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domenica 31 agosto 2014

Là dove risuonavano i rebetika: la fortezza di Yedi Kule a Salonicco


Quest'estate ho letto poco, in maniera distratta e faticosa, e le cose non sono migliorate dopo che sono tornata dal lungo (e inconsulto) viaggio che mi ha portata attraverso nove stati per un totale di quindici passaggi di frontiere. Questo mi ha tenuto lontana dai libri che avevo veramente voglia di leggere (tra cui due appetitose opere di amici e un'antologia cui ho partecipato), e ho perso tempo tra romanzetti di poco impegno e gialli strabolliti. Come si dice: speriamo che passi. Comunque non ho niente da dire di libresco e voglio invece parlare di un posto. Bello carico come piace a me, che ho una certa tendenza a rimanere colpita da prigioni come il Tuol Sleng di Phnom Penh (ma chi potrebbe non rimanerne colpito) o la fantasmatica miniera di Theorichia a Milos.

Yedi Kule
Anche questa è una prigione, la Yedi Kule di Salonicco, situata nella fortezza che sovrasta la città. Detta in greco Frurio Eftapyrgu (Fortezza delle Sette Torri, lo stesso significato di Yedi Kule), fu eretta dagli Ottomani dopo la conquista definitiva del 1429 della città, nella parte più alta dove sorgevano precedenti fortificazioni romane e bizantine, che furono rimaneggiate e ampliate. Nel XVI secolo ospitò la residenza del governatore e le caserme della guarnigione che presidiava la città. Sul finire del XIX secolo fu adibita a prigione e furono costruiti gli edifici contenenti i reparti (sia maschili che femminili) e altri annessi. La prigione rimase in attività fino al 1989 e oggi si può visitare in parte.

L'entrata esterna
Il motivo per cui la visita a Yedi Kule mi ha tanto emozionato è che il suo nome ricorre spesso nella storia del rebetiko di Elias Petropoulos (Nautilus 2013) di cui mi sono occupata in queste pagine. Insieme al porto e alla taverna, la prigione è la culla di questa musica, e costituisce anche l'argomento di molte canzoni. Nel XIX secolo il carcere più terribile della Grecia era il famigerato Palamidi, sull'isolotto di Burzi, di fronte a Nafplia nel Peloponneso. Dopo la liberazione di Salonicco dai turchi, nel 1912, questo dubbio primato è passato a Yedi Kule (chiamato Ghedi-kulé nel libro di Petropoulos da cui ho tratto molte interessanti informazioni).   

Il parlatorio
La porta interna
Il cortile con i reparti maschili
Il reparto femminile
Il locale delle docce
"Durata del bagno, 15 minuti a testa"

Famosa la cella n 15, in mezzo alla quale passava la fogna. C'è una serie di rebetika scritti apposta per questa prigione : Cala la notte a Ghei-kulé, Il muro di Ghedi-kulé ho saltato una notte, Il fuggitivo di Ghedi-kulé. Parlano di celle, di tribunali, pene, fucilazioni all'alba, carabinieri, ferri e secondini. Sempre da Petropoulos: Il carcere è una micrografia di società particolare, con le sue regole, le sue differenze e le sue punizioni. I carcerati chiamano la società "il mondo fuori". [...] c'è un certo modo di riposare, di complottare, di lavorare, di fare la spia, di ipocrisia, di solidarietà eccetera. Dentro al carcere la masturbazione e l'omosessualità sono come istituzioni. [...] Nelle carceri si sentono storie terribili, che ci stupiscono. Il modo in cui i secondini tirano fuori i condannati a morte per portarli alla fucilazione è tragico. L'espressione "Tha fai o kolos su choma" (il tuo culo mangerà terra) significa che ti fucileranno. I carcerati sono dei mitomani: compongono lunghissimi canti rebetika che si trasmettono oralmente.Questi canti hanno una melodia elementare e tutti si assomigliano tra di loro. Quando li cantano usano come strumenti vecchie latte o cucchiai. Un tempo costruivano baglama (piccoli buzuki) dalle anfore di terracotta. Adesso nelle prigioni sono vietati tutti gli strumenti, anche le ceramiche.

Naturalmente il carcere ha ospitato anche molti prigionieri politici oltre che delinquenti comuni, e fa veramente impressione pensare che sia stato in uso fino a venticinque anni fa. Anche se tutto quello che si può visitare è la postazione dei secondini, da cui si potevano sorvegliare i cortili e le mura oltre che avere una visuale completa dei tre reparti maschili (quello femminile è esterno rispetto al cortile), e il sottostante locale delle docce (ma i bagni stessi sono ben chiusi con catene e lucchetti), l'atmosfera è dolorosa e non è difficile immaginare come dovesse essere quand'era pieno di persone, più o meno prigioniere, tutte chiuse nello stesso luogo di dolore e violenza. Particolarmente terribile ho trovato il parlatorio dove la ruggine che ora ricopre le doppie grate non le rende meno invalicabili, e sembra che ancora trattengano le ansie e le lacrime che non sono riuscite a attraversarle.
La visita è gratuita ma quando ci sono stata io Yedi Kule era praticamente vuoto, cosa normale visto che  è isolato, lontano da qualsiasi altro edificio, bisogna andarci apposta e avere qualche motivo per farlo. C'era un padre greco con bambino, che leggeva e spiegava ogni cosa: mi sono chiesta se forse seguiva le tracce di qualcuno che conosceva.
Molti rebetika trattano il tema del carcere e del dolore dei carcerati, ad esempio Antilalune i filakes (Rimbombano le carceri) di Markos Vamvarakis (1905-1972) o Pende chronia dikasmenos (Cinque anni prigioniero) di Vangelis Papazoglu (1896-1943). Ma io qui metto la mia preferita, quella che mi spreme una lacrima ogni volta che la ascolto, Sinnefiasmeni Kiriakì (Domenica di nuvole) di Vasilis Tsitsanis (1915-1984). Non parla del carcere ma dell'occupazione, e ha dentro tutto il dolore e la nostalgia del rebetiko.       

mercoledì 9 ottobre 2013

La musica dei bassifondi e i dolci fumatori di hashish di Elias Petropulos - Rebetiko

Il dio dei lettori che mi protegge e mi consola mi ha mandato un segno della sua benevolenza sotto forma di un libro prezioso e, suppongo, non facile da trovare. Ma il benemerito Paolo Barsi della libreria "I Comunardi"  di Torino l'ha messo ben in vista vicino alla cassa, facendosi così strumento dell'intervento divino. Per così dire. Il libro è Rebetiko - Vita, musica, danza fra carcere e fumi dell'hashish, di Elias Petropulos, pubblicato dal collettivo Nautilus del quale qui metterò solo un breve estratto delle parole con cui si presenta sul sito: Nel 1981 iniziava il viaggio di Nautilus, un collettivo che da quell'anno porta avanti un'attività – per lo più editoriale – legata ai principi dell'autogestione e alla pratica dell'autoproduzione. All'interno del volume una nota ci comunica che Tutti i diritti sono liberi a norma di collaborazione, solidarietà e mutuo appoggio tra le persone che amano il sapere e l'informazione libera. Qualunque parte di questo libro può essere riprodotta [...] Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica agisce in favore di chi desidera sapere e conoscere, avvantaggia un sapere avverso al censo e opera in favore della cultura di tutti.  

Sicuramente Elias Petropulos avrebbe apprezzato di essere pubblicato da Nautilus. Non conoscevo questo "antropologo urbano" come si definiva, nato nel 1928 a Atene, vissuto poi a Salonicco, di nuovo Atene e infine a Parigi dove si rifugiò nel 1975 per sfuggire alle persecuzioni della dittatura dei colonnelli e degli anni a seguire. A Parigi morì nel 2003, dopo aver pubblicato quasi ottanta libri, tra cui un manuale del buon ladro e un repertorio fotografico di balconi, finestre, porte e altri manufatti popolari greci, tremila foto di cimiteri greci, e soprattutto un'antologia del rebetiko, Rebetika tragudia, in cui sono raccolti più di 1500 rebetika. Fu l'unico greco a avere scritto sul passaporto "ateo" nella casella della religione professata (come era in uso fino a pochi anni fa), anarchico e ribelle, profondamente appassionato di tutto ciò che è umano, sicuramente avrebbe fatto suo anche il mio motto humani nihil a me alienum puto. Trascorse parecchi periodi in carcere per motivi politici, fu amico di ladri, prostitute, magnaccia, omosessuali (scrisse anche un glossario della lingua degli omosessuali, Kaliarnta, considerato il primo su questo argomento), fumatori di hashish. Speriamo che il collettivo Nautilus pubblichi qualche altro suo testo, mi è rimasta una gran curiosità nei suoi confronti. Ho fatto una ricerca in rete, frettolosa per la verità, ma non ho trovato niente altro di suo in catalogo o in digitale. In questo preziosissimo libretto è racchiuso un mondo che mi ha regalato qualche giorno di felicità perfetta, anche perché su Youtube si trova una massa di materiali relativi alle musiche e alle danze di cui parla, sia in registrazioni originali che cover moderne. 

E veniamo al rebetiko. Musica popolare ma non folkloristica, prettamente urbana, legata al mondo della malavita (ipokosmos), al carcere, all'hashish, alla taverna. Nasce all'inizio del XIX secolo, ma si collega con altri filoni musicali precendenti, sia tra i greci dell'Anatolia che in Grecia vera e propria, e conosce il suo periodo d'oro tra il 1920 e 1950. I centri sono Salonicco, Pireo, Smirne, Istanbul, Bursa, Ermopulis, Nauplia, Ayvallik, insomma centri urbani più o meno grandi ma quasi tutti porti cosmopoliti e dotati di bassifondi molto vivaci. La diaspora greca dopo la Katastrofì del 1922, la sconfitta subita dai greci da parte dei turchi di Ataturk, fece sì che in Grecia si concentrassero anche i musicisti dell'Asia minore costretti alla fuga dalla Turchia. Il protagonista del rebetiko è il magas, potremmo definirlo un guappo, malavitoso dalle caratteristiche fisiche molto definite: bello, molto curato, con giacca cravatta cappello e fascia in vita in cui teneva le armi, e molto spesso fumatore di hashish, nel qual caso si definisce chassiklìdas.  

L'hashish si fumava nel tekè, che in turco indica il mausoleo dei pascià o il monastero dei dervisci, una sorta di piccola taverna governata dal teketzìs, personaggio autorevole nel mondo dei bassifondi, che preparava il narghilè che regala la mastura, lo sballo. Nel tekès regna l'ordine, il silenzio e la gerarchia. Lì i più giovani rispettano i vecchi. I tekès sparirono a favore delle taverne e dei caffè, al posto del narghilè arrivò lo spinello, ma la nostalgia del narghilè non passò e in molte canzoni lo si invoca. Ci sono anche gli eroinomani, i presakides, ma mentre il fumatore di hashish ama la bella vita, è dolce, tranquillo e piacevole, l'eroinomane è un miserabile, decaduto, sfigato, fastidiosissimo, geloso, e anche pericoloso. I due gruppi non vanno d'accordo e non si mescolano. 

La mastura faceva venire voglia di suonare e di ballare, e nel tekès o nel caffè c'erano sempre, appesi alle pareti, degli strumenti a disposizione dei clienti: il baglamas, l'uti, il santuri e soprattutto il buzuki, ora strumento simbolo della Grecia, che proprio grazie alla riscoperta del rebetiko negli anni settanta ha raggiunto la fama internazionale. Nel testo ci sono ottime schede sugli strumenti. Qualcuno suonava e subito un magas iniziava a danzare lo zeibekiko, danza solitaria, lenta, severa e dai passi non codificati. Un'altra danza era il chassapikos, che si danza in due o tre tenedosi per le spalle, ha passi prestabiliti e richiede una perfetta sincronia. In fondo al volume ci sono le biografie dei più famosi cantanti, affascinante squarcio su un mondo sparito e sconosciuto, alcuni testi di canzoni, che trattano soprattutto la mastura, lo sballo, il narghilè, il male di vivere che accomunava questi uomini, come la famosa Synnefiasmeni kiriakì (Domenica nuvolosa) di Vasilis Tsitsanis, scritta durante l'occupazione tedesca. Poche le cantanti di rebetiko. Un altro tema è la vita in carcere, soprattutto quelli di Atene e Salonicco. Quello che colpisce leggendo le pagine di Elias Petropulos è la cura, direi quasi l'affetto, e la totale empatia con i personaggi e le vicende di cui parla.

Oltre all'introduzione di Epaminondas Thomos, anche responsabile della scelta dei testi tratti da Rebetika tragudia e To haghio hassissaki e traduttore con la revisione di Vittorio Bianco, Isabella de Caria e Chiara Maraghini Garrone, nel volume ci sono un'interessante introduzione di Jacques Lacarrière e il racconto, commosso pur nel tono contenuto, del funerale e della dispersione delle ceneri di Elias Petropulos a Parigi, e un utilissimo glossario. 
Infine, anche se non compare nel testo, vi consiglio l'ascolto di Misirlu, rebetiko così famoso che ne fecero una cover solo strumentale anche i Beach Boys e compare nella colonna sonora di Pulp Fiction, suonato da Dick Dale. Ma questa versione non so chi la canta. So solo che mi piace moltissimo, ci si trova sensualità, severità, calma e nel ritornello lo sballo che sale lentamente. L'argomento è amoroso, Misirlu significa "ragazza egiziana".    

Se poi l'argomento vi ha acchiappato, se volete vedere belle immagini e sentire bellissime musiche, procuratevi il film Rembetiko di Costas Ferris (si trova da scaricare in rete), tenetevi una sera libera perché è piuttosto lungo, e abbandonatevi alle vicende di Marika, cantante di rebetiko, che abbracciano tutto l'arco di tempo che va dal 1919 al 1956, dalla tragedia di Smirne al doloroso dopoguerra greco. Non ve ne pentirete. 
E per chi volesse ascoltare una voce più autorevole della mia ecco un documento audio di Epaminodas Thomos, curatore della versione italiana del testo.