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domenica 9 agosto 2015

La verità, la guerra, l'ossessione e forse anche l'amore: Nadeem Aslam, La veglia inutile

Devo dire che sono arrivata alla fine di questo libro con molto sollievo, e non sono sicura di averne capito fino in fondo il significato. O meglio il messaggio, perché un messaggio c'è anche se coperto da un lussureggiare di bellissime immagini, di osservazioni pensose o folgoranti, che fanno ricordare a ogni riga che Nadeem Aslam è un poeta. Io nella mia semplicità ho capito questo: secondo l'autore tutto si può riassumere in: USA good, russi, comunisti, musulmani, pakistani, afgani no good. E diciamo che questo, forse, è il limite più grosso che mi ha impedito, malgrado i moltissimi pregi, di apprezzare quest'opera di Nadeem Aslam quanto "Mappe per per amanti smarriti" o "Note a margine di una sconfitta". Non che sia una patita di terrorismo islamico, beninteso: ma la mancanza di sfumature nei personaggi, nelle loro motivazioni e reazioni è eccessiva, li rende più partiti presi che figure realistiche in grado di suscitare empatia o rifiuto. 

Comunque. La storia è ambientata in Afghanistan, in una casa su un lago nelle vicinanze della città di Usha, che significa Lacrima. La casa, un tempo fabbrica di profumi, appartiene a Marcus, un anziano inglese espatriato per amore (ha sposato una afgana, Qatrina, e si è formalmente convertito all'Islam). Quatrina è morta all'epoca del dominio dei talebani, in circostanze che verranno chiarite nel corso dell'azione; con lui, nella sua casa, ci sono Lara (una russa che ha perso le tracce del fratello, soldato ventenne in Afghanistan ai tempi dell'occupazione) e David, americano ex agente della Cia cui Marcus è molto legato perché ha conosciuto, e amato, sua figlia Zameen, anche lei sparita nel gorgo delle guerre che da venticinque anni tormentano l'infelice paese. Ognuno cerca qualcuno, Lara il fratello Benedict, Marcus il figlio di Zameen di cui non si conosce il destino, David la verità su Zameen. A loro si aggiunge a un certo punto Casa, giovanissimo integralista islamico, terrorista votato al martirio, intorno al quale finiranno per condensarsi tutte le vicende. Ma la verità, così difficile da trovare e così facile da nascondere o manipolare, forse è tanto dolorosa che alla fine è meglio non conoscerla del tutto.   

Molto simbolica è la fabbrica di profumi sotterranea, in cui è contenuta una colossale testa di Buddha rinvenuta in loco che, colpita, ha sanguinato oro: il passato sereno e armonioso dell'Afghanistan, sepolto sotto la violenza, l'odio e il dolore del presente? E la barca che David e Carta costruiscono insieme, destinata a non navigare mai sul lago? Di simboli e rimandi è intessuta la storia, come un prezioso ricamo antico.

È un libro bello, scritto benissimo, pieno di colpi di scena, complesso e ricco di personaggi e citazioni colte, notizie interessanti e squarci decisamente poetici: ma gli nuoce, secondo me, la totale mancanza di ambiguità anche se i personaggi compiono giravolte continue e le verità si capovolgono sovente. È anche un libro molto duro, che volutamente insiste a raccontare crudeltà davvero spaventose, disumane, sempre attribuite ovviamente ai soliti, mentre le crudeltà minori degli americani (tipo lasciar trucidare villaggi interi sapendo in anticipo di un attacco, ma non avvertendo le vittime per non far capire al nemico di aver intercettato un ordine; a questo proposito è imperdibile, al limite del comico, la discussione dei rapporti tra USA e Arabia Saudita) sono sempre fatte a fin di bene, con uno scopo finale altruista e nobilissimo. E sarà, non voglio dire niente. Tutto sommato è un bene, così si digeriscono atrocità che altrimenti sarebbero veramente disturbanti: ma va a finire che a Nadeem Aslam non si riesce a credere fino in fondo. O forse, semplicemente io non riesco a credere fino in fondo.

Edizione originale 2008, uscito in italiano lo stesso anno con la traduzione di Delfina Vezzoli. 

martedì 8 aprile 2014

Nadeem Aslam, Note a margine di una sconfitta: un gran bel romanzo che parla di guerra e di vita; Mappe per amanti perduti, perché l'amore non basta a tenere uniti.

La quarta di copertina di questo romanzo non la dice proprio giusta, e forse fa bene perché con tutta probabilità se fosse stata sincera non l'avrei comprato. E avrei fatto malissimo, perché è un romanzo davvero speciale, di quelli che lasciano il segno, fanno pensare e avvincono durante la lettura senza afferrare le viscere del lettore o tirargli calci nella pancia. Tutto il contrario, per dire, dell'orrido (e di bassissima lega) Il cacciatore di aquiloni. Anche qui si parla di Afghanistan, di guerra e di talebani, ma a tutt'altro livello, e l'autore, non abbracciando il punto di vista dell'Occidente (rappresentato nella violenta e spietata forza delle armi e dei dollari americani), conserva un equilibrio ammirevole narrando dall'interno dell'Islam e riuscendo così, senza dare giudizi, a esemplificare gli squilibri di una società condannata a nutrire in seno la pianta velenosa dell'integralismo e del terrorismo.

Siamo a Heer, città immaginaria in Pakistan, poco dopo l'11 settembre 2001, e in Afghanistan gli americani hanno scatenato l'operazione Enduring Freedom. L'anziano Rohan, ex proprietario di una scuola ora trasformata in luogo di formazione per terroristi, ha due figli naturali, Jeo e Yasmine, due adottivi, Mikal e Basie, e un grande cruccio perché l'amatissima moglie Sofia è morta da apostata malgrado tutti i suoi sforzi per ricondurla alla fede. Il ventenne Jeo, studente di medicina, nonostante sia sposato con la diciannovenne Nadeen, parte per l'Afghanistan per dare aiuto alla popolazione locale, e Mikal lo segue. Mikal e Nadeen si sono amati prima del matrimonio di lei, e si amano ancora, ma la vita ha disposto diversamente per loro. Da questo nodo di rapporti personali e spaventosi avvenimenti storici nasce la vicenda che vede protagonista Mikal, venduto a un signore della guerra appena messo piede in Afghanistan, poi prigioniero degli americani, da tutti torturato e quasi ucciso, poi in fuga da tutti, sempre alla ricerca di Jeo e con il desiderio di Nadeen nel cuore.

La trama (di cui taccio perché l'ansia di vedere che cosa succederà nella pagina successiva è uno dei motivi di fascino di questo romanzo) è complessa, insieme molto costruita e insensata, proprio come la guerra che le fa da sfondo. I numerosi personaggi (oltre ai già citati, Tara la madre vedova di Nadeen, David il soldato americano, il fachiro dalle catene, padre Mede, e molti altri) sono tutti necessari e delineati con acuta e felice sommarietà, come gli schizzi a matita dei diari di viaggio degli antichi esploratori. E viaggiano molto, corrono come animali inseguiti avanti e indietro tra Pakistan, Waziristan e Afghanistan, tra città e deserto, tra colline e praterie di fiori gialli, tra moschee che sorgono in mezzo al nulla e scuole affollate di bambini e ragazzi. Ci sono tutti i regni della natura: il bellissimo giardino di Rohan con i suoi alberi nominati con i loro nomi come figli, curati con amore, conosciuti e osservati in tutte le loro trasformazioni; le colline e le montagne di cui l'autore nomina le formazioni geologiche con precisa attenzione perché anche quella è storia, meno cruenta e distruttiva di quella umana; gli animali riassunti nel cucciolo di leopardo delle nevi, affidato da una donna a Mikal per confortarlo nelle sue dolorose vicende, che ognuno dei molti in cui si imbatte vuole tenere per sé, per godere della morbidezza della sua pelliccia e del calore del suo peso in grembo; e gli uomini e le donne, naturalmente, non certo i migliori né i più necessari.

E alla fine la sconfitta è di tutti, perché anche gli innocenti, anche i giusti fanno errori dalle conseguenze spaventose. Sono sconfitti i talebani feroci e ottusi, gli americani feroci e prepotenti, i signori della guerra feroci e avidi, ma anche i poveri e i semplici, i credenti sinceri, quelli che cercano di comportarsi con giustizia e compassione, perché la guerra è una sconfitta in sé comunque si concluda. E tra i molti legami che si stringono tra gli uomini, anche se l'amore ha un grande peso, il più importante appare quello tra fratelli, e sorelle: fratelli di sangue e adottivi, fratelli acquisiti, fratelli perché si combatte dalla stessa parte, e alla fine fratelli perché tutti condividiamo la stessa natura umana.

Questo libro non è viscerale ma neanche freddo, è desolatamente oggettivo, è difficile perché non è consolatorio né semplificatorio. Questo risultato è ottenuto attraverso un linguaggio poetico che crea distacco anche nelle scene più crudeli. Non bisogna dimenticare che Nadeem Aslam nasce come poeta, ed è figlio di un famoso poeta pakistano, citato anche nelle pagine del romanzo. E quanto più bello e significativo di quello italiano è il titolo originale, The blind man's garden, con allusione alla cecità cui Rohan è condannato e insieme metafora della vita umana. Non fatevi spaventare dal fatto che si parli di guerra. Non è un romanzo di guerra, è un bel romanzo sull'uomo e la fragilità delle passioni umane. Fa vedere dall'interno che cosa è stata la guerra in Afghanistan che ormai abbiamo dimenticato tutti, il caos, l'ingiustizia e le spaccature insanabili che ha provocato. Ci dice che l'istinto di salvarsi dell'uomo è insopprimibile, e che anche il confine tra morti e vivi è labile. Alla fine, la morte vince sempre ma la continuità della vita è altrettanto forte e inestinguibile.
L'autore, nato nel 1966 in Pakistan, è emigrato in Inghilterra all'età di quattordici anni. Attualmente vive tra Londra e Kabul. Presto leggerò anche La veglia inutile. Bella traduzione di Delfina Vezzoli.

Intanto consiglio vivamente il bellissimo Mappe per amanti perduti, uscito nel 2006 sempre nella traduzione di Delfina Vezzoli.        

Questo romanzo doloroso e affascinante ha richiesto undici anni di lavoro al suo autore. Ambientato ai giorni nostri in una cittadina in cui vive una numerosa comunità di immigrati provenienti dal subcontinente indiano, ha per protagonista Shamas, musulmano, sposato con Kaukab, più legata al mondo da cui proviene che alla realtà in cui vive, e padre di due figli grandi, un maschio che ha sposato un’inglese da cui ha avuto a sua volta un figlio e si è già separato, e una ragazza in fuga da un matrimonio tradizionale. Shamas è direttore del Comitato per le relazioni della comunità, abituato a trattare i  complicati rapporti tra gli immigrati spesso incapaci di parlare inglese, ignoranti delle leggi, e le autorità governative. Il suo è un incarico importante che lo porta a frequentare indù e sihk, e a differenza degli altri membri della comunità islamica è uomo di ampie vedute, indifferente al bisogno di restare fedele alle tradizioni religiose. Ma un giorno suo cognato Jugnu e Chanda, una ragazza musulmana con cui convive pubblicamente, spariscono senza lasciare tracce. Sospettati sono i fratelli della ragazza, poi arrestati per l’omicidio della coppia che però non viene mai ritrovata. Da qui si innesca un percorso straziante durante le quattro stagioni del mondo occidentale (in Pakistan le stagioni sono cinque, inverno, primavera, estate, monsone, autunno) in cui Shamas si inoltra con grande fatica, incontrando un amore tardivo e storie terribili di incomprensione tra le diverse religioni, violenza familiare, impossibilità di accettare le tradizioni e incapacità di staccarsene del tutto per integrarsi nel paese di arrivo. Si parla degli immigrati di oggi, che possono permettersi di tornare in Pakistan in vacanza, liberi dalla necessità primaria della fame e della miseria, ma sempre in bilico tra due mondi e stritolati da entrambi. Molto curato nella scrittura, ricco di personaggi interessanti e problematiche per ora irrisolte, Mappe per amanti smarriti è un romanzo pieno di vita, che insegna molto su una civiltà con cui ci troviamo tutti a fare i conti e lascia una traccia profonda nel lettore.