglese perché la traduzione di Ivan Tassi è approssimativa, imprecisa e goffa. Introduzione di Giacomo Papi, postfazione di Percival Everett. Alla fine non sono le singole vicende che rimangono in mente, ma un mondo di uomini vivido, preciso, formicolante di vita e di morte. Una citazione: La terra era fragile, vasta, e morta.

La storia di David Leavitt, nato a Pittsburgh nel 1961, è molto diversa: si è affermato nel 1984 con i nove racconti di Ballo di famiglia (Family Dancing) e immediatamente etichettato al suo esordio come minimalista, anche se lui non si è mai riconosciuto come tale; la sua fama così precoce, dovuta anche al suo modo di parlare dell'omosessualità non come dramma ma come uno degli aspetti della vita, è stata confermata da La lingua perduta delle gru del 1986, cui hanno fatto seguito molti altri testi (in particolare Il matematico indiano del 2007) con alterna fortuna, tra cui una causa per plagio intentatagli da Stephen Spender (che la vinse) per Mentre l'Inghilterra dorme. E' anche vissuto a lungo in Maremma e ne ha scritto.

Questa raccolta, Un posto dove non sono mai stato del 1990, all'inizio può risultare irritante (la solita New York cool e fighetta, i locali, i tic da centro del mondo) ma diventa ben presto molto interessante con le sue vicende che danno un'impressione di futilità malgrado gli argomenti importanti che affronta (l'omosessualità, la morte, la malattia soprattutto). I personaggi, tratteggiati velocemente ma con grande acume, riflettono, si analizzano, le numerose figure femminili sono raccontate con sensibilità e precisione.

Sono storie magistrali di persone continuamente in bilico tra due scelte: eterosessualità o omosessualità, amare un uomo o una donna (e questa non è una ripetizione ma una semplice alternativa), gli USA o l'Italia, restare o partire, lavorare o non lavorare, il lutto o il sesso (La serata del coniuge). Curioso e virato decisamente al grottesco Le strade che portano a Roma, forse il meno riuscito o il più estraneo all'autore, in cui è descritta una famiglia italiana decisamente sopra le righe che vive nei pressi di Saturnia. Traduzione di Anna Maria Cossiga e interessantissima postfazione di Antonio D'Orrico. Anche qui, più che le singole vicende conta il fatto che con strabiliante capacità di scrittura David Leavitt descrive un mondo evanescente impegnato, nell'insieme, a traccheggiare con la vita.