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domenica 3 novembre 2019

Binge reading in the United Kingdom: Elizabeth Jane Howard, La saga dei Cazalet

Per motivi contingenti, negli ultimi tempi ho potuto praticare un'attività in cui eccellevo nell'adolescenza e anche, devo dire, nell'età adulta fino a quando ho cominciato a scrivere: il binge reading, il dolce abbandono alla lettura per ore e ore, pomeriggi, serate, pasti e prima mattina... La mia buona stella mi ha fatto trovare La saga dei Cazalet, cinque volumi che avevo scaricato pensando che un giorno, magari, su una spiaggia ombreggiata da una tamerice o da platani generosi avrei trovato il tempo di affrontarla. Invece platani e tamerici non c'erano ma il tempo sì, e io mi sono sciroppata i cinque volumi della saga, Gli anni della leggerezza, Il tempo dell'attesa, Allontanarsi, Confusione, Tutto cambia, ben contenta della full immersion nelle quattro generazioni della sterminata famiglia Cazalet, e piuttosto dispiaciuta al momento del distacco.

Dell’inglese Elizabeth Jane Howard (1923 - 2014, ma questa voce di Wikipedia è solo un abbozzo, la sua lunga e turbolenta vita merita un approfondimento) avevo già letto Il lungo sguardo che non mi aveva fatto una grande impressione. E anche La saga dei Cazalet non è un capolavoro, ma di sicuro è interessante, assai curioso, pieno di spunti e dopo un po' ipnotico, avvolgente e confortante come una tazza di tè in un pomeriggio nebbioso. Inoltre sono cinque volumi, ognuno dei quali evidentemente ha una sua personalità, qualcuno più felice altri meno, e man mano che si va avanti nella lettura si entra di più nei personaggi e nelle vicende e ci si adagia. Io, che tendo a distrarmi facilmente, all'inizio ho fatto parecchia fatica a districarmi tra i personaggi che solo dopo un po' assumono una personalità ben definita e distinta. Si tratta dei membri della famiglia Cazalet: i capostipiti, il Generale e la Duchessa, i loro quattro figli Hugh, Edward, Rupert e Rachel, le rispettive mogli, amanti, amiche, la numerosa figliolanza (in particolare le nipoti Louise, Polly e Clary, ma nell'insieme almeno una dozzina, ognuno con le sue vicende personali e fidanzati mariti figlioletti ecc), gli amici e i parenti più vicini e naturalmente i domestici di tutti, seguiti per un arco di tempo che va dal 1937 al 1957, tra Londra, il Surrey e Southampton, con un breve excursus in Francia. E' una stirpe solidamente borghese di commercianti di legnami, molto ricca al'inizio, che attraversa i cambiamenti di quegli anni in una frenetica ricerca di felicità e sicurezza, coinvolta fino in fondo nella guerra e nel dopoguerra, nel dolore e nella ricostruzione, costretta a adeguarsi ai cambiamenti che stravolgono il suo mondo.

Un aspetto molto particolare della scrittura di Elizabeth Jane Howard è la sua attenzione ai particolari concreti della vita, per esempio il cibo, sempre insufficiente nei lunghi anni della guerra e del dopoguerra in cui in Inghilterra rimase in vigore per anni il tesseramento: l'autrice ci informa sempre minutamente su quello che mangiano i suoi personaggi, come e chi cucina, dove vanno al ristorante  e quali piatti ordinano; che cosa bevono (naturalmente tazze di tè e tazze di brodo ma anche molto vino, superalcolici, liquori, cocktail e similia); le marche di sigarette o di sigari che prediligono; descrive sempre come sono vestite le donne, dove si procurano le toilettes, i tessuti che tagliano e cuciono da sé, come portano i capelli, come se li lavano, quante volte fanno il bagno, ci dice se l'acqua è calda o tiepida, sufficiente o poca... E così per le case, che vengono comprate e vendute frequentemente, bombardate durante i raid aerei, aggiustate, ripulite o trascurate, con l'unico punto fermo di Home Place, la grande casa di campagna in cui tutti si riuniscono per le vacanze, le feste comandate e durante lo sfollamento. E il caleidoscopio di personaggi si muove in questo scenario così concreto e si rincorre, si accoppia, se ne va, si ama, si odia... insomma vive. Bisogna dire che i Cazalet non sono esclusivamente la classica famiglia borghese solida e inquadrata, ci sono parecchi temperamenti artistici e personaggi irregolari, anticonformisti o semplicemente incapaci di conformarsi, ognuno ha qualche segreto nel cuore e alcuni compiono scelte davvero controcorrente e tutto sommato gli altri membri della famiglia accettano senza giudicare né scandalizzarsi troppo.

Un grande pregio, mi ripeto, è la concretezza della scrittura. Le vicende sono raccontate senza dilungarsi in analisi psicologiche o sfrucugliamenti in profondità, anzi, molto sovente gli snodi principali di un personaggio ci vengono comunicati in absentia. Tutti i romanzi sono scanditi in capitoli dedicati a un personaggio o a un gruppo di personaggi, che vengono per un po' alla ribalta. In questo senso infatti la parte che ho trovato un po' più noiosa è quella in cui le adolescenti parlano in prima persona dei propri dolori e piaceri, o il diario di Clary per il padre disperso in guerra. Meglio i dialoghi sempre piuttosto brillanti e dinamici, la narrazione veloce e oggettiva.

Non si tratta di romanzi che ti aprono un mondo, né ci sono personaggi indimenticabili cui affezionarsi, e qua e là un sospetto di moralismo è impossibile da evitare. Ma l'insieme è sufficientemente spregiudicato da incuriosire, e tanto fitto di storie e particolari da rassicurare. Certo in un altro momento non ce l'avrei fatta a leggere i cinque volumi di seguito, e non mi sento di consigliarlo, però devo dire che sono molto riconoscente a Elizabeth Jane Howard per avermi fornito una lettura gradevolissima, poco impegnativa ma non leggerina, avvincente e tutto sommato serena. Adattissima per trascorrere un periodo abbastanza lungo (più di un mese di certo) in buona compagnia letteraria.
La traduzione di Manuela Francescon ogni tanto dà segni di stanchezza ma è umano, dopo tanti Cazalet si sarà un po' stufata. In compenso le copertine di Fazi sono strepitose, tutte e cinque.                 

sabato 21 settembre 2019

Quando la vita è troppo amara, solo una gita a Bolzaretto Superiore può consolarci

 E di nuovo mi trovo senza libri da recensire, perché gli ultimi che ho letto non mi hanno convinta per niente. Tipo Il nostro piccolo pazzo condominio, romanzo d'esordio di Fran Cooper (ditemi se si può inventarsi un titolo più brutto, quando poi l'originale inglese, These dividing walls, è non solo molto più bello ma anche azzeccatissimo), traduzione di Maria Gini, che comincia in maniera accattivante raccontando di un ragazzo inglese che va a Parigi per riprendersi da un lutto, e nel caseggiato in cui  vive incontra altri segreti dolori, altre sofferenze che danno frutti marci, e mettendo in campo molti personaggi con potenzialità e poi a poco a poco vira sul moralistico, il politicamente corretto, mescola razzismo, neonazismo e attentati in maniera davvero elementare per poi "finire bene" - che faccia parte di quella up literature di cui ho scoperto da poco l'esitenza e il solo pensiero mi ha agghiacciata? Anche se poi a ben pensarci non è certo quella gran novità, e magari certe parolette nella nostra bella lingua tipo edificante o consolatoria potrebbero sostituire l'up, ma certo il risultato non è altrettanto elegante e trendy.

O Seppellitemi dietro il battiscopa di Pavel Sanaev (traduzione di Valentina Parisi), che invece mi ha sedotta proprio con il titolo e di cui non posso dire niente di male, anzi - solo che non sono riuscita a capire se la storia straziante, in prima persona, di un bambino russo affidato a una nonna pazza e torturatrice, a un nonno menefreghista e sfuggente, a una scuola fonte di tremenda ansia, che ama appassionatamente la sua mamma che però può vedere solo una volta al mese perché la nonna in pratica lo tiene prigioniero, doveva farmi piangere o ridere. Alla fine mi ha solo profondamente annoiata. Ho letto che in Russia, dove ha avuto un successo strepitoso e ne hanno fatto anche un film, i lettori si divertivano moltissimo riconoscendo abitudini sovietiche nelle cure cui era sottoposto l'infelice protagonista. Non avendo avuto un'infanzia sovietica non sono abbastanza informata per apprezzarne lo spirito, ma sarei felice se qualcuno ci provasse e poi mi spiegasse bene.

Così sono andata a fare un giro a Bolzaretto Superiore dove come si sa ne succedono di ogni, e non sono stata delusa.

APRITI CIELO
Perché a Bolzaretto Superiore quando nevica, nevica. La fioca, la neve, cade dappertutto, non c'è
scampo. Sulla tangenziale e sulla piazza della chiesa, sui giardini delle villette a schiera e sui cortili delle cascine inglobate nel paese, sui pini annoiati davanti alla scuola elementare, sulle bialere gelate dove poi i bambini vanno a fare le scivolate e ci cascano dentro, sul campanile e sul tetto del mulino dismesso. Sui capannoni industriali abbandonati. Sulle fabbriche trasformate in outlet e persino sul grande, magnifico centro commerciale. E lì ecco che si verifica il prodigio. Tra i fiocchi morbidi e gelati c'è qualcosa di duro che quando ti cade sul naso fa un po' male. A terra non si scioglie, e non fa in tempo a ricoprirsi di neve che ne cade un altro, un altro, un altro ancora... Decine centinaia migliaia di caramelle, gianduiotti, marron glacé, cremini, cri-cri, preferiti, cuneesi, ginevrine, quaresimali si depositano dolcemente sulla bianca coltre senza spiaccicarsi. Quando i clienti che escono carichi di sacchetti se ne rendono conto si buttano a raccoglierli, li ficcano a manciate nelle tasche e nelle borse, quelli più impazienti se li infilano in bocca, manco li scartocciano, inghiottono gianduiotti e carta dorata in un solo boccone. I bambini increduli ne fanno mucchietti e chiedono alle mamme di imprestargli il carrello. "E' una pubblicità" dicono i più smaliziati sorridento con l'aria di chi la sa lunga.
Che centro commerciale generoso! Ci torneranno tutti, sperando di riavere la stessa buona fortuna. E nella furia di golosità mangiano tutti i dolci caduti dal cielo, e nessuno di loro si renderà mai conto che si trattava di un vero miracolo, un miracolo che porterà un sacco di clienti al centro commerciale, a costo zero.      
  

martedì 30 luglio 2019

Se patite troppo il caldo, provate con un giallo da brividi: Lesley Thomson, The playground murders

Lesley Thomson ė l’unica giallista che mi piace e non mi capacito che nessun editore italiano abbia ancora pensato a tradurla. Ora ho appena finito il suo ennesimo romanzo con Stella Darnell e Jack Harmon come protagonisti, The playground murders, 
giallo sufficientemente trucido, con l’immancabile intreccio tra passato e presente, un’ambientazione insolita, e soprattutto un velo di morbosità legato alla giovanissima età di alcuni personaggi. Ma, c’è un ma grosso come una casa. A parte la mancanza di credibilità appunto nei personaggi che vediamo prima bambini poi adulti, sono proprio i due protagonisti a non funzionare più. Perché i due (immancabili, inevitabili ) investigatori maschio e femmina devono per forza diventare una coppia a un certo punto? Quello che funzionava benissimo tra di loro come figure singole che procedevano affiancate, complementari nelle reciproche originalità, diventa quasi ridicolo e francamente stridente quando devono fare la coppietta calda e corredata di tutti gli accessori di rito, gelosia insicurezza ex ingombranti malintesi ecc. Per cui alla fine The playground murders mi è piaciuto molto meno degli altri romanzi di Lesley Tomson.

La vicenda si svolge tra Hammersmith, quartiere di Londra presente in tutti i romanzi che vedono come protagonisti Stella Darnell, figlia di un poliziotto e titolare di un’impresa di pulizie, e Jack Harmon, guidatore di metropolitana dotato di strane capacità di capire la psicologia dei colpevoli, e un ridente paesino dei Cotswolds. Il delitto su cui indagano è collegato a terribili episodi del passato (da cui il titolo) in cui la morte ha fatto capolino tra i bambini di un parco giochi. Lesley Thomson scrive benissimo e leggerla è sempre un piacere, è accattivante e lieve, non è che voglio diminuire e suoi meriti. Ma questa puntata della saga non mi ha proprio convinta. Leggetelo, ma tenete presente che i precedenti sono molto meglio.
(Anche per questo post vale l’avvertenza che è stato scritto in situazioni disagiate - lo migliorerò al mio ritorno a Torino e aggiungerò i link alle recensioni degli altri volumi della serie The detective’s daughter).

venerdì 8 dicembre 2017

Che cosa succede quando uno scrittore si innamora di un altro scrittore: Julian Barnes, Il pappagallo di Flaubert

Può sembrare strano scegliere di parlare oggi di un libro uscito nel 1984, e in effetti lo è.
Finora di Julian Barnes avevo letto solo Il senso di una fine (di cui è uscita recentemente una sciapissima versione filmica, L'altra metà della storia), che mi è piaciuto ma non mi acchiappato per il fatto che la storia non è particolarmente nelle mie corde, ma mi ha lasciato il ricordo di un libro scritto magistralmente. E anche questo Il pappagallo di Flaubert è scritto benissimo, e mi conferma nella mia convinzione che la scrittura è tutto. Questo è il motivo per cui ne parlo.

Ora, cerchiamo di capirci. Con scrittura non intendo dire pretenziosità, registro alto, ricercatezza, stile iper raffinato. Intendo parole scelte per dire quello che si vuole dire: quindi prima di tutto sapere che cosa si vuole dire, e poi saper usare le giuste parole, il tono, l'alternanza dei contenuti, tenere alta  l'attenzione del lettore perché si vede, è evidente, che quello che dice interessa prima di tutto l'autore. Il pappagallo di Flaubert parla esattamente di questo, cioé del pappagallo di Flaubert, oltre che di mille altre cose, in maniera apparentemente svagata e divagante, passando con facilità da un aspetto all'altro della vita di Flaubert o delle sue opere e personaggi, senza mai cadere nell'erudito, nella critica letteraria, nella barba della biografia. Gli aspetti di cui ci parla Julian Barnes sono spesso concreti, materiali (gli animali, i luoghi, gli oggetti) e altre volte spaziano tra gli amici dello scrittore, i suoi viaggi, gli amori, le lettere. La famiglia. Gli spunti da cui possono essere stati tratti i personaggi. E così via, in un continuo (apparente) divagare e affabulare.

In realtà forse la cornice narrativa (il romanzo è in prima persona, e il narratore è un medico inglese, vedovo, che si reca in Normandia, e ovviamente a Rouen, sulle tracce dello scrittore amatissimo) mi è parsa la parte meno interessante, che in qualche punto interrompe il tessuto narrativo così variegato e accattivante. Ma è un'osservazione superficiale, forse a una seconda lettura troverei del tutto necessarie le parti dedicate alla moglie defunta e altre. Ma quello che mi ha colpito moltissimo leggendo, è che mi sono sciroppata con grande piacere e desiderio di tornarci quando interrompevo, tutto un volume su un autore di cui, sinceramente, poco mi interessa. Ho letto a suo tempo, nella prima giovinezza, Madame Bovary, L'educazione sentimentale, Trois contes, Il dizionario delle idee correnti e forse altro; ne ho tratto godimento e giovamento, ma non sono rimasta toccata nel profondo come da altri scrittori dell'Ottocento. Il che non vuole dire che non ne pensi tutto il bene possibile, che non mi renda conto della sua importanza, ma semplicemente che non avevo una spinta particolare a affrontare Il pappagallo di Flaubert. Quindi tutto il merito va a Julian Barnes e alla maestria della della sua scrittura, irresistibile anche in totale mancanza di un plot avvincente, anzi di un qualsiasi sviluppo narrativo.

Perciò lo consiglio vivamente sia agli appassionati di Flaubert che a tutti quelli che amano leggere per divertirsi e far funzionare il cervello, disposti a seguire l'amabile e vivace discorso di un innamorato (come lo è Barnes di Flaubert) per nulla geloso, che vuole condividere con noi tutto quello che sa, o immagina, o inventa, sull'oggetto del suo amore. Bella traduzione di Susanna Basso.
E presto leggerò Il rumore del tempo, anche se di Dmitrij Šostakovič nulla so e poco m'importa.