“McDonald’s a un isolato. Ce li avete i soldi, ragazzi?”
“Trentamila in saccoccia, in biglietti da mille, regali di parenti vari. Con la storia dell'euro sto tirando su un sacco di moneta. Tutti mi sbolognano gli spiccioli, sono diventati generosi all’improvviso”.
“Io arrivo a cento liscio liscio. Mia mamma si è pentita di fare la cresta sulla spesa e mi ha infilato in tasca un rotolino di diecimila. Credo che abbia una crisi di onestà natalizia”.
“Meglio, io tra regali e pizze sono sceso a quota cinquemila. Conto su di voi”.
Fecero la fila ordinata per mollare zaini e piumini al guardaroba, ricevettero il biglietto dalle mani della professoressa, crearono un vortice di schiamazzi attorno all’usciere punzonatore, nella sala d’ingresso si incollarono alla teca della prima mummia, nuda biotta e rannicchiata sulla sabbia come un neonato in culla.
Naturalmente tutti a commentare gli attributi mummificati. Delle professoresse una ridacchiava, l’altra faceva finta di non capire. Il professore di ginnastica si era già imboscato dietro a un mostruoso faraone di granito rosso a fare cip e ciop con la supplente di diritto. Massimo provò svogliatamente a baccagliare una squinzietta di seconda con i capelli zozzi e il pancino all’aria malgrado il gelo, ma lei continuava a stridere con le amiche senza manco rispondergli. Dopo poco nelle gallerie popolate da testoni e gamboni e piedoni, sfingi e massi incomprensibili di pietra c’era un casino totale. Tre classi per un totale di settanta ragazzi tra i quindici e i sedici anni, controllate da quattro professori di cui due fuori uso, erano troppo persino per la faccia di cane di Anubi. I custodi, occupatissimi a leggere il giornale, fingevano di non vedere e non sentire.
Salirono al piano di sopra. Più interessante, a dire il vero. Sarcofagi e papiri e mummie bendate e sbendate, gioielli che facevano squittire le professoresse, pagnotte tarlate e datteri impietriti che strappavano cori di che schifo! alle ragazze. Nessuno spiegava niente e comunque nessuno sarebbe stato a sentire. Bisogna dire che a un certo punto la Vallino di italiano si mise davanti a un chilometro di papiro e intonò “il libro dei morti, ragazzi, l’unico completo in tutto il mondo” ma quando si voltò si accorse di essere sola e scappò via in cerca dei gabinetti.
“Venite a vedere,” disse Fede. “Guardate qua”.
Gigi e Massimo si avvicinarono. In una teca tre sarcofagi di legno pitturato, aperti, contenevano tre mummie di cui una aveva la faccia scoperta.
“Sono tre sorelle, Gatta, Topina e Buon Anno. Morte giovani e imbalsamate. Quella lì sembra carina. Dev’essere Topina. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
“Di noia, non c’eravamo noi a farle divertire”.
Massimo rise forte, contentissimo della battuta. Gigi stava schiacciato contro il vetro, tanto che la supplente di diritto venne a battergli sulla spalla. Quando si staccò rimase il segno del naso e delle mani unte. Girellarono ancora annoiati, si infilarono in una stanzina piena di letti parrucche stoffe marroncine impilate sgabelli e scatole da trucco, fecero corsette lungo corridoi pieni di gatti e coccodrilli impagliati, fecero pipì e fumarono uno spinello nei cessi.
All’una studenti e professori si ritrovarono nell’androne, davanti alla biglietteria. Quello di ginnastica, rosso in faccia e con lo sguardo sognante, fece la conta. La prima volta gliene mancavano cinque, la seconda ce n’era uno di troppo. Ci provò la Vallino. Due di meno. Alla supplente di diritto il miracolo riuscì. Settanta tutti interi, a ogni nome dell’elenco un bel presente! sonoro e una spuntatura.
“Liberi tutti,” gridò Educazione Fisica.
Prese la supplente sottobraccio e corse via, forse aveva paura che l’erezione non gli reggesse ancora per molto. Italiano e Chimica fecero ciao con la manina, raccomandarono “domani puntuali che ne parliamo”, i ragazzi si precipitarono in massa al McDonald’s, tranne le tre islamiche di terza G e Fiorenzo di seconda H che era macrobiotico.
Il marocchino fornito da Gigi doveva essere una bomba, perché i tre ripresero coscienza in un letto di mocci vileda circondato da secchi di plastica azzurra dalle sfumature psichedeliche.
“Ragazzi, che viaggio”.
“Ho una fame che mi mangerei sette Big Mac e due quattro stagioni rinforzate”.
“Forza, ormai è libera uscita”.
I tre Swatch segnavano mezzogiorno.
“Ahimè, ci manca un’ora”.
“Andiamo a farci vedere dalla Vallino che non sono ancora stato interrogato”.
I gabinetti erano in fondo al corridoio degli animali. Se lo ricordavano benissimo, un lato tutto bacheche di bestie bendate l’altro intervallato da finestroni e cartelli con piantine del Nilo, freccette e cerchiolini che certamente indicavano robe importanti. Ma adesso c’era qualcosa di strano. Il corridoio si stendeva lunghissimo, vuoto, un po’ sghembo, illuminato solo da una fila di neon al soffitto che si riflettevano sul pavimento di piastrelle bianche e nere. Neanche una finestra né una porta nelle interminabili pareti grigiastre. Non si riusciva a vedere dove finiva.
“Abbiamo sbagliato uscita,” disse Massimo.
Si volse per aprire la porta da cui erano appena sbucati. Ma la porta (che c’era, testimoni tutti e tre) si era ridotta a una fessura sottilissima, senza maniglia né serratura. Mentre la tastavano cercando di forzarla con le unghie la fessura sparì, risucchiata dal muro liscio.
“Che cosa ci hai dato da fumare? Sicuro che fosse proprio semplice marocchino?”
Gigi sporse il labbro inferiore e alzò le sopracciglia.
“L’ho comprato dal mio amico Ahmed che non mi ha mai tirato bidoni”.
“Be’, dai, andiamo. Se si accorgono che siamo spariti rischiamo che fanno un casino”.
Si incamminarono. Fede calpestava solo le piastrelle bianche, Gigi quelle nere, saltellando come gamberi ubriachi. Massimo scelse un’andatura sobria, un rigoroso zigzag da una parete all’altra, una volta sul nero, l’altra sul bianco, ma dovette smettere presto perché gli altri lo avevano lasciato indietro. Man mano che procedevano la luce si faceva più fioca. Qualche tubo ronzava, si spegneva e si riaccendeva pallidamente. Da un certo punto in poi c’era solo oscurità.
“Torniamo indietro?”
Ma alle loro spalle i neon si spegnevano a uno a uno. Rimasero al buio. Gigi tirò fuori l’accendino. Prima di scottarsi le dita illuminò per poco lo spazio circostante. Le pareti sembravano più vicine, il soffitto più basso, come se l’effetto ottico della prospettiva non fosse affatto un effetto ottico, ma una concreta realtà.
“Andiamo avanti?”
Proseguirono tenendo una mano sul muro, Gigi a destra, Massimo a sinistra, Fede aggrappato ai loro maglioni. Presto si ritrovarono a inciamparsi l’uno nell’altro. Il corridoio si restringeva sempre di più. Avevano l’impressione di camminare da ore, ma la fiamma dell’accendino rivelò che gli Swatch segnavano sempre mezzogiorno.
“Che storia, ragazzi! Quando la racconteremo!”
La voce di Fede voleva essere allegra, ma risuonò come il lamento di un bambino piccolo, come quando chiamava la mamma perché aveva paura di restare solo nel suo lettino.
Camminarono ancora. In silenzio perché c’erano echi in agguato, soffi e sussurri che rispondevano alle loro parole. Erano stanchi ma a fermarsi non ci pensava nessuno.
Venne il momento in cui furono costretti a proseguire in fila indiana, strusciando con le spalle le pareti, con il capo chino per non sbattere nel soffitto. Finirono per mettersi carponi, Gigi davanti, Massimo in mezzo e Fede per ultimo, terrorizzato dalla massa di buio che lo premeva da dietro, con l’impressione, ogni momento, di essere afferrato alle spalle. Mancava il fiato, c’era un odore freddo e soffocante, aria stantia e polvere arida.
Di colpo Gigi si fermò.
“Guardate! C’è una luce là in fondo!”
Aumentarono l’andatura. Le ginocchia dolevano, le mani pure, ma presto poterono rialzarsi e poi raddrizzare la schiena. Si vedeva un debole chiarore, una cornice di luce come di una porta chiusa su un luogo illuminato. Avvicinandosi cominciarono a sentire anche un rumore soffice, risatine e voci sommesse, tintinnio di vetri e fruscio di stoffe. Un alito di aria fresca carezzò i loro volti. Respirarono a bocca aperta, ridendo, dandosi pacche di sollievo.
La porta era chiusa, senza maniglia. Bussarono e gridarono finché qualcuno la spinse dall’interno. La luce li colpì senza abbagliarli. Videro una grande stanza rischiarata da decine di torce a fiamma viva. Le pareti non si scorgevano, grumi di buio circondavano l’isola di luce in cui scintillava una tavola apparecchiata di piatti pieni di selvaggina, frutta, pesci, piramidi di pane, tra orci e coppe e fiori di loto. Ombre vestite di bianco si muovevano tutt’attorno, ondeggiando timidamente e sussurrando tra di loro.
“Forte!” disse Fede. “Dove siamo capitati? C’era una festa e non lo sapevamo?”
Gigi gli strinse un braccio, accennando a un gruppo vicino alla tavola. Tre ragazze, brune, snellissime ma con il petto tondo, appena coperte da tunichette pieghettate, li guardavano piene di sorrisi, agitando le mani per chiamarli.
“Miiii… Queste vogliono proprio noi”.
“Topina,” gli scoppiò nella testa.
“Buon Anno,” risuonò nel cervello di Massimo.
“Gatta,” un caldo fruscio che saliva dal cuore, penetrava nelle vene, rimbalzava dalla gola alla punta delle dita frastornò Fede.
“Mannaggia, ragazzi, è una cuccagna. Si mangia?”
Si mangiava, si beveva una birra dolce e spessa, si ricevevano baci delicatissimi nella bocca, si toccavano piccoli seni duri, cosce ferme, natiche sode da atlete. Come per miracolo le altre ombre erano sparite nell’ombra, c’erano solo le tre piccole sporcaccione ansiose di liberarsi dei veli per mettere in mostra i sessi neri e stretti, umidi, i capezzoli come prugnette acerbe, le gambe slanciate. Per un po’ i ragazzi esitarono tra la fame che li spingeva a divorare petti d’anatra e la voglia di stringere quei frutti d’amore, poi cedettero alle dita carezzevoli e alle labbra sottili.
“Si scopa! Ognuno per sé!”
Nessuna delle sudate e ansiose esperienze fatte fino a allora li aveva preparati a quello che successe sulle stuoie distese nei provvidenziali angoli della sala senza confini. Erano angoli ma anche spazi infiniti, dove la luce dolce delle torce permetteva giusto di vedere quello che era bello vedere, i dentini bianchi tra le labbra socchiuse, la morbida voragine che li inghiottiva e li stringeva e li risputava e li avvolgeva in un su e giù smemorato, le tettine elastiche che non rifiutavano né morsi né baci, le lingue pronte a dare sollievo quando, stanchi per essere venuti troppe volte, rischiavano di addormentarsi sbavando sul collo delle loro freschissime compagne. E c’era sempre una manciata di chicchi di melograno, un bicchiere di vino, un’ala di folaga a ristorarli. Profumi delicati e intossicanti. Altro che il solito spinello! Questo era uno sballo vero, un’esperienza totale.
Si sentivano vulcani in eruzione, trasformati in una palla di fuoco paradisiaco proprio lì, in mezzo alle gambe. A poco a poco tutte le altre parti del corpo sparirono ingoiate dalla marea di piacere. Sputavano ossa e noccioli insieme alla saliva zuccherata, scuotevano la testa per liberarsi dalle linguette che gli titillavano le orecchie, annaspavano come stessero annegando. Si scopava e si riscopava, più niente da dire, tacevano le grida e le battute. Zitto, zitto, risuonava nella testa dei ragazzi ogni volta che parole sceme cercavano di uscirgli dalla bocca.
Il primo a cedere fu Gigi.
“Basta! Non ce la faccio più. Riposiamoci un attimo, ti prego”.
Topina si tirò indietro i capelli intrecciati. Aveva uno sguardo scontento.
“Tutto qui? Sei malato?”
“Figurati, gioco a baseball e corro tutti i giorni. Sono stanco”.
Fede, nel suo angolo umido di umori corporei, lanciò un grido.
“Se non smetto muoio! Gigi, Massimo, siete ancora vivi?”
Gatta lo guardò gelida.
“Io sono mezzo morto,” sibilò Massimo. “Ce ne andiamo, ragazzi?”
Buon Anno gli si sedette addosso premendogli il sesso sullo sterno.
“Straccio sporco. Mi aspettavo di meglio”.
La luce rossastra delle torce s’intorbidava di aria scura, ondate di buio si espandevano come olio versato. Quello che era sembrato bello fino a un momento prima divenne minaccioso. I denti scintillanti erano zanne, le manine carezzevoli artigli rasposi, gli acini d’uva soffocavano in gola, gli aromi si corruppero in puzze orribili. La pelle liscia delle ragazze si sfaldava, lasciava tracce di bava violacea sul ventre e sulle cosce degli amanti.
“Credete che sia bello starsene sotto vetro a farsi guardare da qualsiasi cretino che paga il biglietto? Credete che ci piacciano le battute oscene? I commenti idioti?”
“Noi, noi… Non sapevamo, non volevamo…”
“Maiali. Vi credete dei torelli, ma siete solo maialini da latte”.
Gli infilarono in bocca bucce marce, li innaffiarono di acqua putrida, gli strofinarono sul naso i seni spalmati di unguenti urticanti e i sessi viscidi d’amore. Buon Anno saltava a piedi uniti sui testicoli di Fede, Topina graffiò il petto di Massimo fino a farlo sanguinare. Gatta, vezzosa, danzò una danza lasciva su Gigi e infine gli orinò in faccia. I tre, incapaci di reagire, si sentivano legati da mille bende e rigidi in tutto il corpo. Mummificati.
Nella galleria del primo piano, buia e tranquilla, la teca sporca di ditate unte dove Gatta, Topina e Buon Anno riposavano nei loro sarcofagi era una tra le tante. Un visitatore molto attento, o un guardiano che avesse avuto voglia di sollevare lo sguardo dal giornale, forse si sarebbe accorto che la faccia di Topina, l’unica sbendata, era un po’ diversa dal solito. Più fresca, in un certo senso, con i capelli più corti, magari appena sbalordita. Ma in giro non c’era nessuno. Il giorno dopo, quando furono spalancate le tende e frotte di ragazzini e turisti svogliati cominciarono a peregrinare tra scarabei e statue, la differenza non si vedeva più. Mummie, datteri e papiri erano esattamente come ognuno se li aspettava.
“Guarda queste,” disse uno studente secchione, munito di quaderno e penna per prendere appunti, a una compagna innamorata di lui, “che roba. Tre sorelle mummificate. Chissà perché sono morte tutte e tre?”
E nel gelo di dicembre tre ragazzette snelle, brune e allegre, se ne andavano per le vie della città. Portavano pantaloni troppo larghi e troppo lunghi, giubbotti enormi, scarponi esagerati. Insomma elegantissime nel loro genere hip hop. I loro occhi di datteri canditi luccicavano per la gioia, riflettendo le luci degli alberi di Natale che ornavano i negozi. Fecero un girotondo con un Babbo Natale spelacchiato, arraffarono manciate di caramelle e scapparono via ridendo. Nella galleria del Romano ammirarono i manifesti del cinema. Schiacciarono il naso contro una vetrina di biancheria intima, fecero girare la testa a un signore in loden che telefonava affannoso vorticandogli intorno e agitando le linguette appuntite. Sotto i portici di Piazza Castello si fermarono a guardare la folla di ragazzi ammassati davanti al McDonald’s.
“Ehi,” disse Gatta frugandosi nelle tasche del giubbotto, “qui c’è un sacco di soldi. Big Mac, Doppio Cheeseburger, MacChicken per tutte! E dopo ce ne resta per andare a vedere Harry Potter”.
Si infilarono nella puzza di patatine fritte e nelle bollicine di cocacola. Lo schiamazzo adolescente le inghiottì. Fuori, su Palazzo Madama, su Palazzo Carignano, sui monumenti di bronzo e di marmo, sul Museo Egizio, cominciò a nevicare. Presto tutto fu bianco e silenzioso, lo scenario perfetto per un Natale di pace e serenità.
Nota dell'autrice.