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lunedì 4 marzo 2013

Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio: la storia che gli Stati Uniti non amano ricordare.

Con questo romanzo molto premiato Julie Otsuka ha raggiunto la popolarità negli USA, mentre in Italia è comparso prima il bellissimo Venivamo tutte per mare con l'ottima traduzione di Silvia Pareschi.. Finalmente (gennaio 2013) Bollati Boringhieri l'ha mandato in libreria; la bravissima traduttrice è ancora Silvia Pareschi. Per questo ripubblico la recensione già apparsa su questo blog con il titolo originale, When the Emperor was divine. Se Venivamo tutte per mare raccontava coralmente le vite di migliaia di donne giapponesi che dal principio del Novecento sono sbarcate in California per congiungersi con i mariti emigrati, sposati per procura, qui è narrata l'oscura e vergognosa storia dell'internamento dei cittadini statunitensi di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Considerati indiscriminatamente potenziali traditori, informatori del nemico, più fedeli all'Imperatore che al governo dello zio Sam, furono allontanati dalle proprie case, privati di averi e libertà, raccolti in campi di concentramento dove trascorsero anni nell'inattività e nel disagio più totali. La famiglia protagonista vive dapprima il trauma di veder prelevato in piena notte il padre (portato via in vestaglia e ciabatte, particolare che tormenterà il figlio bambino per tutto il tempo della separazione) poi, quando per strada compaiono i manifesti in cui si avvisano gli americani di ascendenza giapponese che il giorno tale dovranno partire per una destinazione sconosciuta portando con sé solo una valigia di effetti personali, lo strappo violento della perdita di punti fermi, amici, abitudini, sicurezze. Né il ritorno sarà la facile e felice ripresa della propria vita: ciò che è perduto non si ritrova, essere assimilati ai nemici sconfitti crea disagio e vergogna, gli altri, quelli che sono rimasti, non hanno nessuna voglia di riaccogliere chi avevano già dimenticato. Anche se non raggiunge la commovente (e strabiliante) perfezione della voce corale di Venivamo tutte per mare, Julie Otsuka è una scrittrice sicura e padrona dei suoi mezzi, capace di narrare una vicenda tanto densa con cristallina semplicità, obiettività e distacco, creando i personaggi attraverso piccoli tocchi e notazioni rivelatrici. Alternando i punti di vista dei quattro personaggi senza nome (e il più sconvolgente è quello del padre, l'unico che parla in prima persona, anche se forse è quello che convince di meno), senza mai cedere all'indignazione o all'empatia ostentata, ci fa partecipare con indignazione a un momento di storia poco conosciuto, di cui giustamente gli Stati Uniti non amano parlare perché non torna a onore di uno stato che della democrazia fa il proprio pilastro portante.
Un romanzo bello, severo e necessario.
Per chi ne volesse sapere di più sull'argomento, Silvia Pareschi ha pubblicato su Nazione Indiana un bell'articolo, esauriente e di grande interesseEnemy aliens, I romanzi di Julie Otsuka e le storie dimenticate dei giapponesi schedati e internati dei campi di prigionia.

lunedì 6 agosto 2012

Julie Otsuka, When the Emperor was divine

Julie Otsuka, When the Emperor was divine

Con questo romanzo molto premiato Julie Otsuka ha raggiunto la popolarità negli USA, mentre in Italia è comparso prima il bellissimo Venivamo tutte per mare. Spero che Bollati Boringhieri mandi presto in libreria anche questo, con la stessa ottima traduzione di Silvia Pareschi. Se Venivamo tutte per mare raccontava coralmente le vite di migliaia di donne giapponesi che dal principio del Novecento sono sbarcate in California per congiungersi con i mariti emigrati, sposati per procura, qui è narrata l'oscura e vergognosa storia dell'internamento dei cittadini statunitensi di origine giapponese dopo Pearl Harbor. Considerati indiscriminatamente potenziali traditori, informatori del nemico, più fedeli all'Imperatore che al governo dello zio Sam, furono allontanati dalle proprie case, privati di averi e libertà, raccolti in campi di concentramento dove trascorsero anni nell'inattività e nel disagio più totali. La famiglia protagonista vive dapprima il trauma di veder prelevato in piena notte il padre (portato via in vestaglia e ciabatte, particolare che tormenterà il figlio bambino per tutto il tempo della separazione) poi, quando per strada compaiono i manifesti in cui si avvisano gli americani di ascendenza giapponese che il giorno tale dovranno partire per una destinazione sconosciuta portando con sé solo una valigia di effetti personali, lo strappo violento della perdita di punti fermi, amici, abitudini, sicurezze. Né il ritorno sarà la facile e felice ripresa della propria vita: ciò che è perduto non si ritrova, essere assimilati ai nemici sconfitti crea disagio e vergogna, gli altri, quelli che sono rimasti, non hanno nessuna voglia di riaccogliere chi avevano già dimenticato. Anche se non raggiunge la commovente (e strabiliante) perfezione della voce corale di Venivamo tutte per mare, Julie Otsuka è una scrittrice sicura e padrona dei suoi mezzi, capace di narrare una vicenda tanto densa con cristallina semplicità, obiettività e distacco, creando i personaggi attraverso piccoli tocchi e notazioni rivelatrici. Alternando i punti di vista dei quattro personaggi senza nome (e il più sconvolgente è quello del padre, l'unico che parla in prima persona, anche se forse è quello che convince di meno), senza mai cedere all'indignazione o all'empatia ostentata, ci fa partecipare con indignazione a un momento di storia poco conosciuto, di cui giustamente gli Stati Uniti non amano parlare perché non torna a onore di uno stato che della democrazia fa il proprio pilastro portante.
Un romanzo bello, severo e necessario.

lunedì 6 febbraio 2012

Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare



Questo è il terzo libro letto negli ultimi tempi che mi entusiasma. Certamente è solo un caso, ma tutti e tre sono stati scritti da donne: Le ricette più piccanti della cucina tatara di Alina Bronsky, La cartella del professore di Kawakami Hiromi, e questo straordinario Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka. E non sarà un caso invece il fatto che due su tre sono storie di migrazioni, scritte l’una da una ucraina che vive in Germania, Bronsky, e l’altra da una immigrata giapponese di seconda (o terza, probabilmente) generazione, Otsuka, nata in California, che vive e lavora a New York. Otsuka racconta una storia di straziante umanità e di grande interesse storico, ma soprattutto ha trovato una soluzione letteraria geniale che regala a questo libro un tono di verità straordinario. Il romanzo (perché di romanzo si tratta) narra le vicende delle “spose in fotografia”, le donne giapponesi che all’inizio del secolo scorso raggiunsero in California i mariti sposati per procura. Giunsero per mare, cariche di illusioni sul paese che le avrebbe ospitate e sugli uomini che le aspettavano, e furono amaramente deluse. Gli uomini erano più vecchi, più poveri, più ignoranti di quelli che avevano conosciuto per lettera e in fotografia; l’America non le accolse a braccia aperte, le condizioni di vita per la maggior parte di esse si rivelarono dure e lontanissime da quel sogno di benessere che le aveva spinte a lasciare famiglia e paese per salire su una nave affollata di altre donne illuse. La maggior parte di loro si ritrovò a fare la bracciante agricola, senza nemmeno una casa propria, a raccogliere fragole per padroni di cui non conosceva la lingua né le abitudini. Altre andarono a fare le domestiche nelle case in cui i mariti erano giardinieri, altre ancora si ritrovarono in bordelli dai nomi esotici, altre lavoravano nelle lavanderie. Tutte sopportarono uomini insopportabili e fatiche senza sosta. Ebbero figli (il capitolo forse più bello), conquistarono un piccolo benessere, si considerarono parte del nuovo grande paese, di cui conoscevano solo il quartiere in cui vivevano. Poi ci fu Pearl Harbor e improvvisamente divennero nemiche, loro e i loro uomini. Il mondo costruito con tanto impegno e tante lacrime fu spazzato via in un attimo, e loro costrette a partire senza sapere quale fosse la meta. Qui il romanzo finisce, ma il libro precedente di Julie Otsuka, When the Emperor was divine, non ancora tradotto in italiano, narra dell’internamento cui furono sottoposti i giapponesi che vivevano negli USA durante la seconda guerra mondiale. E io me lo procurerò al più presto, perché questa scrittrice è veramente eccezionale. La sua grande invenzione, cui accennavo al principio, è la voce narrante plurale, un “noi” che invece di appiattire le vicende individuali le amplifica e le rende epicamente universali. È uno di quei libri in cui non si può fare a meno di identificarsi, anche se non si è donne né giapponesi né emigrate né braccianti agricole o domestiche. Parla del dolore di lasciare le radici, la nostalgia, la sopraffazione maschile, la miseria e la fatica di ogni vita, maschile o femminile, dei figli e delle mille risorse che ci inventiamo per sopravvivere, del razzismo, della stupefatta impotenza di chi si vede privato di tutto senza colpa e senza motivo. E il miracolo è che ce ne sentiamo parte, che ci siamo anche noi nel “noi” delle donne giapponesi che arrivarono per mare.
Un esempio, tratto dal capitolo “Bambini”: Partorimmo sotto una quercia, d’estate, con una temperatura di quarantacinque gradi. Partorimmo accanto alla stufa a legna nell’unica stanza della nostra baracca, nella notte più fredda dell’anno. Partorimmo su un’isola ventosa del Delta, sei mesi dopo il nostro arrivo, e il neonato era minuscolo e trasparente, e dopo tre giorni morì. Partorimmo nove mesi dopo il nostro arrivo, un bambino perfetto con una gran massa di capelli neri. Partorimmo in un polveroso accampamento nei vigneti di Elk Grove e Florin. Partorimmo in una fattoria remota della Imperial Valley, con il solo aiuto di nostro marito, che aveva imparato cosa fare sul Manuale della casalinga. […] Partorimmo in silenzio, come nostra madre che non gridava e non si lamentava mai. Lavorò nelle risaie finché non le vennero le doglie. Partorimmo piangendo, come Nogiku, che prese la febbre e non si alzò dal letto per tre mesi. Partorimmo con facilità, in due ore, e poi ci venne un mal di testa che rimase con noi per cinque anni. Partorimmo sei settimane dopo che nostro marito ci aveva lasciate, una bambina che ora ci pentiamo di aver dato via. Dopo di lei non sono più riuscita a concepire un altro figlio. Partorimmo di nascosto, nei boschi, un bambino che nostro marito sapeva non essere suo. Partorimmo sopra uno sbiadito copriletto a fiori in un  bordello di Oakland, mentre ascoltavamo i grugniti provenienti dalla stanza accanto.
Julie Otsuka ha raccolto centinaia di storie e con questa scelta forte di non privilegiarne nessuna è riuscita anche a non escluderne nessuna. La bella e sensibile traduzione è di Silvia Pareschi.