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sabato 27 aprile 2024

Toh, guarda chi si vede! Begli incontri dal gionalaio: Guido Gozzano, L'altare del passato

  

 
Non credevo ai miei occhi quando l'ho visto: una copia sola della più che meritevole casa

editrice Capricorno, ma era proprio lui, il mio amatissimo Guido che mi guardava dalla copertina di un libro sul ripiano  traboccante di gialli nostrani e stranieri! E per di più era una raccolta di racconti, quindi un volume doppiamente prezioso. A dir la verità li avevo già letti abbastanza recentemente, ma non ho resistito, l'ho comprato e ho passato alcune ore di piacere sfrenato in compagnia del poeta che amo senza riserve. 
Non sono molti i poeti che amo leggere, nel senso che detesto lirismo, emozioni, eccesso di sentimenti, parole accostate per épater le bourgeois, ermetismi vari e preziosismi. Amo la limpidezza mentale e emotiva, la chiarezza verbale, l'ironia se c'è (ma non è indispensabile), le immagini concrete, la capacità di comunicare. Gozzano possiede tutte queste qualità, come anche altri naturalmente, ma siccome non è che i miei gusti personali siano così interessanti rimaniamo nel seminato. 
Io penso che Gozzano sia uno degli scrittori italiani più sottovalutati. Si dice il suo nome, e tutti immediatamente dicono "le buone cose di pessimo gusto" o "Signorina Felicita" e finisce lì. Ma c'è ben altro, anche a fermarsi alle sue bellissime, limpide poesie. C'è l'ironia che tutti riconoscono ed appare nelle situazioni, nelle descrizioni o anche solo nella scelta dei termini, c'è un filo di cattiveria, persino di crudeltà sottile (vedi "Le due strade"), c'è la capacità di parlar chiaro, c'è un onnipresente senso di morte unito a una profonda e spietata autoironia. Bisogna sempre ricordare che Gozzano, con tutto il suo raffinato snobismo culturale, era giovanissimo: malato da sempre, probabilmente prevedeva il suo futuro, si dovette curare per anni, e morì nel 1916 a 32 anni. Le sue opere più note, La via del rifugio e I colloqui, furono pubblicate rispettivamente nel 1907 e nel 1911. Le opere in prosa uscirono per lo più postume.
In questa raccolta di racconti, L'altare del passato, uscito nel 1918, si trovano tutti i suoi temi, e altri si notano ancora di più: come l'attenzione verso le donne, benevola, critica, ammirativa o spaventata, ma comunque sempre vivissima e assolutamente dominante rispetto a quella verso gli uomini. Ma in generale in tutti i testi quello che conta sono i personaggi, descritti, osservati, studiati, non tanto lo sviluppo narrativo, quasi inesistente o almeno di pochissimo impatto. Gli interni, descritti con particolari mai superflui, gli esterni pieni di fascino, si fanno palcoscenico e quinta per l'esibizione di personaggi indimenticabili come il conte Fiorenzo in "L'altare del passato", inquieto tombeur de femmes e solidissimo punto di riferimento per il nipote e i suoi amici, ma soprattutto di donne straordinarie, la ballerina Palmira Zacchi, la sadica piccola Eleanor che sarà punita dalla vita, un'altra Eleanor, mostruosa e un po' soprannaturale, o per reminiscenze della Torino d'antan, come la "bela madamin" e Madama Reale, e infine per storie ambientate in paesaggi esotici, Porto Said e l'India, che dall'esotismo dell'ambientazione prendono forme magiche e coloratissime. 
Insomma, io consiglio a tutti di leggere questi racconti (o comunque di accostarsi alle opere in prosa di Guido Gozzano come Verso la cuna del mondo e l'epistolario con Amalia Guglielminetti). È un aspetto dell'opera di un grande scrittore tutto sommato poco conosciuto malgrado la sua fama, e non deluderà nessuno, se non forse chi dalle pagine di un libro si aspetta solo thriller o romance (e ho usato questi due termini apposta, quel gran snob di Guido si sarebbe fatto una risata).  
Per concludere, un pensiero che mi viene tutte le volte che leggo qualcosa di suo, Guido Gozzano è morto a 32 anni, e ha passato molto tempo a combattere la malattia. Chissà, se ne avesse avuto le forze e il tempo, che cosa avrebbe saputo raccontarci ancora, con le sue parole limpide e colte.      

 


sabato 17 gennaio 2015

Viaggiare e scrivere, scrivere è viaggiare: il viaggio e la parola (e una botta di narcisismo)

Parangtritis, Giakarta, Indonesia

Il viaggio ha avuto e continua a avere molta importanza nella mia vita e di conseguenza nella mia scrittura e nei miei libri. Prima viene la lettura, poi il viaggio, inestricabilmente collegati dal fascino delle parole, e di lì poi arriva la scrittura.

Infanzia, l’India.
Per molto anni per me il viaggio è stato sogno. Non era come adesso che i bambini a pochi mesi sono già stati in tutto il mondo. Sono stata per la prima volta all’estero che avrò avuto dieci undici anni. Però ancora prima che imparassi a leggere, mio padre faceva con me un gioco che mi ha segnata: facevamo dei viaggi sull’atlante. Mi faceva vedere la carta, i paesi, mi raccontava le cose che c’erano, le abitudini, quello che aveva imparato dai libri, perché era un grandissimo lettore ma non aveva viaggiato affatto. Di qui, e dal fatto che mi leggeva i libri a alta voce o mi faceva vedere le figure, derivano i miei due grandi amori: la lettura e i viaggi. I libri sono stati i primi veicoli della mia immaginazione e dei miei viaggi.
Puri, Orissa, India

Tra i libri che hanno abitato e riempito la mia infanzia abbastanza solitaria e piena di preziosi tempi morti, fondamentali sono stati quelli di Salgari. Questo autore che aveva una fantasia sterminata e pochissima esperienza dei luoghi, ha saputo infondere nei suoi libri un senso di meraviglia, di stupore, curiosità, lontananza, che non è solo banale esotismo. Di Salgari ho letto tantissimo, sono stata talmente innamorata del Corsaro Nero che quasi non riuscivo a dirne il nome a alta voce, mi ricordo brani interi. Ma quelli che mi hanno veramente segnato sono stati Tremalnaik e i misteri della giungla nera. L’India. Kammamuri il fedele maharatto, i thug, il tempio della dea Kali in mezzo alla giungla, la sacerdotessa folle, i Sunderbans eccetera. E poi le parole. Il babirussa, l’albero del pane, il mango dal gusto di mille sorbetti, il ramsinga, il kriss, il sampan… Ho sempre amato molto le parole, proprio in quanto tali, non per ciò che rappresentano. Non mi importa tanto sapere com’è fatto veramente un babirussa o a che cosa serve il ramsinga, ma quelle due parole mi appagano proprio di per sé. E quando sono finalmente andata in India la prima volta sono rimasta senza parole: c’era tutto quello che diceva Salgari. Gli avvoltoi spazzini delle città, i vicoli di Benares, le pire fumanti, tutto. Sono i thug non li ho visti anche se sono andata nella loro città, Jabalpur. Comunque, l’India è presentissima nelle cose che scrivo. Rappresenta la lontananza, e la diversità. È diventata una delle mie patrie d’elezione. Mi ha ispirato tantissimo. C’è in D'amore e no, Il gioco della masca, Est di Cipango, Irene a mosaico, Lei coltiva fiori bianchi, Gatta, Topina e Buon Anno, Alcune ipotesi di vita al femminile, Le case di paglia e le case di pietra.

Puri, Orissa, India
Mezza Anguria.
Un buon esempio è un racconto che appare nel volume Il gioco della masca. È la storia di un mendicante, Mezza Anguria, detto così perché ha la faccia invasa da una massa di carne che gli divora i lineamenti, e essendo così spaventoso paradossalmente come mendicante ha molto successo. È anche la storia di un suo amore disperato e assoluto per una ragazza che non può ricambiarlo anche se lo sposa. Questo racconto è nato dal fatto che una sera alla stazione di Delhi, aspettando che il mio treno partisse, sono andata a un teastall dove c'erano due tizi che chiacchieravano amabilmente bevendo un tè. Uno aveva una voce raschiante, quasi un rantolo. Quando l'ho guardato ho visto quello che sarebbe diventato Mezza Anguria, un viso mostruoso e un comportamento del tutto normale. Giunta a Ajmer, nel Rajahstan, l'ho incontrato nuovamente. Chiedeva l'elemosina fuori dal Dargha, un centro di pellegrinaggio musulmano molto frequentato. E' scattato qualcosa, ho cominciato a pensare: come può vivere una persona così? Così è nato il racconto di Mezza Anguria. 

Fece amicizia con i facchini scalzi dalle belle giacche rosse che passavano le giornate accovacciati sui gradini della stazione in attesa di viaggiatori cui strappare valigie e bauli, e da loro imparò tutti gli orari dei treni in transito. Con una piccola mancia all'incaricato di ritirare i biglietti ottenne l'accesso ai binari ogni volta che voleva, saliva sui treni durante le lunghe soste o passeggiava lungo i vagoni di prima classe chiusi a chiave, spingendo la faccia contro le reti metalliche e le sbarre che difendevano i ricchi. I treni gli rendevano bene; in genere gli bastava mostrarsi per ottenere il pedaggio che avrebbe liberato i viaggiatori dalla sua presenza, ma se qualcuno riusciva a voltare la testa fingendo di non averlo visto, una litania di preghiere e benedizioni recitate con la sua voce innaturale otteneva l'effetto voluto. [...]
Se poi riusciva, dopo averli spaventati a Delhi, a sorprenderli ad Ajmer affacciandosi ai finestrini con l'impercettibile stiramento della fessura che era tutto il suo sorriso, quelli sganciavano biglietti da dieci o venti rupie immediatamente, nell'illusione di poter così dimenticare ciò che i loro occhi increduli avevano visto loro malgrado. (Dal racconto Mezza Anguria, in Il gioco della masca).


Samotracia (Grecia) vista da Gokceada, Turchia
Scrivere per impossessarsi dei luoghi, la Grecia.
Anche quello verso la scrittura per me è stato un lungo viaggio di avvicinamento. Il primo racconto che ho scritto, nel 1982, si intitola Quattro storie di viaggio. Immagino che quattro viaggiatori occidentali solitari si trovino la sera in un losmen in Indonesia, fa caldo, non c’è l’elettricità, intorno c’è la notte nera, solitudine, insetti. Uno comincia a parlare, racconta il motivo per cui si trova lì da solo, poi a uno a uno ognuno racconta quel pezzo di storia che giustifica il suo essere lì, un momento che compendia tutta la sua vita. La mattina dopo non si salutano nemmeno, e ognuno riprende la sua strada. Ero appena tornata da un viaggio in Indonesia. Adesso certamente non mi riconosco più nel modo in cui l’ho scritto, ma i temi mi appartengono.
A me piace viaggiare per catturare i luoghi, le atmosfere. Scriverne è un modo per riviverli e anche per impossessarmene definitivamente. Da luoghi di tutti, diventano luoghi solo miei.

Quello che per me è stato il primo paese dell’immaginario che ho conosciuto, in cui ho viaggiato di più, da più di mezzo secolo quasi ogni anno, è la Grecia. La conosco bene, è la prima delle mie due patrie d’elezione, cui si è aggiunta l'Anatolia su cui però non ho quasi mai scritto a parte un racconto in Gatta, Topina e Buon Anno, non so perché. Ma mentre l’India è grande, lontana, difficile, oscura e spaventosa, la Grecia è vicina, familiare, sorella, facile. Eppure la maggior parte delle cose che ho scritto sulla Grecia sono legate a argomenti oscuri. Vi ho ambientato storie di fantasmi, di potenze magiche, di miti spaventosi, rivisitazioni di fiabe cruente, non so perché. Forse sotto la solarità classica ci ho sempre visto la prevalenza dell’Ade. Quando mi hanno chiesto di partecipare a un’antologia di racconti scritti da donne ispirati ai temi di Lovecraft, mi è venuto spontaneo ambientare la mia storia in Grecia. Si chiama Resurgam, e si rifà sia a miti classici che a quello della Grande Madre mediterranea. La Grecia è presente in Est di Cipango, Irene a mosaico, Lei coltiva fiori bianchi, Il cuore in ballo, Gatta, Topina e Buon Anno, Alcune ipotesi di vita al femminile, Le case di paglia e le case di pietra e soprattutto Gli anni al sole che è ambientato per la maggior parte a Chios. L’altro aspetto per cui la Grecia è molto presente è, ovviamente, il mare.
Milos, Grecia

A che cosa serve il viaggio. 
Vorrei aggiungere una cosa: quando parlo di viaggio in questo contesto, bisogna dimenticare i significati di vacanza, relax, distrazione, riposo o insomma tutti i sinonimi che si danno al viaggio in questi giorni di pacchetti vacanze dall’altra parte del mondo. Io mi riferisco al viaggio come spostamento, spaesamento, allontanamento da quello che costituisce la nostra vita quotidiana, ma anche dai problemi, i pensieri dominanti, quando facendo tabula rasa ci si dimentica di noi stessi, e ci si apre a quello che ci circonda. Ci si presenta al mondo solo con la nostra faccia e un passaporto, magari anche una carta di credito, ma comunque nessuno ci conosce. Il contrario del famigerato lei non sa chi sono io: nessuno sa chi sono io. 

A che cosa serve insomma il viaggio, se lasciamo a parte il viaggio-divertimento di massa, il viaggio-pacchetto vacanze? Secondo me, prima di tutto a imparare. Chi viaggia deve per forza rendersi conto che ci sono altre vite, altre culture, altre realtà, che lui e la sua piccola vita non sono l’ombelico del mondo. (Naturalmente c’è chi viaggia per trovare conferme a quest’idea, ma qui non ce ne occupiamo). Il viaggio è andare dove non si capisce la lingua e non si trova niente di quello che c’è a casa, serve a imparare la differenza e la mancanza. A aprire i sensi a odori, sensazioni tattili, concetti di bellezza diversi da quelli cui si è abituati. Apprezzare di più quello che si ha, al ritorno. Poi serve a fare incetta di cose da sognare al ritorno.
Puri, Orissa, India

Serve anche a ricordare che non per tutti il viaggio è privilegio. Quando ci si sente un po’ persi, un po’ oppressi dall’eccesso di cose ignote, di odori estranei, dalla difficoltà di comunicare con persone che non parlano come noi, non pensano come noi, è un buon esercizio riflettere sul fatto che il mondo è pieno di persone che vivono le stesse sensazioni non per divertimento ma per necessità. Persone che non hanno in tasca il biglietto di ritorno, e devono adattarsi alla svelta, o imparare a convivere con il disagio, la paura, l’estraneità, l’isolamento. E come abbiamo dovuto imparare per forza negli ultimi anni, persone per cui il viaggio e il mare sono rischio e morte, fuga e dolore, strappo e separazione, senza ghirlande di fiori all'arrivo né drink di benvenuto.
  
La sorpresa è che sovente il paese narrato che si ritrova nelle mie parole è completamente diverso da quello che hanno visto i miei occhi. La parola mi aiuta a vedere meglio. Comunque devo conoscere quello di cui parlo, non tanto la storia ma l’odore, il colore, la temperatura di un luogo mi servono per parlarne. Non potrei scrivere una storia ambientata in un paese che non conosco perché per me il racconto non nasce dalla ricerca ma dall’esperienza sensoriale dei luoghi.
Benares, Uttar Pradesh, India

Viaggiare restando qui: Bolzaretto Superiore.
Una cosa molto importante, cui tengo molto, e che ho imparato con il tempo, è questa: viaggiare non significa andare lontano ma guardare intorno a sé con occhi diversi, cercando la distanza e soprattutto la peculiarità dei luoghi. Quello che c’è qui e non altrove. È bellissimo viaggiare così nei posti vicini, anche quelli che conosciamo già. Bolzaretto Superiore, un paesino inesistente ma più vero del vero, dalla collocazione geografica precisa, è un altro dei luoghi fondamentali del mio immaginario. Si trova nel triangolo compreso tra Polonghera, Faule e Moretta, e ha caratteristiche di tutti e tre i paesi. E' nato, per me, una volta che mi sono fermata a bere qualcosa in un bar di Carignano e la prima storia che vi ho ambientato è La vera prova dell'esistenza di Dio. È presente in D'amore e no, Il gioco della masca, Est di Cipango, Ragazza brutta, ragazza bella, Trilogia delle donne virtuose, La ragazza in tailleur rosso fuoco, e Il cuore in ballo dice la parola definitiva su Bolzaretto Superiore. I piccoli spostamenti domenicali intorno a Torino mi hanno dato tanto quanto un viaggio in Tibet. Il viaggio è più negli occhi che nei piedi.

A me piace più viaggiare guardando che entrando proprio nelle cose. Questa ovviamente è un’opinione, una
Benares, Uttar Pradesh, India
questione di carattere. Non mi piace essere portata in giro né che mi spieghino troppo. Preferisco perdere qualcosa che sentirmi dire che cosa devo guardare e perché.
Quando si viaggia è indispensabile la curiosità, non necessariamente l’empatia. Quello che si vede può anche non piacere. Quando qualcuno mi chiede dove sono stata di ultimo (e magari la risposta è l'Albania, il Kosovo, il Montenegro, o altri posti poco appetibili turisticamente), la seconda domanda è immediatamente: bello? ti è piaciuto? Molte volte dovrei dire no, non tutti i posti sono belli, ma non mi importa granché. Io viaggio per vedere posti, non posti belli, è molto differente. 

martedì 31 luglio 2012

Jeet Thayil, Narcopolis

Dedicata a Bombay, la Narcopolis del titolo, questa è la prima opera narrativa di Jeet Tahyil, poeta e musicista nato in Kerala nel 1959 che attualmente vive a New Delhi. Non mi capita sovente, ma finendo questo romanzo mi è venuta voglia di rileggerlo subito. Non solo perché è bello (molto) ma per ricostruire i nessi sotterranei che collegano i personaggi, le corrispondenze e i rimandi che lo percorrono tutto. Non a caso uno dei temi  è lo scambio dei sogni, che passano dall'uno all'altro personaggio; e un altro, la dipendenza dalle droghe, passa attraverso l'amore, l'affetto e l'amicizia.

La storia inizia alla fine degli anni Settanta, in una fumeria d'oppio frequentata dall'io narrante, rispedito in India dagli Stati Uniti dove l'hanno sorpreso a comprare droga. Rashid, musulmano osservante con due mogli e un certo numero di figli che vivono al piano di sopra della fumeria, anche lui oppiomane, ne è il padrone e nume tutelare; Dimple, bella e femminilissima, è la principale sacerdotessa del rito della pipa. La sua storia costituisce il nucleo della narrazione; nata maschio, ceduta dalla madre perché diventasse hijra (eunuco) quando era bambina, è stata castrata a otto o nove anni, ha vissuto per una quindicina d'anni in un bordello di hijra, è stata iniziata all'oppio da mr Lee, ex ufficiale cinese. Questo è forse il personaggio più debole, con il suo passato di ufficiale dell'esercito maoista rifugiato in India per sfuggire alle purghe e la trucida storia dei suoi genitori, madre fervente comunista e padre scrittore dissidente. Poi c'è Rumi, hindu d'alta casta reietto e violento, Salim galoppino del trafficante di coca Lala e suo giocattolo sessuale, Bengali il vecchio contabile della fumeria e altri che compaiono e scompaiono come fantasmi. Poi ci sono i fantasmi veri, i morti che vivono solo nel ricordo di chi hanno amato, e la nostalgia, il passato, la droga che accoglie e dà pace come l'amore di una madre, fa dimenticare la solitudine e il dolore.

Ognuno dei personaggi ha qualche ferita profonda che può essere risanata solo con la droga, sempre di più. C'è il tradimento, quello che fa male solo a chi lo commette, e il rimorso, l'amicizia che si rinnega davanti alle difficoltà e la capacità di trasformarsi facendo propri i sogni altrui. Soprattutto c'è Bombay, la città che ha cancellato il proprio passato cambiandosi il nome e alterando chirurgicamente la propria faccia, la stessa città in cui hindu e musulmani vivono fianco a fianco condividendo miseria e crimini, ma nei giorni del furore si uccidono senza motivo e senza pietà. C'è la religione, anzi le tante religioni e i tanti dei che brulicano nelle teste e nei templi degli abitanti della città. E poi arriva l'eroina dal Pakistan e spazza via i rituali, la pipa, la lentezza, i sogni. Il mondo delle fumerie d'oppio sparisce, prima distrutto dall'eroina poi sostituito dalla cocaina, droga della modernità. Per alcuni c'è il ricupero, per altri la rovina, i più perdono l'anima e nessuno ne esce indenne. Il romanzo ha un finale circolare in cui l'io narrante torna a Shuklaji Street, ma al posto della fumeria di Rashid c'è un ufficio pieno di computer, il figlio di Rashid è diventato musulmano integralista e spaccia coca in grande, McDonald's e shopping arcade hanno sostituito i bordelli e le catapecchie. Dolori e sogni ci sono sempre, ma devono trovare sollievo altrove.

E infine un ricordo personale: la prima volta che sono andata in India, nel 1977, un amico che adesso non c'é più aveva promesso di portarmi in una fumeria d'oppio a Bombay. Una storia di voli spostati ci impedì di realizzare il progetto. Mi piace pensare che la sua scelta sarebbe stata la fumeria di Rashid, allora al culmine del successo.
Pubblicato lodevolmente da Neri Pozza con traduzione dall'inglese di Vincenzo Migiardi,