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giovedì 1 agosto 2019

Altro che mojito o Lonely Planet, ogni turista in Grecia e in Turchia dovrebbe avere in mano questo libro: Didò Sotiriou, Addio Anatolia

Bene, mi rivolgo a tutti i turisti che affollano le isole greche e i croceristi delle coste turche: vorrei che d’ora in poi, invece del passaporto o della carta d’identità, diventasse obbligatorio un attestato di avere letto questo libro. Mi piacerebbe sapere quanti dei gaudenti di Mikonos hanno le idee chiare sulla meghali katastrofì o sullo scambio di popolazione tra Grecia e Turchia. E niente suvlaki o döner kebab, niente uzo o raki (anzi niente mojito o margarita, niente acquagym o gioco aperitivo visto che in genere è questo che i vacanzieri cercano indifferentemente da dove sono) per chi non è preparato.

Faccio la furba ma anch’io, che frequento questi luoghi da tanto di quel tempo che non sto a specificare per non sembrare Babbo Natale, l’ho scoperto non tantissimi anni fa, leggendo e viaggiando. Sono fatti che conosciamo poco, in genere ne sappiamo molto di più sulla guerra di Troia, eppure non sono così remoti: risalgono agli anni 10-30, all’incirca, del secolo scorso. Ora, è ovvio che la storia si studia e si approfondisce, ma per cominciare il romanzo Addio Anatolia di Didò Sotiriu basta e avanza. E va benissimo, perché è anche un bel romanzo.
Allora, in due parole: nell’attuale Turchia vivevano milioni di greci fin dai tempi della Grecia classica, in colonie fondate dalle città stato per sistemare la popolazione in esubero in luoghi ricchi di pianure e buona terra dove coltivare olivi, vite e grano. E dove commerciare ovviamente. Come nell’Italia del sud, o a Marsiglia. Furono conquistati dai romani, poi fecero parte dell’Impero Bizantino, infine furono invasi prima dai Selgiuchidi poi dagli Ottomani con cui vissero in pace e collaborazione per secoli. Erano cristiani ortodossi ma in gran parte parlavano turco, erano contadini produttori di olio, fichi, uva passa, o grandi mercanti a Smirne e Istanbul dove c’erano anche comunità ebree e armene. In pace e armonia, dicevamo, con campi d’attività diversi, senza mescolarsi ma capaci di essere amici e aiutarsi al bisogno.

Questa situazione cominciò a deteriorarsi all’inizio del ‘900, con lo sgretolamento dell’Impero ottomano. I primi a subirne le conseguenze furono gli armeni, poi con la Prima Guerra Mondiale, i passi falsi del governo e della monarchia greca, e soprattutto con la disastrosa invasione greca dell’Asia Minore che portò appunto alla cosiddetta meghali katastrofì (non traduco apposta, si capisce benissimo) si arrivò alla tragedia eufemisticamente detta scambio di popolazione, in seguito alla quale circa un milione e mezzo di greci d’Asia lasciarono le loro terre e i loro averi per andare in territorio greco, e lo stesso fecero circa quattrocentomila turchi che vivevano in territorio greco e si spostarono in Turchia. Con conseguenze che si fecero sentire per decenni.
Ora, è ovvio che queste due parole sono imprecise, insufficienti, non affrontano aspetti fondamentali ma erano necessarie per introdurre il libro. Quello che spero è che spingano chi le legge a informarsi meglio e di più. Intanto, un buon punto di partenza può esserlo proprio Addio Anatolia. 

Dice Didò Sotiriu nella prefazione alla prima edizione (1962) del romanzo: “La figura di Manolis Axiotis, il narratore del libro, simboleggia il contadino dell’Asia Minore arruolato nei battaglioni di lavoro durante la guerra del 1914-18, che in seguito ha vestito la divisa dell’esercito greco, e che ha assistito alla catastrofe del suo popolo, che ha vissuto la prigionia e la vita difficile del profugo, che per quarant’anni ha lavorato come portuale e sindacalista, e che infine ha combattuto nella Resistenza. Un giorno è venuto a trovarmi e mi ha consegnato un quaderno con le sue memorie. Da quando era andato in pensione, si era messo a riportare, con la sua scrittura incerta, gli eventi di cui era stato protagonista negli ultimi sessant’anni.”

Non so se si tratti di un espediente narrativo o se sia vero, ma le vicende di Manolis Axiotis, a cominciare dall’infanzia nel villaggio di Kirkintzès (attuale Şirince, iperturistico luogo di ristorantini e produzione vinicola) presso Ayasuluk, oggi Selçuk, ovverosia la colonia greca più famosa, Efeso, sede del tempio di Artemide, una delle sette meraviglie del mondo - e anche la sua storia vale la pena di essere riscoperta, poi nell’immane tragedia della guerra, la prigionia, la fuga, senza dimenticare gli affetti familiari e gli amori, sono davvero appassionanti. L’autrice, nata in quegli stessi luoghi nel 1907, ci tiene moltissimo a sottolineare l’armonia dei tempi di pace e l’assurdità degli avvenimenti che portarono alla catastrofe, in primo luogo la follia dei potenti e dei governi (tra cui la Germania, decisamente, non gode delle sue simpatie). È molto interessante sia la descrizione delle tradizioni contadine, i metodi di coltivazione e i rapporti con Smirne e i suoi mercanti, che il racconto preciso e tremendo delle condizioni di vita dei soldati nei cosiddetti “battaglioni di lavoro” e dei fuggiaschi sulle impervie montagne dell’Anatolia. Traduzione di Maurizio De Rosa

Perciò quando dico che ogni turista che frequenta quei luoghi dovrebbe leggere Addio Anatolia, non voglio fare né la maestrina saccente né la professoressa severa, ma consigliare un romanzo leggibilissimo, scorrevole, forse non problematico ma capace di aprire orizzonti davvero stimolanti per chi non si ferma alle vetrine di souvenir.
(Il solito avviso degli ultimi post è ancora valido, i link al mio ritorno). Una mia recensione dello stesso romanzo, più completa e approfondita dal punto di vista storico, potere trovarla qui  https://consolata-anacondaanoressica.blogspot.com/2008/09/anatolia-addio-di-did-sotiriu.html?m=1 

giovedì 18 settembre 2008

Una tragedia poco nota: Anatolia addio, di Didò Sotiriu

Tra i libri di quest'estate, alcuni fanno parte di una mia passione che si accordava perfettamente con i luoghi in cui mi trovavo. Si tratta di romanzi di autori greci contemporanei, tra cui Addio Anatolia di Didò Sotiriu, pubblicato dalla benemerita casa editrice Crocetti che ha un'intera collana dedicata alla Grecia. Questo romanzo, uscito in edizione originale nel 1962, è stato il massimo successo editorale del mercato greco. In effetti racconta con lancinante nostalgia l'età dell'oro di una consistente parte della popolazione greca: quando vivevano in Anatolia, per dirla più chiaramente in Turchia, dove erano stanziati da millenni e avevano coabitato con i Turchi per secoli, fino alla "meghali catastrofì" del 1922, in cui tra stragi (soprattutto da parte dei turchi, ma i greci non si comportarono con minore crudeltà quando ne ebbero l'occasione) e esodi dolorosissimi, si ritrovarono a vivere in Grecia, la patria lontana vagheggiata e idealizzata, dove però non fu facilissimo integrarsi.

La Sotiriu, con l'artificio del manoscritto affidatole da un anziano reduce, narra prima l'idilliaca situazione dei greci contadini nella regione di Smirne (la vicenda si svolge a Şirince, villaggio nei dintorni di Selçuk e di Efeso, ed è tuttora famoso per la produzione di vino, oltre a avere l'aspetto tipico di un villaggio greco dell'interno, con chiesa scuola ecc) coltivatori ricchi e felici di olivi, fichi e viti, e la loro vita di lavoro ma anche di feste, di tradizioni, di libertà, in pacifica convivenza con i turchi, assai più poveri e arretrati. E in effetti fa impressione visitare i paesi dove i greci erano insediati, anche molto all'interno della Turchia, fin in Cappadocia, a Trebisonda e oltre, e vedere la bellezza, la grandiosità, la grazia e la raffinatezza delle loro abitazioni, che ora vengono, in parte, restaurate e trasformate per lo più in alberghi. Sono case antiche che parlano di opulenza e di cultura. In un albergo bellissimo di Mustafà Pascià, in Cappadocia, dove il proprietario attuale (un turco dalle mille iniziative e dagli occhi più attenti che abbia mai visto in vita mia) ha avuto la saggezza di non ristrutturare l'edificio, limitandosi a aggiungere bagni alle stanze, ho visto un patetico dattiloscritto in greco, rilegato in plastica con la spirale, in cui era ricostruita una specie di genealogia delle famiglie che abitavano il villaggio prima della cacciata, completa di fotografie abbastanza struggenti. Evidentemente qualche visitatore greco l'aveva regalata al proprietario, che sicuramente non era in grado di leggerla ma la offriva in visione agli ospiti. E capita ogni tanto di imbattersi in qualche pullman carico di greci, solitamente capitanati da un pope, in visita alle chiese in abbandono (ce n'è una molto suggestiva dedicata a S. Elena e S. Costantino a Mustafà Pascià) o ai lughi di culto, come un convento a Istanbul in cui la tradizione vuole che sia conservata la vasca rituale degli imperatori bizantini. Certo dentro ci sarà reducismo, nazionalismo, revanscismo e nostalgismo, ma anche ricerca delle proprie radici familiari, e visto dall'esterno fa un certo effetto, come tutte le volte che si è testimoni di qualcosa che è sparito, in questo caso un pezzo di civiltà morto ma dal cadavere ancora ben conservato. Dall'altra parte in un opuscolo pubblicitario di un villaggio ex greco che è diventato una specie di Portofino per i ricchi smirnioti, a proposito della cacciata dei greci si parlava di "cambio di popolazione".

Il resto della vicenda è la narrazione di una situazione che va di male in peggio. Con il progressivo
indebolimento dell'impero Ottomano si svegliano gli appetiti delle potenze europee che vogliono approfittarne; Sotiriu tende a dare tutta la colpa agli europei che per le loro mire soffiano sul fuoco e sobillano i turchi contro i greci. Turchi che nelle sue parole ogni tanto sembrato tanti zio Tom improvvisamente ribelli (e pensare che era tanto affezionato! e anche io gli volevo bene, malgrado fosse turco!). Comunque con l'avvento di Ataturk e dei suoi Giovani Turchi, l'intervento degli eserciti stranieri, compreso quello italiano, il nazionalismo avventato e aggressivo dei greci della madrepatria, che per un attimo sognarono persino di riconquistare Costantinopoli, è guerra, una guerra di spaventosa crudeltà da ambo le parti, e infine i superstiti che riescono a fuggire si rifugiano nelle isole più vicine, Samos, Chios, Lesbos, e di qui poi raggiungono Atene dove ancora oggi un quartiere si chiama Nea Smirni. Le pagine conclusive che narrano gli spaventosi giorni dell'incendio di Smirne e le violenze perpetrate sulla popolazione civile sono le più potenti del romanzo, in notevole equilibrio con i capitoli iniziali dell'idillio nostalgico.

E' un libro forse un pochino (volutamente, credo) retorico o finto ingenuo, ma è di lettura gradevolissima e informa su un pezzo di storia poco noto. Fa capire perché ancora oggi tra Grecia e Turchia ci siano attriti pesanti, non solo a proposito di Cipro ma per scoglietti dove non vive una capra e non ci sono dieci centimetri quadri in piano. E anche perché quando si passa la frontiera via mare ti sfiniscono di controlli, code, attese, domande. Molto più i greci, tignosi in maniera davvero assurda, che i turchi naturalmente. I greci ricordano il paradiso perduto e i turchi se lo godono. Anche se almeno per un po' le ricchezze agricole dei greci furono rovinate dall'incapacità dei turchi di coltivare vite e olivo. Sradicarono le colture redditizie, le sostituirono con tabacco e allevamento. Però adesso si direbbe che hanno imparato eccome. Hanno macchine agricole, irrigazione
dappertutto, la pianura alle spalle di Smirne è nuovamente coperta di viti, e penso che per qualsiasi greco il confronto tra la sua terra tutta scoscesa, rocciosa, dove ogni centimetro quadro pianeggiante è coltivato, e questa sterminata pianura verde sia doloroso.
E viaggiando nell'interno, si fanno incontri storici evocativi. Gordio, quella del nodo e di Mida. Sardi, la città di Creso. Amasya, dove regnava Mitridate e nacquero Diogene e Strabone. Per non parlare di Efeso, Mileto, Priene, Magnesia eccetera eccetera. Qualche ragione di sentirsi a casa i greci ce l'avevano. Addio Anatolia.
Altri romanzi di argomento attinente sono Il Labirinto di Panos Karnezis (Guanda), Il settimo vestito di Evghenia Fakinu (Crocetti), Le streghe di Smirne (e/o) di Mara Meimaridi.
Altra recensione a Addio Anatolia su questo blog, del 2019