Mi fa sempre piacere parlare di Mo Yan, uno dei miei grandi amori letterari, e sono molto contenta di poter dire che Cambiamenti è decisamente un bel libro, anche se non ha niente a che vedere con il resto della sua produzione. In poco più di cento pagine ci racconta la sua vita, dipanando una concisa autobiografia che inizia dagli anni dell'infanzia fino al momento in cui raggiunge la fama letteraria.
Gli episodi raccontati sono curiosi e interessanti, a partire da quelli relativi ai compagni di classe delle elementari, alcuni dei quali sono destinati a ricomparire nei momenti topici. C'è il maestro Liu Bocca larga, protagonista di un mitico incidente durante una partita di ping pong, la bella Lu Wenli, compagna di banco del narratore, notevole per le sue grazie e anche perché suo padre guida un camion Gaz-51 di produzione sovietica, rapido come il vento, veloce come una saetta, dall'aspetto imponente e minaccioso, che affascina Mo Yan e gli altri scolari, in particolare He Zhiwu che sognava di diventare proprio il padre di Lu Wenli, e il cui destino si incrocerà nuovamente più volte con quello di Mo Yan.
Il quale, cacciato da scuola, le prova tutte per farsi largo nella vita, e infine riesce a entrare nell'esercito. La sua storia, le vicissitudini che accompagnano la sua carriera (o meglio, la sua mancanza di carriera nell'esercito), i tentativi infine riusciti di studiare e laurearsi, gli scontri con la burocrazia ottusa, e le altre vicende più o meno banali di un'esistenza qualsiasi sono raccontate con ul linguaggio piano, scorrevole e ironico, privo degli arditi barocchismi e delle esagerazioni che tanto mi hanno affascinato così come della tendenza alla narrazione fluviale dei romanzi, soprattutto gli ultimi. Ma l'occhio dello scrittore è acuto, smaliziato, osserva con equilibrio, distacco e divertimento gli incontri con gli antichi compagni, i loro diversi destini, segue il mitico Gaz-51 di produzione sovietica nelle sue incarnazioni, e pur astenendosi da giudizi politici o storici se ne legge tra le righe il distacco. Mo Yan è nato nel 1955 quindi ha vissuto in pieno gli anni del maoismo ma i riferimenti alle vicende storiche sono molto scarni, dati di fatto e non opinioni.
Questo non è un racconto storico ma una ricostruzione privata di alcuni aspetti autobiografici, molto scorrevole, veloce e interessante, ricco di episodi curiosi che danno una visuale insolita di quegli anni. Un Mo Yan diverso per me, ma sempre decisamente godibile. Se per caso vi interessa leggere le mie recensioni precedenti, qui potete trovare Il supplizio del legno di sandalo, Il paese dell'alcol, Grande seno fianchi larghi, Le rane, Le sei incarnazioni di Ximen Nao, Sorgo rosso.
Visualizzazione post con etichetta Mo Yan. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Mo Yan. Mostra tutti i post
sabato 12 gennaio 2019
lunedì 6 marzo 2017
Che ve ne sembra della Cina? Mo Yan, Le rane
Un altro romanzo in cui, con grande dispiacere, ho trovato meno di quello che mi aspettavo è Le rane del mio amato Mo Yan (edizione originale 2009). Intendiamoci, è un gran bel romanzo, davvero notevole se pensiamo a quello che circola, ma...
L'io narrante, Wan Zu detto Girino, militare e drammaturgo, ci racconta la storia di sua zia, Wan Xin, osterica nella zona a nord di Gaomi (che ogni lettore di Mo Yan conosce bene in quanto teatro della maggior parte dei suoi romanzi), che si intreccia con la storia della Cina fin dall'epoca dell'occupazione giapponese.
Il centro della vicenda è nel periodo della campagna di contenimento delle nascite lanciata dal Partito Comunista Cinese, di cui Wan Xin è integerrima rappresentante. Molte sono le tragedie personali che nascono dalla necessità di evitare le gravidanze, o interromperle se disgraziatamente si supera il numero di figli permesso. Wan Zu ne è personalmente coinvolto, e una folla di personaggi secondari si aggira intorno al protagonisti. Questa parte è la più interessante e chiara, ma poi le cose si complicano e si attorcigliano introducendo gli argomenti più svariati compresa la maternità surrogata. La conclusione è insolita e non facilissima da digerire.
Ho riassunto moltissimo e semplificato enormemente, perché penso che il piacere della lettura in questo libro dipenda molto dalla prospettiva insolita da cui viene narrata la storia, e dalla ricchezza di personaggi stravaganti o molto umani che incrociano la strada di Wan Xin e Wan Zu. La mia (relativa delusione) dipende dal fatto che non vi ho trovato quella fiammeggiante scrittura che mi ha fatto innamorare di Mo Yan fin dai tempi di Sorgo rosso. Meno violento e immaginifico, meno soprendente e espressionista dei precedenti romanzi, anche se qualche impennata barocca c'è, per fortuna (i bambini di creta) e verso la fine l'autore finalmente si scatena in parole fantastiche, è tuttavia molto godibile e ci racconta un sacco di cose che la maggior parte della gente ignora sulla Cina e la sua storia, e per di più dal di dentro e non, come negli stucchevoli best seller americani, giusto per confermare l'Occidente nei suoi stereotipi. Inoltre q
Un'osservazione del tutto cretina: nel testo Mo Yan parla spesso di palpebra unica contrapposta alla palpebra divisa e io non riuscivo bene a capire che cosa volesse dire, ma guardando la sua foto ho improvvisamente avuto tutto chiaro!
La fluida traduzione è di Patrizia Liberati.
L'io narrante, Wan Zu detto Girino, militare e drammaturgo, ci racconta la storia di sua zia, Wan Xin, osterica nella zona a nord di Gaomi (che ogni lettore di Mo Yan conosce bene in quanto teatro della maggior parte dei suoi romanzi), che si intreccia con la storia della Cina fin dall'epoca dell'occupazione giapponese.
Il centro della vicenda è nel periodo della campagna di contenimento delle nascite lanciata dal Partito Comunista Cinese, di cui Wan Xin è integerrima rappresentante. Molte sono le tragedie personali che nascono dalla necessità di evitare le gravidanze, o interromperle se disgraziatamente si supera il numero di figli permesso. Wan Zu ne è personalmente coinvolto, e una folla di personaggi secondari si aggira intorno al protagonisti. Questa parte è la più interessante e chiara, ma poi le cose si complicano e si attorcigliano introducendo gli argomenti più svariati compresa la maternità surrogata. La conclusione è insolita e non facilissima da digerire.
Ho riassunto moltissimo e semplificato enormemente, perché penso che il piacere della lettura in questo libro dipenda molto dalla prospettiva insolita da cui viene narrata la storia, e dalla ricchezza di personaggi stravaganti o molto umani che incrociano la strada di Wan Xin e Wan Zu. La mia (relativa delusione) dipende dal fatto che non vi ho trovato quella fiammeggiante scrittura che mi ha fatto innamorare di Mo Yan fin dai tempi di Sorgo rosso. Meno violento e immaginifico, meno soprendente e espressionista dei precedenti romanzi, anche se qualche impennata barocca c'è, per fortuna (i bambini di creta) e verso la fine l'autore finalmente si scatena in parole fantastiche, è tuttavia molto godibile e ci racconta un sacco di cose che la maggior parte della gente ignora sulla Cina e la sua storia, e per di più dal di dentro e non, come negli stucchevoli best seller americani, giusto per confermare l'Occidente nei suoi stereotipi. Inoltre q
Un'osservazione del tutto cretina: nel testo Mo Yan parla spesso di palpebra unica contrapposta alla palpebra divisa e io non riuscivo bene a capire che cosa volesse dire, ma guardando la sua foto ho improvvisamente avuto tutto chiaro!
La fluida traduzione è di Patrizia Liberati.
mercoledì 10 febbraio 2016
A volte ritornano, ma Mo Yan non è un fantasma, lui vive e lotta insieme a noi: Il paese dell'alcol
Dal momento che Einaudi ha da poco pubblicato Il paese dell'alcol di Mo Yan, mio grande amore un po' appannato dagli anni e dalla consuetudine, a cura di Maria Rita Masci e con la traduzione di Silvia Calamandrei, ripubblico la recensione del 31/01/2009 che ho scritto dopo aver letto la versione inglese, nella traduzione dal cinese di Howard Goldblatt.
Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica (forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine, pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine, bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza illeggibile.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.
Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica (forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine, pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine, bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza illeggibile.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.
Etichette:
Il paese dell'alcol,
Mo Yan,
The repubblic of wine
domenica 21 giugno 2015
Non sempre è saggio cercare gli antichi amori... ma certe volte la passione rinasce malgrado gli anni e il disincanto

Confesso che all'inizio ho faticato, i personaggi sono molti e le vicende complicatissime, ma poi l'antica magia mi ha ripreso e sono precipitata in un cortile della cittadina di Gaomi, teatro di altre storie ne note come mi sono accomodata sotto l'albicocco storto e ho partecipato alle mille storie che si svolgevano come su un palcoscenico intanto che la storia della Cina procedeva al galoppo dagli anni cinquanta del novecento fino alla fine del secolo. Ximen Nao è un proprietario terriero che viene giustiziato come nemico del popolo agli inizi del maoismo ma non vuole riconoscersi colpevole davanti a Yama, re degli inferi, e viene così condannato alla reincarnazione finché non avrà spurgato ogni traccia di rabbia per essere stato ucciso. Rinasce il 1º gennaio 1950 nel villaggio che porta il nome della sua famiglia, Ximen, nel corpo di un asino, diventando poi un toro, un maiale, un cane e una scimmia, e finalmente un essere umano.
Ximen Nao aveva una moglie sterile e due concubine, dalle quali aveva avuto rispettivamente due femmine e un maschio e una femmina i cui destini nel corso del romanzo si intrecciano inestricabilmente. Una delle due donne si risposa con Lan Lian, un contadino con mezza faccia blu che rifiuta ostinatamente di partecipare alla collettivizzazione delle terre rimanendo indipendente malgrado pressioni e ostracismi, e due suoi figli, Ximen Jinlong di primo letto e Lan Jefang di secondo, sono i protagonisti intorno ai quali si arrotolano vicende straordinarie, che risentono della vena fantastica di questo fantastico autore e nello stesso tempo rispecchiano le vicende storiche della Cina: il maoismo, la rivoluzione culturale, la morte di Mao, la liquidazione dell'ideologia comunista, la trasformazione dell'economia sociale in un selvaggio capitalismo che tocca punte di follia pura, con capovolgimenti di fortune personali, eroi della rivoluzione che impazziscono delusi dal tradimento degli ideali, la corruzione che si insinua dappertutto, l'ambizione che sostituisce il merito, e tutto quello che abbiamo letto sui giornali ma di cui forse non abbiamo capito esattamente il senso.
La trama, in apparenza costruita attraverso un accumulo di episodi un po' stordente, in realtà ha una struttura ferrea. Attraverso le due linee di successione dei protagonisti, Ximen Jinlong e Lan Jefang, seguiamo l'evoluzione delle due eredità della Cina: da una parte il figlio del proprietario terriero si trasforma successivamente in funzionario di successo quindi in capitalista rampante (il suo ultimo progetto, un parco a tema sulla Rivoluzione, è davvero fantastico), per approdare a un finale tragico, dall'altra il figlio dell'unico contadino indipendente di tutta la Cina refrattario alle novità (la cui diversità è annunciata dalla faccia blu che si tramanda da una generazione all'altra) dapprima si adatta, subisce fatalisticamente le trasformazioni, poi reagisce scegliendo individualisticamente l'amore e la passione contro il proprio interesse e infrangendo la tradizione, ma tutto conduce all'esplosione di follia amorosa finale in cui finiscono travolti gli esponenti della terza generazione, in una visione tutto sommato disperata. Tutto sotto l'occhio acuto e i commenti delle cinque bestie e dell'ultima reincarnazione di Ximen Nao, il "bambino dalla testa grossa". Non c'è lieto fine per la Cina degli affaristi senza scrupoli che hanno saputo cavalcare qualunque onda, ma neppure per la Cina contadina paziente e rassegnata.

Le voci narranti che si alternano son l'una umana (Lan Jefang) e l'altra bestiale (Ximen Nao, nelle sue varie reincarnazioni): il punto di vista dei cinque animali è irresistibile, mentre a poco a poco dimenticano il proprio passato umano, il ricordo delle emozioni e dei pensieri di Ximen Nao si fa sempre più labile mentre la natura di bestie prende il sopravvento. I più divertenti e movimentati sono forse il maiale e il cane, ma anche il toro non è certo deludente, e gli episodi irresistibili sono molti. Ogni tanto l'azione si scatena in frenetici balletti, come quello esilarante delle giacche di pelle mongole sequestrate, riprese, vendute, risequestrate a dimostrazione che l'arte di arrangiarsi e l'ottusità della burocrazia sono universali. Tra i moltissimi personaggi c'è anche Mo Yan, sempre presentato fin da bambino come ambizioso, bugiardo, fastidioso, incapace di capire i momenti che vive ma soprattutto inaffidabile e cattivo scrittore, in un giochetto forse un po' insistito, prima di diventare anche lui voce narrante nella parte finale dove scoppia un parossimo di crudeltà e follia che fa pensare che Mo Yan non sia ottimista sul presente della sua patria.
E' un libro molto corposo (736 pagine nell'edizione cartacea) che richiede attenzione e tempo, non si può leggere una pagina prima di dormire, ha spessore e complessità per dieci. C'è dentro materiale romanzesco e riflessione storica che a un autore normale basterebbero per una decina di romanzi. Ho ritrovato tutto quello che mi aveva fatto innamorare, l'immaginazione sfrenata, la capacità di scivolare nel fantastico senza cambiare tono, la meravigliosa scrittura antinaturalista e espressionista al massimo, i personaggi complessi e divertenti, l'ironia, il grottesco, gli eccessi; in più qui c'è anche una vena poetica che si esprime nelle molte scene dedicate alla luna. Mi ha riconciliato con quel filino di noia che mi aveva preso leggendo The repubblic of wine, nell'ormai lontano 2009. La mia ammirazione per Mo Yan è incondizionata, non è certo la prima volta che la esprimo.
Non bisogna temere però che il senso, e la riflessione politica o esistenziale che stanno sotto al testo lo appesantiscano. Mo Yan è un narratore, uno che ha come primo scopo quello di accumulare storie, personaggi, scene sfrenatamente divertenti o grottesche, immagini stupefacenti, sorprese, descrizioni poetiche e fantastiche. E' meno violento di altri suoi libri, ma certo non è mai sentimentale né buonista né politicamente corretto. Se avessi a disposizione un paio di reincarnazioni e meno libri accumulati in attesa di lettura, Le sei reincarnazioni di Ximen Nao lo rileggerei volentieri.
La fluida traduzione è di Patrizia Liberati, e all'inizio c'è un opportunissimo elenco dei personaggi che aiuta molto nella lettura. Comunque per apprezzarlo ricordatevi di dare a Mo Yan quel che è di Mo Yan: molta attenzione, concentrazione e tempo. E la mia prossima mossa sarà leggere Le canzoni dell'aglio, che mi aveva divertita moltissimo quando l'ho letto tradotto in inglese e finalmente è uscito in italiano.
Etichette:
Le sei incarnazioni di Ximen Nao,
maoismo,
Mo Yan,
storia della Cina
venerdì 12 ottobre 2012
Il Nobel a Mo Yan, sono quasi più contenta io di lui!
Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è
espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e
sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i
suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a
scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e
scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si
arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze
mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono
coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi
pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un
grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia
senza fondo.
Con questa spudorata autocitazione comincio il peana di allegrezza in onore di Mo Yan, autore che amo appassionatamente dal lontano 1994, quando lo lessi per la prima volta in Sorgo rosso. E liquidiamo qui, e non ne parliamo più, la stupidissima questione se è un sostenitore del regime o no. O forse tutti i cinesi, un miliardo e trecentotrentaseimila milioni quanti sono, dovrebbero prendere su e farsi incarcerare o emigrare in Francia per essere presi in considerazione dai critici della domenica? Mo Yan è uno scrittore, un grande scrittore, e fa esimiamente il suo dovere di scrittore, cioè scrivere. Non so granché della sua vita, e non mi interessa molto. Mi interessa leggere i suoi libri, e trarne infinito piacere. Sono anche felice perché i miei due più grandi amori letterari contenporanei, Mo Yan e Orhan Pamuk, hanno avuto il riconoscimento che si meritano.
Ne ho scritto su queste pagine parecchie volte, a proposito ad esempio di The Republic of wine, non ancora tradotto in italiano, che a dire il vero ha un po' scosso i miei appassionati sentimenti, e anche a proposito della rappresentazione letteraria della violenza, in cui il Nostro eccelle. Un altro testo che ho amato moltissimo è The garlic ballads, anch'esso non ancora tradotto. La bibliografia in italiano di Mo Yan è questa: Sorgo rosso (1994), L'uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), Cambiamenti (2011).
Qui pubblico due recensioni scritte a suo tempo per la gloriosa rivista LN-LibriNuovi, con cui ho avuto il piacere e l'onore di collaborare a lungo.
Con questa spudorata autocitazione comincio il peana di allegrezza in onore di Mo Yan, autore che amo appassionatamente dal lontano 1994, quando lo lessi per la prima volta in Sorgo rosso. E liquidiamo qui, e non ne parliamo più, la stupidissima questione se è un sostenitore del regime o no. O forse tutti i cinesi, un miliardo e trecentotrentaseimila milioni quanti sono, dovrebbero prendere su e farsi incarcerare o emigrare in Francia per essere presi in considerazione dai critici della domenica? Mo Yan è uno scrittore, un grande scrittore, e fa esimiamente il suo dovere di scrittore, cioè scrivere. Non so granché della sua vita, e non mi interessa molto. Mi interessa leggere i suoi libri, e trarne infinito piacere. Sono anche felice perché i miei due più grandi amori letterari contenporanei, Mo Yan e Orhan Pamuk, hanno avuto il riconoscimento che si meritano.
Ne ho scritto su queste pagine parecchie volte, a proposito ad esempio di The Republic of wine, non ancora tradotto in italiano, che a dire il vero ha un po' scosso i miei appassionati sentimenti, e anche a proposito della rappresentazione letteraria della violenza, in cui il Nostro eccelle. Un altro testo che ho amato moltissimo è The garlic ballads, anch'esso non ancora tradotto. La bibliografia in italiano di Mo Yan è questa: Sorgo rosso (1994), L'uomo che allevava i gatti (1997), Grande seno, fianchi larghi (2002), Il supplizio del legno di sandalo (2005), Le sei reincarnazioni di Ximen Nao (2009), Cambiamenti (2011).
Qui pubblico due recensioni scritte a suo tempo per la gloriosa rivista LN-LibriNuovi, con cui ho avuto il piacere e l'onore di collaborare a lungo.
IL SUPPLIZIO DEL LEGNO DI
SANDALO
Einaudi
2005, ed. orig. 2001, pp. 504, € 20,00, trad. di Patrizia Liberati
La
scrittura di Mo Yan è talmente densa che iniziando a leggere un suo libro si ha
l’impressione di nuotare in una piscina di mercurio. O se preferite di un
minestrone sontuoso, pieno di aromi e gustose verdure, insaporito da pezzi di
cotenna, zampetti di maiale, sensuali morbidezze e bocconi inaspettatamente
duri. E’ anche espressionista al massimo, ogni oggetto, persona, animale, si
carica di colori, emana fragranze e puzze e umori, si deforma e trasforma,
porta ai limiti estremi le percezioni sensoriali. Non descrive ma si fa
direttamente quello che rappresenta. E’ concreta, materiale, iperrealista,
capace di cortocircuiti folgoranti e crudezze tanto necessarie da non urtare.
Gli occhi mandano raggi di luce verde, la rabbia si manifesta sotto forma di
aloni rosso sangue, gli uomini stentano a nascondere la loro natura bestiale,
nei momenti cruciali appaiono come tigri, orsi, lupi, maiali, cani, serpenti.
Di animali sono piene le pagine, e labile è il confine che li separa dagli
uomini.
Altra
capacità straordinaria di Mo Yan è quella di costruire storie solidamente
radicate nella Storia, legate alle vicende più complesse e scottanti della Cina,
rappresentandole come su un palcoscenico i cui attori sono indifferentemente le
più umili comparse e personaggi reali. Ma anche la realtà è deformata,
visionaria. Non si pensi al realismo magico di stampo sudamericano o alla
deformazione grottesca degli scrittori indiani: è l’occhio dello scrittore a
agire come una lente ora troppo vicina ora troppo lontana, applicandosi con
spietato e partecipe distacco alle vicende umane.
Come
in Sorgo rosso e Grande seno, fianchi larghi (LN – LibriNuovi 24, inverno 2002),
teatro dell’azione è il distretto di Gaomi, nello Shandong in cui Mo Yan è nato
nel 1995. Siamo all’inizio del ‘900, all’epoca in cui le potenze coloniali
cercano di appropriarsi del territorio cinese. L’agonizzante dinastia Quing è
dominata dall’Imperatrice Cixi, il Vecchio Buddha, mentre l’Imperatore
Xianfeng, tisico e imbelle, regna solo nominalmente. Sono gli ultimi anni
dell’Impero. I tedeschi stanno costruendo una ferrovia che distrugge le tombe
degli antenati, i campi e i canali di irrigazione, sconvolge il fengshui dei villaggi, spaventa le
popolazioni contadine. A Masangzhen la bella Sun Meiniang, sposata a un idiota
impotente, macellaio di cani e maiali, ha intrecciato una relazione
appassionata con il magistrato locale, Quian Ding, a sua volta sposato con una
dama di grandi natali ma poco portata ai piaceri dell’amore. Il padre di
Meiniang, Sun Bing, è un attore dell’Opera dei Gatti, forma popolare di teatro
di strada, nata come lamentazione funebre e capace di sconvolgere la mente di
chi vi assiste; suo suocero, Zhao Jia, è un grande e famoso boia che gode dei
favori della casa imperiale. Tra il padre e l’amante di Meiniang nasce una
rivalità a proposito delle reciproche barbe, motivo di orgoglio virile e
mortale contrapposizione. Sun Bing patisce terribili prepotenze e ingiustizie
da parte dei tedeschi, diventa ribelle, si fa adepto dei Boxer che gli
insegnano il pugilato magico, trasformandosi nel difensore del popolo
sbigottito ma pugnace. La sua lotta è destinata alla sconfitta, Zhao Jia sarà
colui che officerà, con la sua inarrivabile perfezione professionale, il
tremendo supplizio del legno di sandalo. Cixi ha già deciso che certe pratiche
troppo crudeli, anche se condotte con abilità sovrumana, devono essere
abbandonate per compiacere gli stranieri. E’ la fine di un mondo. Né Zhao Jia,
il boia, né Quian Ding, il magistrato che ha superato a pieni voti gli esami
imperiali, compassionevole ma vigliacco, hanno più futuro. Il finale è un
irresistibile crescendo di colpi di scena, epico e tragico.
I
personaggi di Mo Yan sono di una potenza incredibile. Senza mai indulgere allo
psicologismo si staccano sullo sfondo storico con una loro immensa verità. Le
donne, apparentemente secondarie in questo mondo di maschi viziati, hanno un
rilievo fondamentale. La nonna di Sorgo
rosso, la madre di Grande seno,
fianchi larghi, l’amorosa Meiniang “fresca come una pesca appena colta”
sono centrali e importanti senza uscire dal loro ruolo di vittime della storia.
Niente genealogie femminili di sapienze sotterranee, solo donne concrete, che
vivono e agiscono con la forza dell’intelligenza e del carattere. In questo
romanzo diviso in tre parti, La testa
della fenice, Lo stomaco del maiale, La coda della pantera, si alternano
monologhi in prima persona e racconti in terza persona, con un forte effetto
teatrale.
Un
solo avvertimento: questo non è un libro per anime belle. Si mangia con piacere
la carne di cane, fragrante e gustosa, i supplizi (del chiavistello del re
degli inferi, dei cinquecento tagli) sono descritti dettagliatamente, quello
finale, del legno di sandalo, è tristemente simile all’impalamento turco che
Ivo Andrič racconta nel magnifico romanzo Il
ponte sulla Drina. Mo Yan è uno scrittore di grandezza assoluta, che
meriterebbe una fama assai maggiore a quella di cui gode da noi. Ma per
leggerlo bisogna abbandonare le coordinate occidentali del politicamente
corretto, della sensiblerie, e
affrontare con coraggio la cruda realtà della storia e della vita.
La
traduzione di Patrizia Liberati è splendida. Forse un minimo di paratesto,
qualche notizia storica sul periodo in cui si svolgono i fatti, non sarebbero
stati di troppo.
GRANDE SENO, FIANCHI
LARGHI
Di Mo Yan, uno dei maggiori scrittori cinesi non espatriati,
nato nel 1955, aspettavo da tempo con ansia una nuova traduzione. L'ultima è L'uomo che allevava i gatti, Einaudi
1997, una raccolta di racconti.Questa, efficacissima nella resa in un italiano
ricco e fluido, è di Bruno Trentin.Grande seno, fianchi
larghi è la storia della Cina dalla fine degli anni Trenta all'ultimo
decennio del secolo scorso, vista come il riflesso delle fiamme sul viso di chi
assiste a un incendio. Seguiamo le conseguenze dei rivolgimenti politici e
militari che travagliano il paese attraverso le vicende di una famiglia di
contadini poveri, in un villaggio del distretto di Gaomi (che è anche il luogo
natale dell'autore), senza che l'incalzare degli avvenimenti venga rallentato e
appesantito da digressioni storiche. I centri del potere sono lontani, dei
grandi leader non si sa nulla. Il nome di Mao appare in tutto due volte,
marginalmente, per indicare la foggia di un abito. Da una società rurale di
stampo feudale, attraverso infinite trasformazioni, si giunge fino al
capitalismo cannibale di oggi. Il centro del mondo è Gaomi: come su un
palcoscenico, i rappresentanti delle varie forze in lotta si presentano al
villaggio, recitano la loro parte poi si ritirano dietro le quinte, lasciandosi
dietro fame, carestia, morte, odi e vendette. Contano solo le frenetiche
vicissitudini locali, che nella loro piccolezza rispecchiano e esemplificano la
Storia.
L'inizio è folgorante. Nella
famiglia Shangguan si stanno svolgendo contemporaneamente due parti: uno,
importantissimo, è dell'asina che deve mettere al mondo un mulo, l'altro,
trascurabile, è della nuora Shangguan Lu, capace solo di partorire sette
femmine. Finalmente nasce l'agognato maschio, Shangguan Jintong, insieme a una
gemella cieca. Illegittimo, frutto di una relazione con un missionario
cattolico svedese, è biondo con gli occhi azzurri. Il marito della madre e il
nonno vengono uccisi subito dopo la sua nascita dai giapponesi, il missionario
si suicida, Shangguan Lu rimane sola con i figli. Cocco di mamma in quanto
maschio, Jintong sembrerebbe destinato a realizzare grandi cose, invece la sua
vita sarà un susseguirsi di disgrazie senza senso e punizioni spropositate. Ma
le alterne fortune della famiglia Shangguan dipendono soprattutto dalle figlie,
ognuna delle quali si accoppia con uomini che rappresentano le varie fasi
storiche e le tendenze politiche di quegli anni: un membro della resistenza
antigiapponese pronto a tradire per interesse, un proprietario terriero
antirivoluzionario, un militare comunista, un deportato in Giappone, persino un
americano consigliere dei reazionari. Una si vende a un proprietario di
bordello per fame, un'altra viene venduta a una nobildonna russa. Alcune
impazziscono, tutte fanno una fine tragica. Ogni volta che mettono al mondo dei
figli li affidano alla madre, che tutti alleva con affetto e premura, ma non
riesce sempre a salvarli dalle colpe dei genitori. E' lei, Shangguan Lu, la
vera eroina del romanzo, la grande madre che allatta e nutre e non rifiuta mai,
la madre terra eterna sempre pronta a combattere per la vita, l'unica che non
cambia dall'inizio alla fine della vicenda.
L'io narrante, Jintong, allattato
dalla madre fino ai sette anni e poi dipendente da un capretta fino ai
quattordici, sviluppa una fissazione sul seno che gli condiziona la vita.
Questo tema, prefigurato nel titolo, percorre tutto il romanzo, dando origine a
episodi ora tragici ora grotteschi. Ma Jintong, al di fuori dell'ambiente
intensamente femminile della sua famiglia, ha rapporti difficili con le donne,
è vittima e preda di questi esseri dotati del massimo oggetto del suo
desiderio. E proprio le donne sono il centro del romanzo. Al di là della
tradizionale sottomissione femminile nella società cinese, Mo Yan ci presenta
una fantastica galleria di prepotenti, forzuti, astuti, pazzi, sensuali,
abilissimi e liberissimi personaggi femminili. Vivendo troppo si attirano
addosso un mare di tragedie, ma certo non stanno a guardare. Della loro vita
sono padrone, nel bene e nel male, padrone di buttarla via o rovinarsela con le
proprie mani se gli garba, però la vivono come gli pare.
Suppongo che il senso generale
del romanzo sia che il popolo cinese ha subito moltissimi torti negli ultimi
sessant'anni, che molti hanno dovuto soccombere, altri hanno galleggiato sui
flutti della storia rischiando l'annegamento, bevendo molta acqua salata e
riuscendo a tirare fuori la testa per respirare di tanto in tanto. Da questo
punto di vista Mo Yan rappresenta in maniera esemplare e efficacissima la
capacità degli scrittori cinesi contemporanei (penso a Acheng e Yu Hua in
particolare) di rappresentare la grande storia attraverso le vicende degli
umili o comunque di coloro che stanno ai margini, subendo gli eventi o
approfittandone con poca forza, con un tono che riesce a combinare
perfettamente realismo e fiabesca distanza. Qualche scivolamento nel realismo
magico, a mio parere, è estraneo al contesto. E mi è sfuggito il significato
della presenza del cattolicesimo, l'insistenza sulla figura del crocefisso,
l'abbraccio finale con il fratellastro prete. Forse è il simbolo di un
abbraccio tra occidente e oriente, o il corrispettivo della voga etno - new age
del buddismo in Europa? O una strizzata d'occhio al mercato occidentale?
Comunque rimane un po' incomprensibile.
Bellissimo è l'ultimo capitolo,
dedicato ai fantasiosi accoppiamenti di Shangguan Lu, dove la metafora, se c'è,
è seppellita dal piacere di reinventare quel mondo rurale ormai al tramonto
che, molto più della modernità, ispira a Mo Yan le sue pagine più succulenti e
godibili.
Il grande pregio del libro, oltre
alla lussureggiante esuberanza di vicende e personaggi, è la scrittura. Mo Yan
racconta sempre dall'interno della storia, senza mai uscire dalla narrazione di
fatti e sensazioni legate ai personaggi, mai una riflessione, un pensiero, che
non siano strettamente narrativi. Nessuno psicologismo appesantisce la storia.
La sua è una parola di concretezza totale, precisa di colori suoni odori peso
caldo e freddo, e nello stesso tempo capace di stravolgere la comune percezione
della realtà. Isola i particolari come sotto una lente deformante che li rende
iperrealistici e li mette sullo stesso piano dell'immagine centrale. L'effetto
è di una specie di espressionismo grottesco, a tratti patetico o violento,
sempre sorprendente e di grande efficacia.
Il grande difetto del libro è la
mole. Fisica, prima di tutto, che rende difficile maneggiarlo. Non so voi come
leggete, ma io me ne sto di preferenza sdraiata sul letto. Bene, mi sono mezza
spaccata i polsi per reggerlo, per il peso e il fastidio dovuto alla copertina
rigida. E poi anche la mole di fatti, vicende, capovolgimenti e trasformazioni
che danno un senso di vertigine. Mi sono sentita come un topolino che affronta
un ruota di parmigiano, felice dello sterminato piacere che lo aspetta ma anche
incerto sulla sua capacità di portare a termine l'impresa. Ciascuno dei
personaggi principali, ad esclusione della madre, ha tre o quattro incarnazioni
diverse, ogni volta che sparisce è per ricomparire completamente trasformato.
Ma soprattutto ho trovato un po' eccessiva la volontà di rappresentare tutta la
storia della Cina attraverso personaggi emblematici. Ogni tanto si ha
l'impressione che l'autore sia schiacciato dalla necessità di trovare il modo
di dire tutto, esemplificare tutto. Anche l'ecatombe dei personaggi sembra
finalizzata più che altro a liberarsene, come se a un certo punto non sapesse
più bene che cosa farsene. Tra l'altro, di una sola sorella, guarda caso quella
sposata all'americano, non si sa che fine abbia fatto. Sarà uno spiraglio aperto
per un eventuale seguito? Certo l'accumulo di rovesciamenti nei destini
individuali, non sempre chiariti né comprensibili, insieme alla sterminata
lunghezza, rischia di ingenerare nel lettore un senso di saturazione. Non tutto
il romanzo riesce a eguagliare la violenza, la forza delle immagini e la
tensione stilistica che mi avevano folgorato in Sorgo rosso (o in La ballata
dell'aglio imperiale, che ha avuto una traduzione inglese ma non è ancora
apparso in italiano). Per fortuna la titanica tempra di affabulatore di Mo Yan
e la sua robustissima concretezza lo riportano sempre a galla, a navigare nel
mare infinito delle vicende umane in uno scenario tanto fitto di particolari
che alla fine delle 899 pagine ci si sente come alla fine di un viaggio,
carichi di conoscenze nuove, un po' stanchi ma già divorati dalla nostalgia del
paese che abbiamo appena lasciato.
sabato 31 gennaio 2009
Too much Mo Yan
Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica (forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine, pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine, bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza illeggibile.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.
Etichette:
forma e contenuto,
letture,
Mo Yan,
scrittura,
The republic of wine
mercoledì 31 dicembre 2008
Dedicato a due amori
Finisce l'anno senza che io tradisca i miei due amori letterari del momento, Mo Yan e Orhan Pamuk. Devo dire che non sono amori esclusivi, anzi, in questo campo ho un harem variegato e mutevole di amorazzi, simpatie, flirt e affetti profondi, questi due sono però i favoriti in carica. E non posso dire nemmeno che siano gli autori che preferisco leggere: entrambi sono abbastanza difficili in certi casi, e non sempre gli argomenti che trattano mi appassionano. Ma scrivono in un modo che mi incanta, mi riempie di stupore e di invidia. Sono diversissimi.
Pamuk è cristallino, sobrio, elegante, evocativo al massimo, eccelle nell'esprimere la nostalgia, una struggente, universale, compassionevole nostalgia, una tristezza umanissima, il senso di tutto ciò che è perduto per sempre. E' un vero, grande scrittore, di quelli che hanno un intero mondo tutto loro nella testa e nella tastiera. Penso che chiunque scrive dovrebbe leggere il capitolo 10, intitolato Tristezza, di Istanbul, il libro dedicato alla sua città natale, e poi piangere, come ho fatto io, per la consapevolezza che non riuscirò mai a scrivere niente di lontanamente simile, di altrettanto efficace nella semplicità di un elenco che descrive una città, un mondo, gli uomini che lo abitano.
Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia senza fondo.
Ovvio che ci sono ancora fiumi di parole da spendere su questi due scrittori, ma io per il momento volevo solo attestare il mio indefettibile amore per la loro scrittura, senza affrontare i temi dei loro libri. Magari un'altra volta. Ma nella scrittura davvero eccellono.
Pamuk è cristallino, sobrio, elegante, evocativo al massimo, eccelle nell'esprimere la nostalgia, una struggente, universale, compassionevole nostalgia, una tristezza umanissima, il senso di tutto ciò che è perduto per sempre. E' un vero, grande scrittore, di quelli che hanno un intero mondo tutto loro nella testa e nella tastiera. Penso che chiunque scrive dovrebbe leggere il capitolo 10, intitolato Tristezza, di Istanbul, il libro dedicato alla sua città natale, e poi piangere, come ho fatto io, per la consapevolezza che non riuscirò mai a scrivere niente di lontanamente simile, di altrettanto efficace nella semplicità di un elenco che descrive una città, un mondo, gli uomini che lo abitano.
Mo Yan è eccessivo, barocco, ama le strutture complesse e contorte, è espressionista al massimo, concreto, violento, iperbolico, si sporca e sporca la sua scrittura con puzze, escrementi, carne, sesso, marciume, i suoi personaggi sono carnalissimi e spregevoli, mangiano fino a scoppiare, bevono fino a impazzire, sono maleducati, ruttano e scoreggiano. Ha la scrittura più espressiva che io conosca. Chi si arrabbia manda fiamme verdi dagli occhi, i cani sono viola, le ragazze mandano odori che si sentono entrando nelle stanze, i ragazzi sono coperti di scaglie e malvagi. Il suo mondo brulicante di personaggi pecca talvolta per un eccesso di metafore, di esemplarietà, ma è un grandissimo narratore, dall'immaginazione trabocchevole e dalla fantasia senza fondo.
Ovvio che ci sono ancora fiumi di parole da spendere su questi due scrittori, ma io per il momento volevo solo attestare il mio indefettibile amore per la loro scrittura, senza affrontare i temi dei loro libri. Magari un'altra volta. Ma nella scrittura davvero eccellono.
Etichette:
letture,
Mo Yan,
Orhan Pamuk,
scrittura
giovedì 15 maggio 2008
Quanno ce vo'...
Max Citi su ALIA EVOLUTION pone l'interessante questione "quanta violenza è lecito – accettabile, di buon gusto, intelligente – usare" scrivendo. L'argomento era troppo stimolante, avevo troppo da dire per potermi limitare a un breve commento, per cui lo riprendo qui.
Non sono del tutto d'accordo con le conclusioni di Max quando dice preferisco che la violenza non venga direttamente sceneggiata ma costituisca un ulteriore elemento di tensione. Non sempre la minaccia vaga mi basta. E' verissimo che il più delle volte l'esplicitazione, l'atto finiscono per assumere una sfumatura comica o deludente: se a lungo l'autore mi tiene sulle spine con il timore del morto vivente e poi alla fine quello arriva e si mangia le vittime, be', l'anticlimax mi strappa un sorriso, se la paura si risolve in un fiume di sangue può essere un sollievo. Ma questo vale per le storie di tensione, e per i miei gusti se il finale non deve essere troppo esplicito, d'altra parte la minaccia deve essere forte, e non eccessivamente impalpabile. Non mi piacciono le storie in cui si capisce pochissimo, le atmosfere troppo sospese, mi irrita l'eccesso di non detto e non descritto. Sono forse un po' priva di immaginazione, ho bisogno di aiuto. E comunque, nelle storie normali, non mi ritiro davanti alla violenza anche descritta, anche insistita. Non mi dà noia se la scrittura è all'altezza, e ovviamente il contesto narrativo la richiede.
Faccio degli esempi. Uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più è Mo Yan, di cui conservo religiosamente, e mi porto sempre dietro, un autografo. Per dirvi quanto l'ammiro, una volta l'ho visto a un convegno meraviglioso di scrittori orientali tenutosi qui a Torino alcuni anni fa, e io, che in alcune circostanze tra cui giganteggia quella di proporsi, sono timidissima di mettermi in mostra, ho approfittato del momento in cui era stato posteggiato in un angolo dal suo traduttore e sono andata a dirgli tutta la mia appassionata stima, che ovviamente non poteva capire, e gli ho anche stretto la mano, tipo bacio alla reliquia. Più che le sue storie ammiro la sua scrittura, violentemente espressionista, e anche semplicemente violenta. Ebbene, alcune persone cui ho consigliato Sorgo rosso mi hanno chiesto se ero matta, se per esempio non mi aveva dato fastidio la descrizione di come un personaggio viene spellato vivo. Io non me lo ricordavo neanche, almeno come descrizione violenta. Ricordavo solo la bellezza di un romanzo che mi aveva colpita a fondo. Così dopo aver letto Il supplizio del legno di sandalo ho fatto attenzione a chi lo consigliavo. E' un romanzo violento, con descrizioni accurate di torture, ma siccome è la storia di un boia, è impensabile che potesse essere scritto in altro modo. E si ricollega a un romanzo che ho amato tantissimo anni e anni fa, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, pubblicato per la prima volta nel 1945, che comincia con un impalamento, lo stesso supplizio del legno di sandalo di cui parla Mo Yan. E anche allora, ricordo che un amico cui avevo imprestato il libro si era lamentato di questo impatto violento.
Ora, questo non vuole dire che mi diletto di impalamenti e scuoiamenti in quanto tali, ma che leggendo non dimentico mai che la violenza è scritta, è parte del gioco che si instaura tra il lettore e lo scrittore, e come qualsiasi altra scelta un po' estrema, tipo erotismo o eccesso di realismo, chiedo solo che sia ben raccontata e c'entri con la vicenda, insomma che forma e contesto mi convincano. Al cinema, per dire, certi tipi di violenza mi disturbano molto di più, ma anche lì non tutti, e anche se ci ho riflettuto meno penso che sia sempre una questione di "come" è rappresentata. Per esempio, negli ultimi mesi ho apprezzato molto La promessa dell'assassino di Cronenberg e Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, entrambi film piuttosto crudi e crudeli. Certo, per tornare alla scrittura, gli eccessi sono sempre controproducenti, il rischio che il lettore scoppi a ridere esclamando "bum!" è forte. Ma quando riesce, quando colpisce senza disgustare, è molto efficace. Più di una volta, scrivendo, ho cercato di osare un po' di più, di andare un pochino oltre quello che mi veniva spontaneo. Se la cosa mi sia riuscita non so, ma non è che ci ho provato, ne sentivo la necessità. Credo che scrivendo sia importante andare sempre un po' oltre, naturalmente non solo nel campo della violenza, ma in tutte quelle direzioni che richiedono di forzare un pochino la propria natura.
Non sono del tutto d'accordo con le conclusioni di Max quando dice preferisco che la violenza non venga direttamente sceneggiata ma costituisca un ulteriore elemento di tensione. Non sempre la minaccia vaga mi basta. E' verissimo che il più delle volte l'esplicitazione, l'atto finiscono per assumere una sfumatura comica o deludente: se a lungo l'autore mi tiene sulle spine con il timore del morto vivente e poi alla fine quello arriva e si mangia le vittime, be', l'anticlimax mi strappa un sorriso, se la paura si risolve in un fiume di sangue può essere un sollievo. Ma questo vale per le storie di tensione, e per i miei gusti se il finale non deve essere troppo esplicito, d'altra parte la minaccia deve essere forte, e non eccessivamente impalpabile. Non mi piacciono le storie in cui si capisce pochissimo, le atmosfere troppo sospese, mi irrita l'eccesso di non detto e non descritto. Sono forse un po' priva di immaginazione, ho bisogno di aiuto. E comunque, nelle storie normali, non mi ritiro davanti alla violenza anche descritta, anche insistita. Non mi dà noia se la scrittura è all'altezza, e ovviamente il contesto narrativo la richiede.
Faccio degli esempi. Uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più è Mo Yan, di cui conservo religiosamente, e mi porto sempre dietro, un autografo. Per dirvi quanto l'ammiro, una volta l'ho visto a un convegno meraviglioso di scrittori orientali tenutosi qui a Torino alcuni anni fa, e io, che in alcune circostanze tra cui giganteggia quella di proporsi, sono timidissima di mettermi in mostra, ho approfittato del momento in cui era stato posteggiato in un angolo dal suo traduttore e sono andata a dirgli tutta la mia appassionata stima, che ovviamente non poteva capire, e gli ho anche stretto la mano, tipo bacio alla reliquia. Più che le sue storie ammiro la sua scrittura, violentemente espressionista, e anche semplicemente violenta. Ebbene, alcune persone cui ho consigliato Sorgo rosso mi hanno chiesto se ero matta, se per esempio non mi aveva dato fastidio la descrizione di come un personaggio viene spellato vivo. Io non me lo ricordavo neanche, almeno come descrizione violenta. Ricordavo solo la bellezza di un romanzo che mi aveva colpita a fondo. Così dopo aver letto Il supplizio del legno di sandalo ho fatto attenzione a chi lo consigliavo. E' un romanzo violento, con descrizioni accurate di torture, ma siccome è la storia di un boia, è impensabile che potesse essere scritto in altro modo. E si ricollega a un romanzo che ho amato tantissimo anni e anni fa, Il ponte sulla Drina di Ivo Andric, pubblicato per la prima volta nel 1945, che comincia con un impalamento, lo stesso supplizio del legno di sandalo di cui parla Mo Yan. E anche allora, ricordo che un amico cui avevo imprestato il libro si era lamentato di questo impatto violento.
Ora, questo non vuole dire che mi diletto di impalamenti e scuoiamenti in quanto tali, ma che leggendo non dimentico mai che la violenza è scritta, è parte del gioco che si instaura tra il lettore e lo scrittore, e come qualsiasi altra scelta un po' estrema, tipo erotismo o eccesso di realismo, chiedo solo che sia ben raccontata e c'entri con la vicenda, insomma che forma e contesto mi convincano. Al cinema, per dire, certi tipi di violenza mi disturbano molto di più, ma anche lì non tutti, e anche se ci ho riflettuto meno penso che sia sempre una questione di "come" è rappresentata. Per esempio, negli ultimi mesi ho apprezzato molto La promessa dell'assassino di Cronenberg e Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, entrambi film piuttosto crudi e crudeli. Certo, per tornare alla scrittura, gli eccessi sono sempre controproducenti, il rischio che il lettore scoppi a ridere esclamando "bum!" è forte. Ma quando riesce, quando colpisce senza disgustare, è molto efficace. Più di una volta, scrivendo, ho cercato di osare un po' di più, di andare un pochino oltre quello che mi veniva spontaneo. Se la cosa mi sia riuscita non so, ma non è che ci ho provato, ne sentivo la necessità. Credo che scrivendo sia importante andare sempre un po' oltre, naturalmente non solo nel campo della violenza, ma in tutte quelle direzioni che richiedono di forzare un pochino la propria natura.
Iscriviti a:
Post (Atom)