Due libri per chi ama i racconti, scritti da due autori che io pensavo, entrambi, molto più giovani di quanto siano in realtà (di Michele Orti Manara ho assistito a una presentazione al Salone del Libro di Torino 2018 e ha l'aria giovanissima, vi assicuro) e, entrambi, molto, molto bravi.
La perdita di te (Edizioni Clandestine, traduzione dall'inglese di Barbara Gambaccini con contributi di Elisabetta Pellini, basata sulla traduzione dal turco di Hande Eagle) di Yekta Kopan, nato nel 1968 a Ankara e ora residente a Istanbul, poeta, narratore, saggista, conduttore radiofonico, doppiatore e sceneggiatore, è una veloce raccolta di cinque racconti, tutti in prima persona, in cui si parla di perdite appunto, soprattutto del padre, di rapporti, di donne, di pittura, di persone. Non hanno importanza né la trama né, in fondo i personaggi. Sono riflessioni su se stesso che si avviluppano e si sfrangiano, affascinando come un soffitto coperto di specchietti che riflette le figure spezzettandole e ripetendole. Sono anche racconti moderni, che parlano di un paese moderno e di un autore moderno perfettamente a suo agio a Istanbul come a Londra. Sicuramente cercherò qualcos'altro di quest'autore per farmi un'idea più chiara, e lo consiglio a chi è interessato alla Turchia e ai racconti. Però spero che Edizioni Clandestine, se decide di continuare a pubblicarlo, dedicherà una maggiore attenzione alla traduzione. Non ho la minima idea se sia fedele o no, che cosa si sia perso nel passaggio dal turco all'inglese, ma quello che vorrei sottolineare è che l'italiano ha le sue leggi, che magari il traduttore non conosce ma vanno rispettate se non si vuole che il lettore si deprima e si scoraggi.
Come ho detto, Michele Orti Manara l'ho visto dal vivo e posso assicurare che è molto simpatico e disinvolto. Adesso che ho letto Il vizio di smettere, uscito con la valorosa Racconti Edizioni, posso dire anche che è estremamente bravo (e la copertina di Francesca Protopapa particolarmente attraente). Sedici racconti di cui alcuni brevissimi, tutti al presente e nervosi, veloci, talora solo dialoghi (Diglielo e basta), in cui non disdegna l'assurdo e l'inesplicabile (Una vita in venti minuti) né teme di entrare in prima persona in situazioni complesse (Post-it), rappresentando e narrando senza sprecare una parola, con una scrittura netta, precisa, sicura, la scrittura di chi sa quello che fa e come lo vuole fare. Sia che parli di un gatto o di un collaboratore domestico straniero o di una donna ossessionata da uno stalker, Orti Manara lo fa con le parole giuste e la giusta misura. Anche di questo autore aspetto con piacere la prossima uscita, augurandomi che la sua bravura non diventi virtuosismo, la sua sicurezza riesca a fargli evitare la frigida perfezione da scuola di scrittura. Orti Manara tiene un blog con il bellissimo nome di nepente. Ma comunque, e lo dico da Figlia di Chtulhu, uno con una maglietta così andrà sicuramente lontano. E io glielo auguro di cuore.
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martedì 26 giugno 2018
martedì 28 novembre 2017
L'Italia come non l'avete mai vista: Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia
Elvis Malaj con Marco Lazzarotto alla libreria Pantaleon di Torino, 23/11/17 |
Felice perché i dodici racconti che lo compongono sono belli, interessanti, ben scritti e originali. Elvis Malaj è giovane e scrive come è giusto che faccia un giovane, ma è felicemente libero dai vezzi che rendono insopportabili, a mio gusto, tanti libri generazionali: niente impronta da scuola di scrittura, per me il peggiore tra i tanti difetti. Si sente che Malaj ha cercato la sua voce e l'ha trovata, ed è una voce forte, personalissima, che spero verrà confermata nelle prossime uscite. E' anche molto ironica e allo stesso tempo mite, attenta ai minimi dettagli, e riesce a risultare divertente anche nel raccontare minimalia.
Importante perché l'autore, che ascoltato dal vivo appare molto lucido e intelligente, riesce a imbastire storie brevissime che ci danno un quadro della vita di un ragazzo albanese (l'essere albanese è al centro di tutti tutti i racconti) alle prese con le difficoltà, gli aspetti buffi, le stranezze, i luoghi comuni e anche i pregiudizi che condizionano i rapporti con gli altri. E soprattutto le altre, le ragazze, universo amichevole e bizzarro con cui confrontarsi continuamente. Non ci sono lamentele né pietismi né rivendicazioni orgogliose, ma attraverso l'autoironia e la velocità di scrittura si rispecchia acutamente la società italiana, nei suoi difetti ma anche nei suoi pregi. Elvis Malaj ha l'occhio tollerante di chi, più che giustamente, non ha complessi d'inferiorità e capisce benissimo con chi ha a che fare.
I racconti sono ambientati in buona parte a Belluno dove l'autore, che ora risiede a Padova, ha trascorso alcuni anni, ma qualcuno anche in Albania. In Vorrei essere albanese, il cui incipit è davvero magistrale, il protagonista Marenglen (acronimo di Marx, Engels e Lenin) deve destreggiarsi con una banda di ragazzini ubriachi e razzisti, ma ha un asso nella manica: quando dovevo minacciare qualcuno non dicevo "chiamo i miei cugini albanesi", dicevo "chiamo la mia ragazza italiana". Da cui peraltro, alla fine riceve una lezioncina del tutto inaspettata. La vergine Maria tratta della controversa iniziazione sessuale di due adolescenti, mentre Il televisore è una doppia vicenda di abbandoni e ritrovamenti, tra Bakshim, un vecchio apparecchio televisivo fuori uso e la sua ragazza Maddalena, sul cui sfondo si intravede la gerarchia degli esclusi che mette in campo albanesi, romeni, marocchini e neri. L'incidente è quello che interrompe la prima cena tra Gjokë e Selvi, la ragazza di cui è sempre stato innamorato, risolvendo un equivoco. Scarpe, dedicato alla mia Albania e ambientato a Bajzë, paese di origine dell'autore, è la storia apparentemente farsesca e boccaccesca di Dedë, cameriere e puttaniere, delle sue scarpe, di un cane e di una ragazzina che va a scuola con la scarpe prestate dalla sorella, ma in controluce fa intuire una miseria che non è solo materiale. La nuova classe, il più tragico, laconico e bellissimo nella sua nervosa velocità, mette in scena l'ansia e lo spaesamenteo di un ragazzo diviso tra la difficoltà di inseririsi in un ambiente nuovo e la vita che preme tutt'intorno. L'uomo con la cravatta con un motivo a fiori forse è salvato da un colloquio ascoltato sull'autobus tra un'infermiera e una sua amica, mentre La Carriola, di nuovo di ambiente albanese, è la scabra rappresentazione di una solitudine infantile estrema. Straordinariamente complessa è la vicenda di Agron e Silvia, protagonisti di A pritni miq, due vitalissimi scriteriati che dopo essere fuggiti insieme per vivere un amore osteggiato dalla famiglia di lei, italiana quindicenne, sperimentano la potenza delle tradizioni albanesi in terra straniera sia nel bene che nel male, si amano, bisticciano e si rappacificano con dialoghi di esilarante semplicità e follia. Il lupo della steppa è ancora una conversazione casuale in treno tra Çoban, scrittore, e un signore pieno di buone intenzioni e di luoghi comuni, mentre Mrika non riesce a godersi le vacanze estive a Durrës. Morte di un personaggio è forse il mio preferito, e leggendolo si scopre il significato del geniale titolo del libro. Kastriot, il protagonista scrittore, per fare contenta sua madre si lancia in un'impresa azzardata e pericolosa, fa un incontro sorprendente con Veronica, il tutto mentre nella sua testa si agita la trama del romanzo che sta scrivendo. Le scene e i dialoghi che scandiscono gli incontri tra Kastriot e Veronica sono veramente straordinari, senza una sbavatura rendono plausibile l'assurdo acchiappando il lettore nelle loro spire.
Elvis Malaj è veramente maestro nel narrare rovesciamenti fulminanti in pochissime parole, nel taglio della scena e della vicenda: senza mai seguire la stucchevole deriva carveriana, ma dimostrandosi semplicemente maestro nel saper chiudere al momento giusto. E mi ha fatto piacere scoprire che sono passata da Bajzë, il suo paese d'origine. Se fossi stata meno frettolosa, se mi fossi guardata meglio intorno, forse avrei incontrato qualche abitante del luogo che parlava italiano, disposto a intrecciare con me una delle meravigliose conversazioni che Elvis Malaj mette in bocca ai suoi personaggi.
P.S. Alla presentazione si è parlato anche dell'orrore, stile aglio per i vampiri, che suscitano i racconti negli editori. So di ripetermi (e non me ne frega niente) in quanto appassionata di racconti sia come scrittrice che come lettrice. Ma non mi ero mai fermata a riflettere sul fatto che ormai si utilizzano eufemismi per la parola racconti, come se fosse un termine osceno. E' stata citata una quarta di copertina in cui si parlava di storie, ma naturalmente la scelta più sicura è short stories. Con quella si fa una doppia carambola e i racconti diventano quasi appetibili, visto che si può parlarne anche nella lingua ufficiale dell'Impero.
giovedì 5 ottobre 2017
Un mondo da scoprire: Mia Alvar, Famiglie ombra
Di tanto in tanto ci si imbatte in uno di quei libri che ti avvolgono con le loro parole, ti portano in un mondo nuovo e ti aprono orizzonti sconosciuti. Mi è accaduto con Famiglie ombra di Mia Alvar, scrittrice filippina nata a Manila, cresciuta in Bahrein, con studi a Harvard e alla Columbia, che ora vive a New York.
Sono racconti bellissimi, precisi e vividi, che spaziano su una vita, o seguono i personaggi in lunghi periodi. Non sono facili perché richiedono attenzione e un minimo di conoscenza della storia delle Filippine, anzi, molto meglio, costringono a andare a cercare notizie su personaggi per noi praticamente sconosciuti. Per esempio, io che sono ignorante, ho letto tutto un racconto senza rendermi conto che la protagonista era Corazon, Cory, Aquino, la discussa undicesima presidente delle Filippine, narrata nella sua quotidianità di donna, moglie e madre prima che l'uccisione del marito la proiettasse nella politica in prima persona. Complessa è anche la costruzione sapiente che alterna di continuo i piani temporali, però segnalati chiaramente con le date. Mia Alvar sa disegnare con coinvolgente vivezza personaggi e luoghi che toccano la diaspora filippina. Le storie si svolgono a Manila, nel Bahrein, a New York, e le protagoniste sono donne che lavorano o stanno a casa ma comunque si arrabattano e hanno un vivo senso della comunità e dell'identità di provenienza, anche quando non riescono a dimenticare le differenze sociali.
I personaggi sono indimenticabili. Il ragazzino senza gambe e con una madre discussa che subisce crudelissime persecuzioni dai compagni di scuola, la casalinga Cory Aquino che pensa a tutti tranne che a se stessa nella cornice estranea di un'università degli Stati Uniti vissuta in un quartiere strettamente filippino, l'infermiera moglie del giornalista in carcere di Milagros, il più corposo dei racconti, le ricche mogli dei tecnici emigrati in Bahrein che si illudono di essere democratiche invitando le compatriote lavoratrici una volta la settimana nelle loro case lussuose, e riescono a tenere in piedi la finzione finché una delle beneficiate non scompagina le carte, la quarantenne incolore e senza storia che si imbatte prima un amore inaspettato poi nella più crudele e ingiusta delle sorprese, sono tutti profondi, sfaccettati e dotati di una vita che va al di là delle pagine loro dedicate.
Si sente che Mia Alvar è una che ha letto tutti gli scrittori del momento, ha frequentato le giuste scuole ma per fortuna ha tra le mani un materiale talmente nuovo e interessante che la salva dai cliché letterari statunitensi contemporanei, sovente insopportabili e sempre stucchevoli. Ma è una grande narratrice che sa come attirare e rendere accoglienti le sue pagine e ipnotiche le storie. Spero che riesca a continuare così (anche se il racconto delle due torri, con il fastidioso vezzo della narrazione in seconda persona, è quello che mi è piaciuto di meno e fa un po' temere): questi sono racconti notevolissimi, totalmente riusciti, pieni di cose da dire, insomma necessari.
Mia Alvar è una scrittrice che seguirò volentieri e cui auguro il successo che merita (e ha già avuto negli Stati Uniti e altrove) anche in Italia, dove i filippini sono molti ma tutto sommato poco visibili e poco conosciuti. E grazie, ovviamente, a Racconti Edizioni per averla pubblicata anche qui, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Finirà che dovrò aprire un secondo blog dedicato esclusivamente a questa casa editrice, già sono tante le recensioni che ne ho scritto e a vedere le prossime uscite ne prevedo una raffica in tempi brevi...
Sono racconti bellissimi, precisi e vividi, che spaziano su una vita, o seguono i personaggi in lunghi periodi. Non sono facili perché richiedono attenzione e un minimo di conoscenza della storia delle Filippine, anzi, molto meglio, costringono a andare a cercare notizie su personaggi per noi praticamente sconosciuti. Per esempio, io che sono ignorante, ho letto tutto un racconto senza rendermi conto che la protagonista era Corazon, Cory, Aquino, la discussa undicesima presidente delle Filippine, narrata nella sua quotidianità di donna, moglie e madre prima che l'uccisione del marito la proiettasse nella politica in prima persona. Complessa è anche la costruzione sapiente che alterna di continuo i piani temporali, però segnalati chiaramente con le date. Mia Alvar sa disegnare con coinvolgente vivezza personaggi e luoghi che toccano la diaspora filippina. Le storie si svolgono a Manila, nel Bahrein, a New York, e le protagoniste sono donne che lavorano o stanno a casa ma comunque si arrabattano e hanno un vivo senso della comunità e dell'identità di provenienza, anche quando non riescono a dimenticare le differenze sociali.
I personaggi sono indimenticabili. Il ragazzino senza gambe e con una madre discussa che subisce crudelissime persecuzioni dai compagni di scuola, la casalinga Cory Aquino che pensa a tutti tranne che a se stessa nella cornice estranea di un'università degli Stati Uniti vissuta in un quartiere strettamente filippino, l'infermiera moglie del giornalista in carcere di Milagros, il più corposo dei racconti, le ricche mogli dei tecnici emigrati in Bahrein che si illudono di essere democratiche invitando le compatriote lavoratrici una volta la settimana nelle loro case lussuose, e riescono a tenere in piedi la finzione finché una delle beneficiate non scompagina le carte, la quarantenne incolore e senza storia che si imbatte prima un amore inaspettato poi nella più crudele e ingiusta delle sorprese, sono tutti profondi, sfaccettati e dotati di una vita che va al di là delle pagine loro dedicate.
Si sente che Mia Alvar è una che ha letto tutti gli scrittori del momento, ha frequentato le giuste scuole ma per fortuna ha tra le mani un materiale talmente nuovo e interessante che la salva dai cliché letterari statunitensi contemporanei, sovente insopportabili e sempre stucchevoli. Ma è una grande narratrice che sa come attirare e rendere accoglienti le sue pagine e ipnotiche le storie. Spero che riesca a continuare così (anche se il racconto delle due torri, con il fastidioso vezzo della narrazione in seconda persona, è quello che mi è piaciuto di meno e fa un po' temere): questi sono racconti notevolissimi, totalmente riusciti, pieni di cose da dire, insomma necessari.
Mia Alvar è una scrittrice che seguirò volentieri e cui auguro il successo che merita (e ha già avuto negli Stati Uniti e altrove) anche in Italia, dove i filippini sono molti ma tutto sommato poco visibili e poco conosciuti. E grazie, ovviamente, a Racconti Edizioni per averla pubblicata anche qui, con la traduzione di Gioia Guerzoni. Finirà che dovrò aprire un secondo blog dedicato esclusivamente a questa casa editrice, già sono tante le recensioni che ne ho scritto e a vedere le prossime uscite ne prevedo una raffica in tempi brevi...
venerdì 21 luglio 2017
Una scoperta preziosa: Philip Ó Ceallaigh, Appunti da un bordello turco
Di questo libro, il primo pubblicato dalla mirabile e mai abbastanza lodata casa editrice Racconti, confesso che mi ha colpito soprattutto il titolo geniale, Appunti da un bordello turco. Avrei da dire la mia sui bordelli turchi (e in effetti ci ho scritto su un racconto, Le principesse in fiamme, uscito nell'antologia di racconti erotici HOTtell), così ho comprato senza esitazioni questo libro di esordio dello scrittore irlandese Philip Ó Ceallaigh. Dico subito che ne sono stata conquistata: una corposa raccolta di racconti ambientati per lo più a Bucarest, di cui l'autore, che ci vive da una quindicina d'anni, dà un ritratto vivissimo.
Si tratta di storie pessimiste e desolate ma assolutamente non deprimenti, anzi, piene di senso del comico e vivaci, dinamiche, piene di sorprese. Philip Ó Ceallaigh ha il dono di saper rappresentare la vita nei suoi aspetti più agghiaccianti, nel suo squallore, senza per questo spaventare il lettore né allontanarlo dalle sue pagine che scintillano d'intelligenza e umanità, né dalle sue parole che avvincono per la grandissima perizia narrativa. Il paradosso sottende sempre le vicissitudi dei personaggi che non cadono mai nel grottesco né nel patetico, e la noia non sfiora mai chi legge. Protagonista è sovente un maschio abbastanza giovane, nullafacente o quasi, con velleità di scrittura, dedito all'alcol, sensibile al fascino femminile e spesso immischiato in situazioni complicate. Altro personaggio importantissimo e ricorrente è il "palazzo", il falansterio, eredità del regime in cui il protagonista abita invariabilmente al decimo piano. Grande pregio è anche la scrittura essenziale, priva di compiacimenti e luoghi comuni, tutta concreta e insieme tesa a mettere continuamente in comunicazione l'esterno con l'interno del personaggio.
Così si comincia alla veloce con Taxi, in cui un tassista ciarliero capisce troppo tardi che ci sono volte in cui è meglio tacere, per passare subito a Nel quartiere, il più articolato e corale dei racconti, in cui gli abitanti del palazzo vanno per i loro affari. Giovani sconclusionati e vecchi volenterosi, inquilini in bolletta e amministratore altrettanto squattrinato, tutti imbozzolati nella solitudine di chi si vive fianco a fianco, isolati ma in mezzo agli altri, riescono a creare sprazzi di solidarietà, di spalleggiamento tra solitari. Filosofia, sesso variamente mercenario, felice mancanza di inibizioni e amore per la cultura greca fanno di Who let the Dogs Out? un divertentissimo spaccato di vita spregiudicata. Dolcezza, resoconto di un formale invito a cena nei ricchi sobborghi di Phoenix, Arizona, è un agghiacciante ritratto dell'american dream visto da chi lo ha realizzato. Gli incontri che costellano la strada del protagonista di Camminando verso il Danubio scatenano complesse reazioni, mescolando generosità, minaccia, paura e la stanchezza di affrontare la vita. Denti rotti è il terribile resoconto di come Radu, un rottame di uomo, riesce a autodistruggersi distruggendo la sua unica speranza, andarsene in Canada a cominciare una nuova vita. Del tutto privo di speranza è anche La mia vita d'artista, in cui si parla della vita senza senso, del lavoro senza senso, della fatica, della mancanza di sonno, della pura sopravvivenza degli immigrati illegali nel distretto di Columbia degli USA.
Nel divertente La bestia, due vecchi amici scoprono un animale mai visto prima e tra di loro si scatena la competizione per il possesso della rarità. La soluzione è salomonica. Surreale Un'altra storia d'amore, mentre il minatore protagonista di Mentre affondo vede svanire le sue prospettive di cambiare vita tra l'orrore della miniera e Bucarest, città spaventosa. Una performance è quasi insostenibile nella
descrizione di un'agghiacciante spettacolo teatrale e delle reazioni di pubblico, impresario e artista.
Brutta avventura per lo sconsiderato scrittore di Appunti da un bordello turco, ambientata in una città portuale sul Mar Nero che non può essere che Trebisonda, forse non fascinosa quanto il nome suggerirebbe ma con un fronte del porto vivacissimo e straripante di bordelli a vista. Filantropia è un racconto bellissimo e di desolazione totale, forse il mio preferito, in cui un misantropo si dà un gran da fare per aggiustare le cose che lo tormentano, girando per Bucarest e facendo incontri disparati, ma alla fine era più vecchio di un giorno e la città rimaneva la stessa. La Moldavia, la Transnistria e Atene costituiscono lo scenario di Riportare i fatti, in cui dominano apatia e nichilismo, mentre la gelosia pervade Una serata d'amore e in Delitto e castigo uno squinternato alcolizzato con ricca fidanzata americana, in preda a follia, vaneggiamento e delirio maschilista, parla troppo e ne paga il fio. A New York, la sfiga perseguita il disoccupato di La vita, la morte e i miei ultimi cinque dollari, e la difficoltà di capirsi e di capire pervadono A pesca e La ritirata da Mosca. Traduzione di Stefano Friani.
Si tratta di storie pessimiste e desolate ma assolutamente non deprimenti, anzi, piene di senso del comico e vivaci, dinamiche, piene di sorprese. Philip Ó Ceallaigh ha il dono di saper rappresentare la vita nei suoi aspetti più agghiaccianti, nel suo squallore, senza per questo spaventare il lettore né allontanarlo dalle sue pagine che scintillano d'intelligenza e umanità, né dalle sue parole che avvincono per la grandissima perizia narrativa. Il paradosso sottende sempre le vicissitudi dei personaggi che non cadono mai nel grottesco né nel patetico, e la noia non sfiora mai chi legge. Protagonista è sovente un maschio abbastanza giovane, nullafacente o quasi, con velleità di scrittura, dedito all'alcol, sensibile al fascino femminile e spesso immischiato in situazioni complicate. Altro personaggio importantissimo e ricorrente è il "palazzo", il falansterio, eredità del regime in cui il protagonista abita invariabilmente al decimo piano. Grande pregio è anche la scrittura essenziale, priva di compiacimenti e luoghi comuni, tutta concreta e insieme tesa a mettere continuamente in comunicazione l'esterno con l'interno del personaggio.
Così si comincia alla veloce con Taxi, in cui un tassista ciarliero capisce troppo tardi che ci sono volte in cui è meglio tacere, per passare subito a Nel quartiere, il più articolato e corale dei racconti, in cui gli abitanti del palazzo vanno per i loro affari. Giovani sconclusionati e vecchi volenterosi, inquilini in bolletta e amministratore altrettanto squattrinato, tutti imbozzolati nella solitudine di chi si vive fianco a fianco, isolati ma in mezzo agli altri, riescono a creare sprazzi di solidarietà, di spalleggiamento tra solitari. Filosofia, sesso variamente mercenario, felice mancanza di inibizioni e amore per la cultura greca fanno di Who let the Dogs Out? un divertentissimo spaccato di vita spregiudicata. Dolcezza, resoconto di un formale invito a cena nei ricchi sobborghi di Phoenix, Arizona, è un agghiacciante ritratto dell'american dream visto da chi lo ha realizzato. Gli incontri che costellano la strada del protagonista di Camminando verso il Danubio scatenano complesse reazioni, mescolando generosità, minaccia, paura e la stanchezza di affrontare la vita. Denti rotti è il terribile resoconto di come Radu, un rottame di uomo, riesce a autodistruggersi distruggendo la sua unica speranza, andarsene in Canada a cominciare una nuova vita. Del tutto privo di speranza è anche La mia vita d'artista, in cui si parla della vita senza senso, del lavoro senza senso, della fatica, della mancanza di sonno, della pura sopravvivenza degli immigrati illegali nel distretto di Columbia degli USA.
Nel divertente La bestia, due vecchi amici scoprono un animale mai visto prima e tra di loro si scatena la competizione per il possesso della rarità. La soluzione è salomonica. Surreale Un'altra storia d'amore, mentre il minatore protagonista di Mentre affondo vede svanire le sue prospettive di cambiare vita tra l'orrore della miniera e Bucarest, città spaventosa. Una performance è quasi insostenibile nella
descrizione di un'agghiacciante spettacolo teatrale e delle reazioni di pubblico, impresario e artista.
Brutta avventura per lo sconsiderato scrittore di Appunti da un bordello turco, ambientata in una città portuale sul Mar Nero che non può essere che Trebisonda, forse non fascinosa quanto il nome suggerirebbe ma con un fronte del porto vivacissimo e straripante di bordelli a vista. Filantropia è un racconto bellissimo e di desolazione totale, forse il mio preferito, in cui un misantropo si dà un gran da fare per aggiustare le cose che lo tormentano, girando per Bucarest e facendo incontri disparati, ma alla fine era più vecchio di un giorno e la città rimaneva la stessa. La Moldavia, la Transnistria e Atene costituiscono lo scenario di Riportare i fatti, in cui dominano apatia e nichilismo, mentre la gelosia pervade Una serata d'amore e in Delitto e castigo uno squinternato alcolizzato con ricca fidanzata americana, in preda a follia, vaneggiamento e delirio maschilista, parla troppo e ne paga il fio. A New York, la sfiga perseguita il disoccupato di La vita, la morte e i miei ultimi cinque dollari, e la difficoltà di capirsi e di capire pervadono A pesca e La ritirata da Mosca. Traduzione di Stefano Friani.
venerdì 23 giugno 2017
Nel profondo sud degli Stati Uniti ne succedono di tutte: Eudora Welty, Una coltre di verde

Questa volta parlo di Eudora Welty, Una coltre di verde, il cui nome, confesso colpevolmente, mi è diventato familiare moltissimi anni fa, quando usavo Eudora come programma di posta elettronica, intitolato alla scrittrice proprio per via di un racconto (Com'è che abito all'ufficio postale) presente in questa raccolta, ma fino a pochi giorni fa non ne avevo letto niente. E mi ero persa molto.
I diciassette racconti hanno in comune una scrittura molto vivace, inventiva, molto moderna e antipaludata, splendidamente resa dai traduttori Vincenzo Mantovani e Isabella Zani. E anche questa è un'altra nota di merito cui sono particolarmente sensibile perché sulle traduzioni molto sovente scivolano anche le meglio case editrici - e questa volta invece sono ineccepibili. Interessante l'introduzione di Katherine Anne Porte del 1941 (anno della prima edizione con il titolo A Curtain of Green and Other Stories), tradotta da Stefano Friani (che è anche uno degli editori).
Quello di Eudora Welty è un occhio che tutto vede e tutto registra, nessun particolare è troppo insignificante, così in Lily Daw e le tre signore e L'uomo di pietra la patetica vicenda di Lily la ritardata e quella drammatica di Mrs Pike e Mr Petrie emergono a pezzi e bocconi da un mare di voci dialoghi chiacchiere fitte, pettegolezzi di paese, dal parrucchiere, per strada o nelle vecchie case, con una narrazione fatta dell'accumulo di piccoli particolari. Ci sono epifanie folgoranti (Un ricordo, Il vecchio Mr Marblehall, Visita di carità, Powerhouse, un eccezionale pezzo di bravura su un suonatore nero e i suoi orchestrali), storie di terribile tragicità sempre raccontate con mano lieve, lucidamente spietate, attraversate da vene sotterranee di ironia (Autostoppisti, Morte di un commesso viaggiatore, Fiori per Marjorie) e quello che mi è parso il più angoscioso racconto horror che abbia mai letto, Clytie, con la sua spaventosa famiglia.
La voce di Eudora Welty è estremamente controllata ma soprattutto sapiente, ricercatissima pur
nell'estrema naturalezza. Mai un filo di patetismo o di compiacimento, solo i ghirigori delle voci intrecciate a raccontare la vita a se stessi e agli altri. Le storie riguardano tutte un'umanità piccola che vive in un paese piccolo, nello stato del Mississippi dove la scrittrice ha trascorso tutta la vita. I personaggi sono quotidiani ma le vicende hanno spesso un epilogo tragico o almeno drammatico. I problemi del mondo grande tutt'attorno premono, la fame, la povertà, la segregazione razziale, le ingiustizie (Un sentiero battuto, La sirena, lo straziante La chiave, Keela, l'indianina reietta) perché la società su cui Eudora Welty si china è limitata ma scolpita a tutto tondo, tutte le miserie e le venture umane vi sono rappresentate, non si tratta certo di una bolla isolata. Poi naturalmente c'è Com'è che abito all'ufficio postale, con l'esilarante figura di Sister e la sua famiglia disfunzionale.
Molti personaggi sono attraversati da una sorprendente lama di bontà o almeno di empatia umana, come il flemmatico giovanotto dai capelli rossi di La chiave, il piazzista Tom Harris di Gli autostoppisti o il paziente Max di Keela, l'indianina reietta. Ma tutti i personaggi meriterebbero una presentazione individuale, o un'analisi approfondita dei viluppi relazionali in cui si dibattono, così come le vicende che spesso hanno un finale a sorpresa. Ma si tratta di racconti brevi, e spiegare troppo gli toglierebbe gran parte del fascino. Leggeteli e godeteveli, e magari rileggeteli (io l'ho fatto) per meglio apprezzare la costruzione abilissima delle vicende attraverso l'accumulo di particolari apparentemente trascurabili.
In qualche racconto (per esempio Una coltre di verde o Un ricordo) si sente una nota, un'eco di Katherine Mansfield o Virginia Woolf, ma appena appena per fortuna, uno sbuffo, come l'odore di una vivanda che è stata preparata nella stessa cucina. Eudora Welty è una maestra a pieno titolo e non ha bisogno di appoggiarsi a altri nomi per trarne lustro. E Una coltre di verde dimostra chiaramente perché mi affanno a ripetere, parlando sia come scrittrice che come lettrice, che il racconto è una forma letteraria autosufficiente, difficilissima da gestire, che dà un grande piacere alla lettura e non stanca mai. E grazie a Racconti Edizioni che l'ha capito e condivide con me questa passione.
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venerdì 17 marzo 2017
sabato 5 marzo 2016
Viva i racconti, e gli editori che li amano: benvenuta tra noi Racconti Edizioni!
Del tutto casualmente, girando in rete ho scovato una notizia che mi riempie di gioia e di aspettativa: sta per debuttare una casa editrice che si dedicherà interamente alla forma letteraria che più amo e pratico, e che generalmente gli editori schifano e tengono lontana come uno sciame di vespe: il racconto breve. E si chiamerà con sprezzo del pericolo Racconti Edizioni. Nasce da un'idea di Stefano Friani e Emanuele Gianmarco, editori, con Leonardo Neri per la redazione web e Giulia Marzetti all'ufficio stampa. Le prime tre uscite sono previste per maggio per cui ci siamo quasi: Appunti da un bordello turco dell'irlandese Philip Ó Ceallaigh, Lezioni di nuoto dell'indiano-canadese Rohinton Mistry e Sono il guardiano del faro del francese Éric Faye.
A metà marzo sarà online il sito della casa editrice www.raccontiedizioni.it, e dal primo marzo il blog Altri Animali che fungerà sia da supporto che da approfondimento culturale autonomo. E questo è il logo, che promette molto bene
Quindi posso assicurare che su queste pagine si riparlerà presto di Racconti Edizioni. Spero, mi auguro vivamente che il pubblico dei lettori si faccia acchiappare dai titoli invitanti e impari a amare i racconti, così magari verrà il giorno che non sentirò più le tipiche domande: ah, scrivi racconti? e quand'è che scrivi un bel romanzo, così ti posso leggere anch'io?
A metà marzo sarà online il sito della casa editrice www.raccontiedizioni.it, e dal primo marzo il blog Altri Animali che fungerà sia da supporto che da approfondimento culturale autonomo. E questo è il logo, che promette molto bene
Quindi posso assicurare che su queste pagine si riparlerà presto di Racconti Edizioni. Spero, mi auguro vivamente che il pubblico dei lettori si faccia acchiappare dai titoli invitanti e impari a amare i racconti, così magari verrà il giorno che non sentirò più le tipiche domande: ah, scrivi racconti? e quand'è che scrivi un bel romanzo, così ti posso leggere anch'io?
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