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domenica 23 dicembre 2012

Nostalgia canaglia: Rudyard Kipling e Downton Abbey, Ivo Andrič e l’infanzia, Edmondo De Amicis e le bambole



Io non sono una che si commuove sui bei tempi andati, non rimpiango né l’infanzia (dio mi scampi)  né le cameriere in crestina e guanti né i valori perduti né quando la vita era più semplice ecc ecc (dio mi scampi il doppio). Mi piace abbastanza quello che mi vedo in giro e mi secca tantissimo pensare che da un certo momento in poi, senza scomodare la fine del mondo, mi perderò un sacco di novità e cambiamenti. Però mi piace sbirciare in altri tempi come mi piace sbirciare in altri luoghi, e l’occasione di questo post sono le tre ultime letture che ho fatto, fortemente connotate al passato e in grado di scatenare nostalgie di vario tipo.
Rule Britannia. Sto seguendo con molto piacere il serial Downton Abbey, ottimamente fatto e pieno di attori così bravi che sembra impossibile non siano tutti star galattiche. Quest’estate ho letto le memorie di una cuoca inglese, Below stairs di Margaret Powell (ora pubblicato da Einaudi Stile Libero, con il titolo di Ai piani bassi, traduzione di Carla Palmieri e Anna Maria Martini), sul mondo delle grandi case viste dal seminterrato; adesso è stato il turno di un libro di Rudyard Kipling, The eyes of Asia, quattro racconti ambientati durante la prima guerra mondiale e pubblicati nel 1918. Non so se siano stati tradotti in italiano; non sono riuscita a trovarne notizia come libro a sé stante, ma probabilmente sono presenti in qualche collettanea di racconti. Se leggete in inglese e avete un Kindle, li potete scaricare aggratis su Amazon. Riportano all’atmosfera e al momento storico raccontato in Downton Abbey, un momento in cui l’impero britannico era ancora ben lontano dal disfacimento, l’orgoglio e il patriottismo riempivano tutti i petti e la guerra li esaltava. Il buon Rudyard, solitamente ottimo scrittore di racconti (leggete Plain tales from the hills e i racconti dell’orrore tipo il celeberrimo Il risciò fantasma, oltre che L’uomo che volle farsi re e altri; per non parlare di un romanzo come Kim, pieno di ammirazione e conoscenza dell’India) si abbandona qui al suo penchant  per il colonialismo e l’imperialismo dando voce a quattro soldati dell’esercito britannico, tre indiani e un afgano, sikh e musulmani ovviamente, gli indù non erano buoni soldati per il Raj, che scrivono ai famigliari in patria. Uno, ferito, è ospite di una magione nobiliare trasformata in convalescenziario militare: l’esatta situazione di Downton Abbey. Gli altri si trovano in Francia, alloggiati presso famiglie locali che li trattano come figli, le padrone di casa si preoccupano di quello che mangiano, che siano ben coperti, che i loro vestiti siano puliti e disinfestati. Tutti si stupiscono di come sono ben trattati (non faccio niente e nessuno si arrabbia con me! gli inglesi scrivono le lettere per me sotto dettatura come se fossero scrivani da bazar! le donne sanno leggere e scrivere! i bambini non portano gioielli così nessuno li assale per derubarli, vanno a scuola, portano le bestie al pascolo! persino i cani si rendono utili badando alle bestie, ecc ecc), sono pieni di ammirazione per il livello di civiltà che li circonda, per come sono ben coltivati i campi, perché la gente non bisticcia e non mente (mah!!! intanto sono lì per una guerra che è un massacro, e mi pare un po’ peggio di una lite tra compaesani), si commuovono per la morte sotto le bombe di una piccina tanto vivace e graziosa. Insomma, gli occhi saranno pure quelli dell’Asia ma il ventriloquo che fa parlare i personaggi è un europeo convintissimo della sua superiorità (la cosa curiosa è che molta di questa ammirazione asiatica è dedicata ai francesi, solitamente non proprio oggetto di stima per gli spocchiosi inglesi). Perché leggerlo? Perché letto con gli occhi dell’Europa, e di oggi, è divertente e molto istruttivo. Perché anche voi state seguendo Downton Abbey (e se non lo fate, non sapete che cosa vi perdete). Perché è un atto di presunzione che può far riflettere anche oggi, che moltissimi “occhi dell’Asia” ci osservano tutti i giorni da molto vicino, e sicuramente non sono benevoli e pieni di ammirazione come quelli di Kipling.   
Seconda tappa nel mondo della nostalgia, i racconti di Ivo Andrič Litigando con il mondo. Ragazzi che giocano nell’indimenticabile Vişegrad di Il ponte sulla Drina, e studiano a Sarajevo. Ragazzi che vivono un’infanzia di una libertà nemmeno immaginabile per quelli di oggi chiusi sempre in spazi protetti, siano le loro stanzette piene di giochi o le palestre, i campi sportivi, le aule scolastiche, le macchine, ecc. Questi racconti, scritti tra il 1936 e il 1958, colgono i giovani protagonisti nel momento in cui si scontrano con un particolare della vita che non capiscono: questo li costringe a interrogarsi, a fare uno sforzo per appropriarsi di un pezzetto di comprensione in più, e in questo processo inevitabilmente crescono. Sono anche interessantissimi spaccati di vita in un paese sempre in bilico tra Europa e Oriente, e ancora di più tra modernità e un modo di vivere immobile, antico, ormai decisamente esotico per il lettore moderno. Leggete a questo proposito Il Panorama, in cui il protagonista viene completamente stregato da una sorta di lanterna magica che presenta scene di vita da tutto il pianeta, e si forma una sua idea del mondo in cui vive a partire da quelle fotografie, immaginando anche la vita futura dei personaggi che vi appaiono, in una vertigine immaginativa che lascia senza fiato. O La gita e La torre, dove i giochi si svolgono in scenari gravidi di passato e di storia ormai incomprensibili ma pur sempre carichi di significato emotivo. E le mamme di oggi rabbrividiranno al pensiero dei loro figli intenti nei passatempi descritti in Sulla riva, dove i bambini attraversano a nuoto la Drina avanti e indietro finché non fa troppo freddo per continuare: […] La fredda acqua verde scuro, ricoperta dalle ombre del crepuscolo, li accolse facendoli rabbrividire, mentre la corrente trascinava via i loro corpi leggeri, stanchi e affamati dopo tanti bagni. Ma loro opponevano resistenza, nuotavano, lanciando strilli per il freddo e dirigendo gli sguardi verso la riva illuminata. Altro motivo di nostalgia, oltre a quello che scaturisce dalla descrizione di un mondo che non potremo mai conoscere perché sparito ormai da troppo tempo, è la scrittura elegante, calma, preziosa, capace di raccontare storie infantili senza venire meno alla sua perfezione. E poi, ricordo il piacere provato quando ho letto Il ponte sulla Drina, uno di quei libri che mi hanno aperto il cuore e la mente come un mio personale Panorama. Ancora adesso certi libri mi rapiscono ma non ho più i vent’anni di allora e non è più la stessa cosa. Ricordo anche che lo imprestai a un mio moroso del tempo (mi è sempre piaciuto condividere i libri che amo molto) magnificandoglielo, e quello quasi mi strozzò perché la scena iniziale del romanzo è un impalamento molto minuzioso, assai migliore di quello descritto da Mo Yan in Il supplizio del legno di sandalo. Mai capiti quelli che rabbrividiscono virtuosamente per le scene di violenza, sesso, perversione ecc nei libri. Son parole, mica fatti, se son ben scritte leggerle è un piacere, se sono brutte non fanno impressione perché falliscono il loro scopo, no? Mah. Comunque, quello dopo pochissimo mi ha mollata. 
L’ultima nostalgia letteraria per oggi è suscitata dalla lettura del racconto di Edmondo De Amicis Il “Re delle bambole”, Sellerio 1980, non credo che riuscirete a trovarlo, io ho avuto la fortuna di scovarlo nella nuova libreria Il Ponte sulla Dora in via Pisa, a Torino. E qui la nostalgia è privatissima, e si è scatenata quando ho aperto la prima pagina e ho letto Così lo chiamano molte delle sue piccole clienti, ed è Gerardo Bonini, inventore, fabbricante e negoziante di bambine inanimate, che ha la bottega in via Roma. Quel nome, Bonini, mi ha riportata di gran corsa alla mia infanzia in cui uno dei piaceri più grandi, concesso con magnanimità ogni volta che si passava nei paraggi perché assolutamente privo di rischio economico, era andare a vedere le vetrine del negozio di giocattoli Bonini, in piazza Solferino. Santissima ingenuità della mia età bambina. Mai mi sarebbe venuto in mente che qualcuno di quei tesori in vetrina avrebbe potuto diventare mio, erano inattingibili, al di là di qualsiasi rapporto con la realtà. Puro regno del desiderio e del sogno. Mi bastava sognare, e anche adesso mi piace tantissimo guardare con desiderio vetrine cariche di tesori che non possiederò mai e non desidero neppure possedere. Be’, per tornare a De Amicis, questo breve racconto, quasi più un articolo-intervista che una narrazione, è molto godibile anche se non indimenticabile. Lo scrittore si bea della vista delle bambole e dal giocattolaio si fa raccontare delle sue piccole clienti, come si comportano per ottenere le bambole di cui si sono incapricciate, dell’amore che le lega a quel mondo anche quando sono cresciute, e per parte sua si lascia andare all’immaginazione facendosi trascinare in una ridda di creature meccaniche un po’ buffe un po’ inquietanti. Con tono amabile e sotteso di ironia, fatica a allontanarsi dalla bottega e confessa alla fine della visita Insomma… mi divertivo. Non ho ben capito la postfazione di Carlo A. Madrignani, che vuol vedere in questo resoconto discorsivo e sorridente un sottofondo di inquietudine. Io ho giocato furiosamente con le bambole, ne ho amate alcune di un amore appassionato, e non ho mai perdonato a mia madre che a mia insaputa una volta ne ha fatto un bel sacco e le ha regalate alle suore dell’oratorio. Va be’, storia passata, ma ancora mi si torce lo stomaco a pensarci. Ora, la nostalgia nasce anche dal fatto che il negozio di Bonini ha chiuso di recente. Certo, ci sono effetti della crisi molto più pesanti, ma questo non glielo perdono. Non ci sarà mai più nessuna vetrina come quella.  

venerdì 31 agosto 2012

Per anglofili praticanti: Below stairs di Margaret Powell e altri consigli


Below Stairs, di Margaret Powell, è un libro autobiografico uscito nel 1968, in cui l’autrice racconta la sua vita di cuoca residente presso famiglie abbienti negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Ebbe un grande successo in patria, ispirò serie televisive e film, tra cui in parte anche la fortunatissima (e davvero notevole) serie tv inglese Downton Abbey, che a ottobre tornerà in televisione con la seconda stagione. Margaret Powell, nata a Hove, in Gran Bretagna, nel 1907, iniziò a lavorare a quindici anni come sguattera di cucina, migliorò la sua posizione fino diventare cuoca, poi abbandonò la carriera per sposarsi con un lattaio con cui ebbe tre figli maschi. Durante la seconda guerra mondiale fu costretta a tornare a lavorare come domestica a ore. Più tardi, per poter condividere i discorsi dei figli che studiavano in scuole esclusive, si mise a studiare e pubblicò queste memorie che le dettero fama e denaro. Morì nel 1984. Recentemente (dicembre 2012) è uscita l'edizione italiana per Einaudi Stile Libero, con il titolo (che non mi pare granché) Ai piani bassi, con la traduzione di Carla Palmieri e Anna Maria Martini.
Per un lettore italiano, io penso, questo libro non risulterà così appassionante come per gli inglesi. La prima parte, che racconta un’infanzia povera in una famiglia numerosa, è francamente poco interessante per l’atteggiamento della scrittrice, del genere “ai miei tempi non avevamo la televisione ma ci divertivamo molto di più”. In controluce ci si legge anche una classe operaia molto diversa da quella italiana, con abitudini assai più sociali e emancipate, ma la miseria è brutta dappertutto e le storie di Margaret Powell toccano corde piuttosto conosciute. Man mano che la ragazza cresce e si addentra nella vita lavorativa, la sua coscienza di classe aumenta, e così pure il suo risentimento per le differenze economiche e soprattutto per l’ineffabile presunzione di superiorità dei datori di lavoro – si sa che gli inglesi non brillano per democraticità sociale né per semplicità nei modi. Le vicende specifiche, le condizioni di lavoro, i personaggi appena sbozzati sono molto meno interessanti, anche perché si sente che Margaret Powell non è una scrittrice, la sua maniera di narrare è piatta e un po’ noiosetta. Per intenderci, non è Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro. Comunque, un valore documentario ce l’ha, e piacerà soprattutto agli anglofili impenitenti che non si stancano mai di cene di sette portate e parafuoco di ottone lucidi. 
Consiglio di leggerlo insieme al Diario di una lady di provincia, di E. M. Delafield, del 1930,  uscito nel 2010 da Neri Pozza con la traduzione di M. Pareschi. Qui abbiamo la visione del mondo delle padrone di Margaret Powell, le signore capaci di vivere con grazia e grande scialo di sense of humour, understatement e chi più ne ha più ne metta, la loro situazione di privilegio mai messa in discussione. Il mondo è fatto così, a scale appunto, chi nasce lady può trovare il tempo, tra le mille incombenze della sua vita indaffarata, di vedere il mondo attraverso la lente dell’ironia, chi nasce cuoca è costretta a prendere tutto sul serio. Certo la lady di Delafield è divertente, si permette di essere blandamente eccentrica, sa quanto e come si possono infrangere le regole senza uscirne affatto, ride di se stessa, dei propri tic, delle proprie limitazioni, delle proprie insicurezze, tanto ha ben chiara la propria collocazione sociale che niente può mettere in discussione. Lettura che più leggera non si può ma molto efficace nel far sorridere di un mondo (credo) scomparso, dove lo snobismo era tale che la mancanza di denaro poteva essere oggetto di autoironia e, sotto sotto, di un certo autocompiacimento.
I due libri sono perfetti per gli anglofili desiderosi di prendere un tè con una gentildonna, servito da una cameriera in guanti bianchi. Chi ha apprezzato, che so, Gosford Park di Altman, si aspetti qualcosa di meno cattivo, di meno preciso, ma certamente più genuino: due libri che sono proprio stati scritti rispettivamente upstairs e downstairs. E non si perdano Downton Abbey, la serie più costosa della televisione inglese, con attori superbi, ambientazioni che fanno sognare e vicende appassionanti, sia ai piani alti che nel seminterrato.