domenica 27 novembre 2016

A qualcuno la vendetta piace caldissima: Bret Anthony Johnston, Ricordami così

Per cominciare con una citazione che più scontata non si può ma nello stesso tempo esprime appieno la situazione, ricorro all'incolpevole René Magritte e dichiaro subito che questa non è una recensione. Se vi interessa leggerne una vera la trovate facilmente, il web ne è pieno perché Ricordami così di Bret Anthony Johnston è l'ennesimo caso letterario dell'anno (2015). L'autore, texano, fa di mestiere l'insegnante di scrittura creativa e si vede. Libro costruito e ipercompiaciuto, la pianificazione a tavolino già si intuisce dalla scelta di raccontare il dopo, senza mai sollevare il velo sul cosa, in una storia di sofferenza da cui è escluso il protagonista. Ma il romanzo è molto leggibile, friendly per il lettore, mai ho avuto la tentazione di lasciarlo né mi è pesato andare avanti, anzi, non mi spiaceva trovarlo la sera prima di dormire, anche se è tutto incentrato su due temi che aborrisco: famiglia e emozioni.

La vicenda si svolge a Southport, immaginaria cittadina del Texas del sud, vicina a Corpus Christi, location in effetti molto fascinosa che fa da sfondo perfetto ai continui andirivieni dei personaggi. In una famiglia normale, padre insegnante, madre commessa part-time in una tintoria, due figli adolescenti, un nonno che gestisce un banco dei pegni, un evento inatteso e disastroso sconvolge la vita di tutti: Justin, il figlio maggiore, sparisce. Le ricerche vengono condotte senza sosta, la comunità è coinvolta, ma ormai tutti hanno la certezza che Justin sia morto. E invece, quattro anni dopo la sua sparizione, Justin ricompare. Da questo punto in poi degli anni in cui Justin è sparito, di quello che ha vissuto, di quello che sente e pensa, non si parla più. Il romanzo si incentra sulle emozioni dei familiari, genitori, fratello e nonno, su come vivono la ricomparsa di Justin: mai un barlume di pensiero razionale, solo impulsi e pancia.
Nessun personaggio esterno ha spazio né importanza, a parte qualche comparsata necessaria per la vicenda. Il rapitore è subito individuato e arrestato, e proprio su di lui e le sue vicende giudiziarie si avvitano i sentimenti, le fantasie e i desideri della famiglia in un contesto claustrofobico, in cui i personaggi vivono moltissimo di notte. Questa famiglia tutta di maschi, a parte una madre che vive esclusivamente di emozioni e sensazioni, brividi e incubi, mi ha fatto pensare che l'autore abbia letto e riletto Virginia Woolf e Katherine Mansfield.

L'aspetto più interessante è lo spaccato di vita americana che ne viene fuori. La madre per occupare il tempo con un po' di volontariato fa turni di monitoraggio a una delfina, che è stata danneggiata e necessita di un periodo di convalescenza prima di essere rimessa in acqua. I turni coprono le ventiquattrore, i volontari annotano ogni mossa di Alice, che nuota sola in un capannone appositamente riscaldato e illuminato. Non faccio commenti per non inimicarmi gli animalisti dopo gli amanti della famiglia. Il figlio Griffin è uno skater esperto (Bret Anthony Johnston era skater professionista prima di darsi alla letteratura), e passa la maggior parte del suo tempo a allenarsi nella piscina di un motel abbandonato. L'attività del tremendo nonno, il banco dei pegni privato, è molto importante perché tra gli oggetti che i clienti vi lasciano ci sono armi di ogni tipo. Per celebrare il ritorno di Justin gli viene dedicato lo Shrimporee, l'annuale fiera dei gamberi cui tutta la comunità locale collabora e partecipa. 
I personaggi femminili non hanno ruolo al di fuori di quelli in rapporto ai maschi. C'è una moglie, il personaggio a mio personalissimo parere più repellente; un'amante, funzionale a chiarire i turbamenti e pentimenti del padre ma viva quanto una pianta in vaso; la ragazza del figlio minore, apparentemente molto alternativa e assertiva ma in realtà protettiva e attaccatissima al suo maschietto, ha in nuce qualità femminili di cura, di forza, di amore, proprio come dev'essere una futura moglie-madre. La madre, che per sbaglio si registra al centro di protezione della delfina con il cognome da nubile, ne fa un dramma: ma negli USA le donne non usano mai il proprio cognome?
Comunque tutti i personaggi, che per esprimersi hanno solo le proprie emozioni, sono fissi e schematizzati. Il meglio riuscito è Griffin detto Griff, adolescente diviso tra l'affetto per il fratello ritrovato e l'inevitabile sensazione di essere trascurato da tutti. A parte Fiona, la sua ragazza, non ha un amico né un'amica, passa il suo tempo tutto solo con il suo skateboard. Justin, che per sacrosanta scelta dell'autore è visto solo dall'esterno e di sguincio, in realtà risulta un po' inverosimile, più un vecchio saggio autosufficiente che un ragazzino rimasto quattro anni in balia di un pedofilo. E neanche i genitori hanno un amico o un'amica (l'amante del padre è un personaggio del tutto accessorio, che farebbe una gran pena se nel finale l'autore magnanimo non ci facesse capire che anche lei ha una famiglia). Intorno a loro la comunità di Southport che ha partecipato attivamente alla ricerca di Justin e ora partecipa al sollievo, ma in forme del tutto impersonali come l'invio di piante ornamentali, che la madre in un momento di sconforto getta via.

Ma la grande emozione, l'impulso che lega genitori e nonno è la vendetta, il desiderio di vendetta, la sicurezza della necessità della vendetta. La voglia di pena di morte, di uccidere, attraversa il romanzo dalla prima pagina all'ultima come se fosse giusto e naturale, come se così dovesse essere e basta. E' un pensiero insensato e agghiacciante, ma per l'autore non c'è nessun dubbio che sia sbagliato. Se c'è un deterrente, non è mai legato al fatto che uccidere il rapitore sia altrettanto sbagliato di quello che ha fatto lui, ma solo alle conseguenze che può portare all'assassino. A muovere i personaggi sono solo motivi egoistici. Lo faccio per i ragazzi, pensa il padre ad esempio, e sottotraccia corre una vena di violenza difficilmente sopportabile.
L'autore si sforza in tutti i modi di creare suspence, anche con la struttura notevolmente sofisticata (l'inizio, la fine circolare) ma in realtà la suspence non può esistere in una storia in cui non c'è spazio per una sorpresa, il giudizio è talmente netto che non lascia spazio a niente.
L'apoteosi finale è fatta apposta per una trasposizione cinematografica, completa della salita sul palco e del punto di vista dall'alto sul pubblico, ma dietro si intravede un'America spaventosa. Eviterò il troppo facile accostamento a Trump, ma certo che viene spontaneo.

In conclusione aggiungerò che è un romanzo molto ben scritto ma in certe parti lento, ripetitivo, soprattutto compiaciuto, sempre freddo, e malgrado sia formalmente (quasi) perfetto, non si riesce a crederci neanche per un momento. Ma soprattutto, e perciò ribadisco che questa non è una recensione, in sostanza l'argomento e il pensiero che ci sta dietro sono tremendi, e molte parti leggendole mi hanno fatto rivoltare le budella. 

Nella versione italiana la traduzione è di Federica Aceto.






giovedì 24 novembre 2016

Per amore di un topo: il primo racconto che ho pubblicato, giusto vent'anni fa




             PER AMORE DI UN TOPO

    Siete mai stati innamorati di un topo? Alla mia amica Carlotta è successo, me l'ha raccontato lei stessa. Carlotta è una donna non  più giovane ma molto attraente, dinamica, piena di interessi; insegna in un liceo, viaggia, è impegnata in un gruppo femminista, organizza corsi di aggiornamento per insegnanti e prima che questa storia cominciasse aveva una relazione con un nostro comune amico, simpatico e ragionevolmente innamorato di lei. L'altro protagonista di questa storia, invece, è un topolino di campagna, minuscolo, di colore  grigio chiaro e con una lunga coda sottile.
    Carlotta vive da sola, in collina, nella portineria di una villa settecentesca, ai margini di un parco una parte del quale, recintata, è il suo giardino privato. O meglio, credeva di vivere da sola. In una fredda sera dell'aprile scorso, mentre era seduta sul divano del suo salotto e guardava la televisione, scoprì che nella sua casetta c'era un altro inquilino. Un topolino grigio le saettò tra i piedi e con la velocità del lampo si infilò sotto un armadio.
    Carlotta dice che non fu un amore a prima vista. La sua prima reazione fu di disgusto e si manifestò con un femminilissimo strillo e un balzo sul divano. Per dieci minuti rimase paralizzata dall'orrore, abbracciandosi istericamente le ginocchia, finché il topo non sporse il muso di sotto all'armadio e i due rimasero a guardarsi fissi negli occhi per un po'. Gli occhi del topo erano piccoli ma lucidi e penetranti e Carlotta non riusciva a distoglierne i suoi. Dopo qualche minuto lei si fece coraggio e appoggiò i piedi a terra, lui venne allo scoperto, si piazzò sul tappeto, proprio di fronte ai piedi di Carlotta e squittì amichevolmente; l'amicizia era fatta.
    Secondo Carlotta, fin da quella prima sera la loro relazione ebbe un'insolita intensità. Lei rispose agli squittii dapprima emettendo suoni inarticolati, e poi con una gentile frase di benvenuto. Il topo avvolse la coda intorno al corpo e squittì di nuovo. Così gli approcci, che presero ben presto la forma di un corteggiamento, proseguirono, e alla fine della serata il topo riposava pacificamente in grembo a Carlotta, che ne carezzava il dorso sottile con due dita, piano, per non fargli male. Non so esattamente come sia finita la serata; ma certo fu l'inizio di una nuova fase nella vita della mia amica. So che fecero colazione insieme, la mattina dopo, Carlotta con caffè e fette biscottate, il topo con latte e pezzetti di biscotti.
    A me la cosa sembra repellente, ma Carlotta dice che da quel giorno cominciò per lei un periodo di grande felicità, l'esperimento di convivenza più riuscito della sua vita. Il topo dimostrò all'inizio una grande discrezione e rispetto per la sua autonomia. La salutava affettuosamente la mattina, quando lei usciva per andare al lavoro; la aspettava con ansia la sera, quando tornava stanca nel suo rifugio collinare, senza protestare se ritardava né chiederle che cosa aveva fatto durante il giorno; ma era sempre pronto ad ascoltarla se lei aveva voglia di raccontargli i fatti salienti della giornata. Secondo Carlotta, lui era in grado di capire qualunque cosa lei dicesse, e anche di esprimere pareri ed elargire consigli, il che mi sembra un po' eccessivo, ma va' a sapere.
    Così lei si legò sempre di più al suo coinquilino, cominciò a trascurare tutti gli impegni non strettamente obbligatori, come il gruppo femminista e i corsi di aggiornamento, e persino, dopo un po', Carlo, il suo compagno. Nel contempo, la relazione col topo cresceva e si faceva più completa. Fino a che punto sia giunta questa completezza, io non lo so. Non sono mai stata abbastanza in confidenza con Carlotta da potere sviscerare questo aspetto della questione. Penso però che l'intimità si sia spinta molto avanti: il loro era sicuramente un rapporto fisico oltre che affettivo, e molte delle cose che lei mi ha raccontato lo provano. Dato che era arrivata la stagione calda, lui aveva preso l'abitudine di scorrazzarle sulle braccia e sulle gambe nude; le mordicchiava le orecchie, le titillava il naso con la coda, le si infilava volentieri sotto le ascelle e con ogni probabilità anche in posti più reconditi, e questa gentile confidenza fisica le procurava un piacere intenso, insolito, così speciale che gli abbracci di Carlo (al quale aveva nascosto l'esistenza e la natura del rivale) le divennero fastidiosi e lei vi si sottrasse definitivamente.
    Intanto era giunta l'estate, e sia io che altri amici cominciammo a notare il progressivo isolarsi di Carlotta. Di solito, d'estate aveva l'abitudine di invitarci sovente a cena e a trascorrere la domenica nel suo giardino, ma quell'anno non lo fece neanche una volta. Io le telefonavo ogni tanto, ma lei era molto evasiva e lasciava cadere le proposte di vedersi. Un paio di volte la domenica pomeriggio mi recai da lei con un amico pensando di farle un'improvvisata, ma era talmente evidente che la nostra presenza le dava fastidio che ce ne andammo via dopo una mezz'ora e non ritornammo più.
    Mi disse in seguito che in quel periodo aveva provato a portare con sé il topo quando usciva, tenendolo in una tasca o nella borsa, ma lui non sopportava di starsene rinchiuso e compariva nei momenti meno adatti, mettendola in imbarazzo e seminando il panico tra i presenti, così alla fine decise che era meglio lasciarlo a casa e limitò le uscite allo stretto necessario per passare il maggior tempo possibile con lui. La scuola era finita e le giornate erano lunghe, dolci da trascorrere in giochi amorosi con il topolino nella casa fresca o sull'erba del giardino.
   
Il topo cambiò carattere. Carlotta dice che era sempre stato molto maschile nelle sue manifestazioni, fin dall'inizio; ma forse la novità dell'esperienza lo aveva reso più cauto e disponibile. Verso giugno la sua natura cominciò a manifestarsi con maggiore pienezza. Divenne prepotente e pieno di pretese. Si innervosiva se non trovava in tavola i suoi formaggi preferiti all'ora in cui gli garbava, era sempre più possessivo ed esigente nel pretendere l'attenzione totale di Carlotta e la sua presenza continua, e divenne anche meno fantasioso e premuroso nelle carezze. Dividevano il letto, lei sempre un po' in tensione per la paura di schiacciarlo inavvertitamente; lui cominciò a sparire per notti intere, e a ricomparire la mattina per colazione, di malumore, e senza dare spiegazioni.
    Questo non vuole dire che la loro relazione diventasse meno intensa o che Carlotta ne fosse meno presa: fu solo la manifestazione di un elemento di problematicità nei loro rapporti, come sempre succede dopo la prima fase di trasporto istintivo. Carlotta ne fu quasi lieta, era stato tutto troppo bello fino ad allora e questa nuova situazione le dava un maggior senso di realtà; era contenta di avere l'impressione di dover fare degli sforzi per costruire un rapporto duraturo con l'oggetto della sua passione.  
    Giunsero le vacanze, faceva caldo, a uno a uno tutti gli amici partivano, ma Carlotta non si mosse. A chi le telefonava per sapere che intenzioni avesse, disse che voleva restare in città perché aveva problemi economici, e comunque nessun luogo di villeggiatura poteva essere più piacevole del suo giardino collinare; di viaggiare quell'anno non aveva voglia. Nessuno si stupì più di tanto, e partimmo tutti tranquilli per le nostre mete. Carlotta rimase col topo.
    Alla fine di luglio si verificò un episodio terribile. Il topo scomparve per due giorni. Quando ricomparve, un pomeriggio verso il tramonto, la mia amica era ormai in uno stato di ansia isterica e lo accolse con una scenata memorabile, della quale ancora oggi si vergogna, ma lui chiese da mangiare, disse che era troppo stanco per discutere e se ne andò a dormire. La mattina dopo, mentre faceva pulizia in camera da letto, lei sentì degli squittii sommessi provenire dal guardaroba, spalancò con furia le ante e dietro a un mucchio di pantaloni invernali piegati e impilati scoprì un nido, fatto di cotone idrofilo e giornali rosicchiati, in cui stavano una topina e una dozzina di repellenti bestioline rosa carne, grosse come fagioli, cieche e prive di pelo, ma munite di una lunga coda che gli si attorcigliava intorno al corpo.
    Carlotta non ricorda che cosa fece dopo questa scoperta. Rimase come istupidita tutto il giorno e solo verso sera riuscì a ritrovare un po' di lucidità e quel tanto di senso dell'umorismo che le permise di vedere l'aspetto grottesco della vicenda. D'istinto decise che si sarebbe liberata di tutte quelle bestiacce e, sollevata, se ne andò in cucina a mangiare qualcosa.
    Sul tavolo l'aspettava il topo, con un'espressione buffa sul musino, mista di impazienza perché nel suo piattino non v'era ombra di cibo, contrizione e una sorta di malcelato orgoglio. Carlotta notò soprattutto i suoi baffi che pendevano pentiti e sentì che il cuore le si stringeva di tenerezza. Senza dire una parola tirò fuori dal frigo un po' di formaggio e cominciò a tagliarlo a pezzettini. Sentì una carezza che le percorreva il braccio e il collo, e crollò: seduta al tavolo di cucina, si mise a piangere e non smise fino a quando i baci del topolino non l'ebbero del tutto rassicurata. 
    Era ormai pieno agosto, tutti i negozi dei dintorni erano chiusi. Per fare la spesa, Carlotta doveva prendere la macchina e spingersi fino in centro, e anche così non riuscì a trovare una panetteria aperta; per quasi tutto il mese dovettero mangiare  pane in cassetta conservato, che non piaceva a nessuno dei due. In compenso, comprava grandi quantità di gelato e ogni due o tre ore ne metteva un po' in un piattino, intorno al quale si riuniva subito una piccola folla di topolini voraci e squittenti. La sera, all'ora di cena, il tavolo della cucina si copriva di animaletti nervosi e lei non aveva quasi il tempo di mangiare tanto era occupata a tagliare pezzetti di formaggio e distribuire latte e biscotti. Solo di notte, a letto, Carlotta e il topo riuscivano a ritrovare la giocosa intimità di un tempo; ma nel complesso, lei si adattò alla nuova situazione e non ne soffrì poi troppo.
    A settembre le scuole riaprivano, ma Carlotta non ritornò al lavoro. Non ebbe difficoltà a farsi dare un lungo periodo di mutua perché in effetti non stava niente bene: dormiva male, era molto dimagrita, soffriva di palpitazioni e di vertigini. Per di più, l'evento che si era verificato alla fine di luglio si ripeté e questa volta lei, che la prima volta aveva fatto tanti sforzi per capire e accettare, si sentì veramente tradita, ingannata, presa in giro e sfruttata dalla tribù di topolini che ormai avevano preso possesso della sua casa.
    Mi raccontò che quello era stato un periodo di abiezione. Per riconquistare l'attenzione del topo, si era umiliata fino a trascorrere ore rovistando sulle bancarelle di libri usati alla ricerca di volumi antichi dalla carta spessa e ingiallita, come sapeva che piacevano alla sterminata famigliola. Covava propositi suicidi e omicidi, leggeva con avidità tutte le pubblicità di veleno per topi che trovava sul giornale, le rare volte che si ricordava di comprarlo; batteva tutti i negozi di specialità gastronomiche della città alla ricerca dei formaggi più puzzolenti (ma lei li chiamava "odorosi") e dei più ricchi torroni. Ma ormai si rendeva conto che stava perdendo terreno nella competizione con la rivale, sempre più raramente il topo trascorreva la notte con lei, le sue carezze erano diventate distratte e frettolose e durante il giorno era troppo indaffarato con la prole per avere tempo di starla ad ascoltare e giocare con lei. Inoltre, sapeva di essere diventata lamentosa e opprimente, ma non riusciva a reagire.
    Fu proprio in quel periodo, verso la metà di settembre, che ricevetti una telefonata di Carlo. Era preoccupato perché aveva telefonato più volte a Carlotta ma lei si era sempre rifiutata di vederlo, gli era sembrata depressa e molto evasiva. Mi chiese se potevo andarla a trovare, dal momento che lui non osava farlo per paura di infastidirla o sembrare indiscreto. Io acconsentii, naturalmente, e un paio di giorni dopo mi ritrovai a suonare alla porticina del giardino di Carlotta.
   
Era un bel pomeriggio caldo e sereno, sui mattoni soleggiati del vecchio muro di cinta del parco scorrazzavano le lucertole. Attesi a lungo e stavo già per rinunciare e andarmene quando la porticina si aprì e mi trovai faccia a faccia con la mia amica.
    Fui impressionata dal suo aspetto. Era magra, sciatta, con una vecchia maglietta piena di buchi e, cosa che mi colpì più di tutto il resto, aveva i capelli sporchissimi, che le scendevano nel collo in ciocche unte e disordinate. Era evidente che la mia visita a sorpresa non le era per niente gradita, ma mi fece entrare e mi condusse nel giardino, con la scusa che la casa era troppo in disordine per ricevervi un ospite. Io cercai a mia volta di controllare l'espressione di stupore che sapevo di avere sul volto, e mi sedetti su di una sedia a sdraio. Le chiesi come aveva trascorso l'estate e lei mi rispose evasivamente. Fui ulteriormente colpita dal suo modo di parlare e di muoversi. Parlava a raffica, facendo continue smorfie con il naso e con il labbro superiore, muoveva la testa a piccoli scatti continui e teneva le braccia piegate lungo il busto con le mani pendenti dai polsi e le dita rattrappite come zampette. Io provai a raccontarle delle mie vacanze, ma era evidente che lei non mi seguiva, così alla fine mi decisi ad affrontare la questione direttamente e le chiesi che cosa le fosse successo, se non la potevo aiutare.
    "Aiutarmi!" esclamò lei ridendo forte. "Aiutarmi!" e scoppiò in lacrime.
    E così, un po' ridendo un po' piangendo, e un po' con la voce sognante di chi rivive ricordi dolcissimi, mi raccontò tutta la storia, tutto quello che era successo dalla prima sera d'aprile fino a quel giorno. Anch'io a dir la verità non sapevo se ridere o piangere, e contrariamente alle mie abitudini la ascoltai senza interromperla né fare domande. Solo quando finalmente tacque le chiesi che cosa avesse intenzione di fare adesso. Lei mi guardò sconsolatamente e aprì le mani in un gesto d'impotenza. Non sapendo che commenti fare, mi astenni dal dire alcunché; ma non potei trattenermi dall'esortarla a curarsi un po' di più.
    Lei abbassò il viso e ammise che si lavava poco perché il topo la preferiva così, soprattutto i capelli gli piacevano più sporchi che puliti, e lei era ormai disposta a usare tutti gli stratagemmi per ottenere ancora qualcuna di quelle carezze che lui non aveva più voglia di darle. Era calata la sera, il giardino si era fatto buio e l'umidità saliva dall'erba. Mi alzai per accomiatarmi; Carlotta mi fece promettere che non avrei detto a Carlo nulla di quello che lei mi aveva raccontato e che non le avrei più fatto visite a sorpresa.
    "Mi farò viva io quando avrò risolto questa faccenda" disse. 
    Tornai a casa piuttosto sconvolta. Quando Carlo mi telefonò per sapere com'era andata lo rassicurai come potevo, dicendogli che Carlotta aveva bisogno di rimanere sola perché stava vivendo un momento un po' particolare, ma si sentiva bene e avrebbe deciso lei stessa quando riprendere i contatti con gli amici. Mentre parlavo, mi rendevo conto che mai in vita mia avevo detto una così grossa bugia, ma non avevo scelta. Nei giorni seguenti, cercai di pensare a Carlotta il meno possibile, e vi riuscii, perché desideravo veramente di tutto cuore dimenticare quella storia assurda.
   
Passò altro tempo. Era ormai la fine di ottobre quando, un pomeriggio che stavo facendo commissioni in centro, mi sentii chiamare a gran voce e, voltandomi, mi trovai nuovamente faccia a faccia con Carlotta. Ma questa volta era di nuovo la Carlotta di un tempo, elegante, ben pettinata e con un sorriso allegro sulle labbra. Mi abbracciò con trasporto e mi invitò a prendere un aperitivo al bar. Ci sedemmo a un tavolino d'angolo e dopo qualche minuto di chiacchiere indifferenti le chiesi com'era andata a finire la faccenda del topo.
    "Tutto risolto" mi rispose alzando le spalle. "Ho chiamato un'impresa di derattizzazione e in due giorni mi hanno liberata da quel flagello."
    Parlava di nuovo in modo normale, senza smorfie né scatti della testa, ma mi parve che il suo sorriso fosse per un attimo un po' troppo volonteroso e tra le sopracciglia le si formarono due rughette verticali, come se stesse sforzandosi di trattenere le lacrime.
    Mi raccontò che aveva passato giornate a scopare via cadaveri di topi, ma per fortuna non aveva mai trovato quello del suo amore. Stupidamente le chiesi come avrebbe fatto a distinguerlo dagli altri: lei mi lanciò un'occhiata profondamente ferita. Capii di avere detto una grossa sciocchezza e non insistetti, ma il male era fatto e le lacrime cominciarono a scivolarle lentamente sulle guance ben truccate. Con voce sommessa mi disse che aveva passato un periodo tremendo, lacerata dai sensi di colpa e dai rimpianti, poi si era fatta forza e aveva ripreso a lavorare e vedere gente.
    "Ti inviterei volentieri a cena" disse alzandosi per andarsene "ma ho un impegno con Carlo."
    Mi sorrise di nuovo, ma il suo sorriso non era allegro.
    Tornai a casa a piedi, trascinando stancamente i pacchetti dei miei acquisti. Mangiucchiai qualcosa davanti alla televisione, ma non riuscivo a seguire quello che succedeva sullo schermo. Ero depressa. Per quanto assurda, innaturale e per me anche francamente disgustosa, quella di Carlotta era pur sempre una storia d'amore finita male, anzi tragicamente. Non avevo conosciuto il topo e non provavo nessuna compassione per lui, ma l'idea di Carlotta che raccoglieva a uno a uno i topolini morti con la paura di riconoscere quello con cui aveva diviso tanti momenti di felicità spensierata mi era insopportabile.
    Spensi la televisione e mi misi a bagnare le piante, anche se non era il giorno in cui lo facevo abitualmente. La calancoe era stanca, la felce egoista come sempre, ma il mio caro vecchio phalangium capì subito il mio stato d'animo e mi carezzò una spalla per incoraggiarmi. Lo tolsi dal davanzale della finestra e lo portai sul divano accanto a me. Piansi per qualche minuto, poi cominciai a raccontargli tutta la storia di Carlotta e del topo, contenta di vedere che seguiva con interesse e comprensione, senza dare giudizi e neppure ridere per l'assurdità della vicenda. Parlare con lui mi aiutò molto: alla fine ero sollevata, anche se continuavo a sentire una grande malinconia, come una spina proprio in fondo al cuore. Decisi che quella non era la sera giusta per andare a dormire da sola, mi portai il phalangium in camera e lo misi sulla mensola dietro al letto, di modo che le sue belle foglie sfiorassero il cuscino.
    Fu una notte lunga e inquieta, mi svegliai decine di volte ma ogni volta il tocco gentile del phalangium mi rasserenava e mi dava la certezza che non ero sola, che una presenza amica vegliava accanto a me e non mi avrebbe abbandonata. Verso l'alba riuscii ad addormentarmi stringendo una foglia tra le mani; e dormii senza sogni fino alla mattina dopo. 

Pubblicato su Tuttestorie, nuova serie, aprile 1996

domenica 13 novembre 2016

Se questo è un tramonto, immaginatevi l'alba: Khushwant Sing, The Sunset Club

Allora, due parole di avvertimento: non credo che questo libro sia tradotto in italiano (almeno, io non ho trovato nessuna traduzione in rete) perciò va letto in inglese, inoltre richiede una certa conoscenza dell'India o almeno una passione. Secondo me è indispensabile anche leggerlo in ebook perché il dizionario incluso permette di comprendere i numerosissimi termini angloindiani utilizzati dall'autore, e il ricorso a Wikipedia chiarisce le allusioni a avvenimenti e personaggi citati. Ma vale la pena, vi assicuro, vale davvero la pena di leggerlo. Khushwant Singh è uno scrittore potente, irriverente e interessante; consiglio vivamente, oltre al suo libro più famoso, Quel treno per il Pakistan, il trasgressivo e commovente Delhi, e La compagnia delle donne. Ma ce ne sono tanti altri che meritano di essere letti.

Questo The Sunset Club, il Club del Tramonto, Kushwant Singh l'ha scritto a novantacinque anni: e già questo sarebbe un motivo di interesse, ma in realtà non ne ha affatto bisogno. E' un libro incantevole, e basta. Tre amici, tutti e tre personaggi pubblici e di successo ormai pensionati ultraottantenni, tutti i giorni, nel tardo pomeriggio, si ritrovano su una panchina nei Lodhi Gardens a Delhi, davanti al Bara Gumbad, antica moschea Mogul molto amata perché la sua cupola ha la forma della mammella di una ragazza. Sharma è un bramino rigido, ascetico e bacchettone, conservatore in politica, che vive con una sorella nubile che lo tiene a stecchetto; il ricco nawab Baig è un musulmano bon vivant, amante dell'alcol, del fumo e delle donne, con una moglie sollecita che veglia sul suo benessere e gli racconta le notizie interessanti del giornale mentre lui si limita a leggere i necrologi e i risultati sportivi; il sardar Boota Singh è un Sikh libero pensatore, irriverente, pronto a spararle grosse e lucido osservatore della vita, vedovo, propenso alla bottiglia, in cui si può riconoscere l'autore.

La vicenda comincia il 26 gennaio 2009 e si conclude il 15 gennaio 2010. Scandite dai mesi e dal cambiare
Bara Gumbad, Lodhi Gardens, Delhi
delle stagioni a Delhi, non solo sfondo ma protagonista al pari dei tre chiacchieroni sulla loro panchina, le loro deliziose conversazioni vertono sui temi più svariati: la religione, su cui Boota ama provocare il bigotto Sharma e confrontarsi con l'orgoglioso Baig, la politica che tocca avvenimenti scottanti del momento e chiama in causa il giovane passato dell'India indipendente, il sesso su cui, come due scolaretti indisciplinati, Baig e Boota si scambiano ricordi e confidenze spudorate quando non c'è Sharma, le difficoltà di evacuazione che costituiscono un argomento appassionante da sviscerare (è il caso di dirlo) fino in fondo soprattutto per Boota, la modernità che arriva anche nei Lodhi Gardens, la vita locale, le fioriture e il clima di Delhi, il cibo, il whisky amato da tutti e tre e mille altri. Spesso, per concludere una discussione, Baig cita uno dei suoi amati poeti mogul, primo fra tutti il grande Mirza Ghalib. Non si vorrebbe mai smettere di origliare i loro discorsi, ma quando comincia a fare fresco arrivano i servitori con gli scialli per coprire le vecchie spalle dei loro padroni e convincerli a tornare a casa.  

Come ho già detto questo libro si apprezza meglio se si conosce almeno un po' l'India. Ma può essere letto anche come propedeutico a un incontro con quel merviglioso e spaventoso paese, che lascia sempre un segno in chi lo visita. E poi, scusate la rozzezza della mia traduzione, come dice l'autore nella Apologia iniziale: I miei lettori potranno pensare che quello che scrivo è di cattivo gusto - inaccettabile in una compagnia beneducata. Così sia. Non sono mai stato conosciuto per la mia cortesia o correttezza. Se siete offesi da qualcosa in questo libro, mettetelo via.   




giovedì 10 novembre 2016

I misteri dei giardini La Marmora: intervista a Claudia Manselli, autrice di "Il giardino delle storie intrecciate"




Questa avvincente raccolta di racconti di Claudia Manselli, Il giardino delle storie intrecciate, fa parte di quei libri che non si accontentano di raccontare una storia ma vogliono ricreare il mondo con le parole. Qui i Giardini La Marmora sono una chiara metafora del mondo, e della perdita di sé nello scontro con il mondo. 
 
Domanda: La scelta del luogo: Torino non è la tua città ma si vede che la osservi con grande attenzione, la conosci, disegni una mappa dei mezzi pubblici, tram e autobus hanno molta importanza nel tuo libro. Puoi dirci qualcosa del tuo rapporto con Torino, anche in relazione del fatto che ci sei venuta dopo Roma? Che cosa rappresentano per te i Giardini La Marmora, li hai scelti come palcoscenico solo perché si prestavano o c’è qualche ragione più profonda? 
Risposta: Quando sono arrivata a Torino ero adolescente. La città mi è sembrata triste e grigia. Non so se lo fosse. Ricordo la nebbia fuori della finestra. Io non l’avevo mai vista. A Roma c’era luce e allegria, pantaloncini corti d’estate e gente nelle strade anche d’inverno. In quegli anni, nelle mie passeggiate torinesi verso piazza Castello, passavo per i Giardini La Marmora, ordinati, eleganti, fioriti, rispetto alla confusione romana. Dopo molti anni sono venuta ad abitare in centro. Ho potuto vedere come fossero cambiati i giardini e Torino. Ho trovato una città nuova. Attraverso i personaggi dei miei racconti ho cercato di descriverla.
D: I personaggi: dopo l’inizio con la statua illustre, ci sono piccole storie di piccoli personaggi. Vite immaginate, personaggi che si incontrano, si vedono ma non si conoscono. Sfaccettature di vita. Sono personaggi emarginati, patetici, in ognuno c’è una grande solitudine. Quello che li accomuna è un vuoto, una mancanza. Tutti hanno un buco dentro di sé, chi concretamente (La Marmora) chi metaforicamente. Le storie nascono da un’immagine, una suggestione quotidiana. Tu ci sei in queste storie o ti sei messa da parte come spettatrice e demiurga? 
R: Non riesco a raccontare una storia senza essere dentro il personaggio. Non saprei dove trovare i sentimenti e le vicende che racconto. Ho spiato e spio per immagazzinare storie. Più che una demiurga, mi sento una ladra, una che osserva, prende dalla realtà e la modifica. Certo poi mi stupisco di avere creato qualcosa che prima non c'era, una realtà parallela frutto della fantasia. Che i miei personaggi fossero così soli me ne sono accorta alla fine del libro, quando sono stati uno accanto all’altro. Tutti diversi e unici, credevo.
D: Ci sono collegamenti sottili e molto ben studiati tra i personaggi, mai forzati, che tracciano linee nell’aria: viene voglia di fare un grafico. C’è una vicinanza fisica e un distacco emotivo. Ognuno vede gli altri e ne dà una descrizione sbieca ma puntuale. Esempio, Maria che compare sia in Il bersagliere come personaggio secondario che in Passaggi notturni come coprotagonista, o la gazza di Imperfezioni che compare qua e là. Puoi parlarne?  
R: La gazza è il personaggio che ruba le storie in giro per Torino. Quello che più mi assomiglia. Dovrebbe e forse vorrebbe essere un falco, ma è solo un uccello comune. Così sono le storie che io racconto, quotidiane e per niente notevoli, come le vite dei frequentatori dei giardini. Questi collegamenti tra i diversi racconti sono serviti anche a rendere unitaria la raccolta, una scelta quindi non solo creativa, ma tecnica.
D: Ci sono mai stati i personaggi di cui parli? Ci sono ancora? 
R: Alessandro La Marmora è sempre lì e lo saluto quando passo. Anche Giuseppe di Natale è un personaggio vero e Un uomo tranquillo che mangia veramente ai giardini sulla panchina. L’ho rivisto una settimana fa in Corso Siccardi. Adesso ha i capelli tutti bianchi. Ci sono il suonatore di fisarmonica e la zitella di Ventiquattro maggio 1948. I personaggi sono reali, ma le loro storie no. Le ho immaginate spinta da un particolare, da un atteggiamento inconsueto, da uno sguardo, da una mia fantasia.
D: Quello che colpisce di più è la scrittura, elegante e sorvegliatissima. Ogni personaggio ha una voce inconfondibile. Si alterna la prima persona con la terza, le voci variano dal bambino di Il bersagliere a quella di Alessandro La Marmora in A cera persa, il dolce matto di Natale, ecc. Dicci qualcosa sulla tua tecnica di scrittura. 
R: Un'ossessione interna mi spinge a lavorare su ogni pagina. Dico ossessione perché, per ottenere quell’idea di scrittura che ho in testa, serve un sacco di tempo e a volte vorrei farne a meno. Correggo e rileggo a alta voce. Cerco anche un ritmo che ogni frase deve avere. Per fortuna il computer facilita correzioni e spostamenti. Non so come facessero gli scrittori di una volta con la macchina da scrivere.
D: C’è una distribuzione quasi esatta tra racconti in prima persona e racconti in terza (su undici, cinque a sei). Dietro a questa alternanza c’è una scelta o è casuale? Come decidi che un racconto sarà in prima o in terza persona? 
R: Questa scelta è casuale, ma obbligatoria. Il personaggio, quando inizia la sua storia, mi chiede la terza o la prima persona.
D: Hai fatto un grande uso del patetico, mai apertamente ma sottotraccia, con grande maestria lo sfiori e lo fai sentire (Natale, Il Bersagliere, 24/5/1948). Sovente indugi a descrivere un mondo semplice, antico (24/5/1948) Spazi anche in altri luoghi, p.e. il villaggio in Romania di Passaggi notturni. Inoltre, sono molto importanti tram e autobus. (vedi tu se vuoi dire qualcosa su questi temi, se no li tolgo dalle domande).  
R: I racconti Natale e Il Bersagliere sono quelli in cui è stata più forte la mia partecipazione emotiva che evidentemente traspare. Anche il patetico è quindi nelle mie corde, pur se cerco di tenerlo a freno. Gli ambienti contadini di 24/5/1948 li ho visti al cinema, in alcuni film di Vittorio De Seta, regista che ha raccontato il mondo rurale scomparso. Il villaggio rumeno di Zece Prajini, proprio quello che descrivo in Passaggi notturni, era in un documentario. Dal treno si scendeva correndo, come dico nel racconto. I tram, tanto presenti, sono un posto dove si può stare vicino agli altri senza farsi notare. Si sentono i discorsi. Si può fantasticare. Su certi pullman si entra in contatto con realtà lontane. Un certa tratta può essere un viaggio. Poi tutti i tram portano ai giardini, come degli affluenti di storie.
D: Infine la copertina di questo libro è molto bella, molto suggestiva e precisa rispetto ai temi trattati. So che c’è una storia dietro, ci vuoi dire qualcosa?  
R: Cercavamo una copertina. Per caso ho visto questa fotografia che mi è sembrata il sunto del libro: ci sono i giardini, l’uomo solo, la panchina, la gazza che vola. Abbiamo scritto all'autore, il fotografo Massimo Della Latta. Subito mi ha concesso di utilizzare l'immagine in cambio di tre libri con dedica. Solo dopo ho scoperto che è una foto scattata sotto le mura di Lucca, a pochi passi dalla casa in cui sono nata.
Gli undici racconti comprendono A cera persa, riflessioni in prima persona della statua di Alessandro La Marmora, che dà il nome ai giardini, e dal proprio destino individuale si allargano a tutta l’umanità: Dalla mia morte erano trascorsi poco più di dieci anni e già non ero altro che una statua vuota. C’è il rimpianto per le occasioni perdute, l’incongruità della morte (l’eroe che muore di colera, cioè in una situazione insieme squallida e ridicola) a 56 anni, in Crimea. La Marmora vede la vita intorno a sé e la rimpiange. Sa di appartenere al passato.
Imperfezioni narra di Sara nata Soraya, la miniaturista miope che voleva essere un falco e adotta una gazza, ma non vede l’amore vicino di Giovanni.
La protagonista di Made in Italy è una casalinga torinese ossessionata a causa dell’invasione di stranieri immigrati che a poco a poco impazzisce e finisce barbona ai Giardini. 
In Natale, Giuseppe è un barbone che vive ai Giardini La Marmora e dorme su una panchina. Aspetta sempre la nascita di Gesù perché sua mamma gli ha detto che ne nasce uno ogni anno. Quando vede i trolley del tram che fanno scintille e una ragazza incinta si siede accanto a lui, è sicuro che sia arrivato il prossimo Gesù.
Il bersagliere. Protagonista la voce di un bambino che si sente molto solo e vorrebbe un cane. Ha problemi, sia a scuola che a casa. Per superare la solitudine si immagina La Marmora come un amico. 
Venticinque maggio millenovecentoquarantotto. Storia di immigrazione dal Delta del Po. Gilda viene abbandonata sull’altare dal fidanzato, che sposa un’altra già incinta dopo averla atrocemente ingannata solo perché il padre di Gilda, sarto, gli facesse l’abito da sposo. La vendetta non la consola, e con il vestito da sposa addosso si prepara a morire ogni 24 maggio, ricorrenza del suo matrimonio.
La "cattiva" protagonista di Vivere non cede alla terribile vecchiaia. Rivive quando un ragazzo le si stringe involontariamente su un pullman pieno, e trova una nuova attività che le ridà energia e felicità. 
Il ghiottone è un professore che, quando va in pensione, scopre in se stesso inaspettati territori. Sfiora la tragedia ma è salvato dalla sua stessa vittima. 
E' Un uomo tranquillo quello che cena ogni sera su una panchina ai giardini apparecchiando bene, con tovaglia e posate, mentre a casa la moglie si prostituisce.
Passaggi notturni. Viorica è romena, ha 15 anni, è troppo bella e ha troppi sogni. Anche Maria viene dalla Romania ma ha già sperimentato che i sogni non si avverano mai. Adesso ha trovato un uomo che la ama, ma è la libertà che le manca e non vuole accontentarsi. Il destino, che non è sempre cieco né beffardo, fa incrociare le loro strade, e il ritorno è inevitabilmente ai Giardini La Marmora.
Infine Cose superflue racconta di Amalia, che ammassa troppa roba in casa, poi cerca di liberarsene e finisce per condividerne il destino. 

Claudia Manselli vive tra Torino e la Valchiusella. Conduce dal '97 un laboratorio di scrittura per  il Centro Donna della VI circoscrizione del Comune di Torino. Giurata in concorsi letterari, è stata nella redazione della rivista IN/EDITO e lettrice del premio Calvino. I suoi racconti hanno ricevuto numerosi premi, sono stati pubblicati in antologie e riviste. Nel 2011 ha vinto il premio Alga con il romanzo L'orologiaio. Nel 2016 ha pubblicato la raccolta Il giardino delle storie intrecciate, tra i vincitori nel 2015 del Premio Letterario Casentino.