sabato 31 gennaio 2009

Too much Mo Yan

Stremata da un Mo Yan che mi è costato almeno un mese di fatica (forse esagero un po', ma mica tanto), non sono riuscita a leggere molto altro. L'ho letto in inglese, e devo dire che non mi sono rammaricata come per The garlic ballads che non sia stato tradotto in italiano. Il troppo è troppo anche per il mio amatissimo scrittore. Si chiama The republic of wine, pubblicato per la prima volta a Taiwan nel 1992. 355 pagine scritte in corpo minimo, talmente piccolo che sembra non ci sia una possibilità di farlo più piccino, invece in certe parti ci riesce. Comunque, da leggere con la lente d'ingrandimento. Poi la complicazione strutturale, che si sa a Mo Yan piace molto, vedi per esempio Grande seno, fianchi larghi: c'è un investigatore che si reca in una regione sperduta chiamata Liquorland perché si sospetta che gli alti funzionari del posto mangino i bambini come squisitezza locale. Poi c'è un aspirante scrittore di quella stessa regione che manda i suoi manoscritti a Mo Yan, che gli risponde, e i manoscritti medesimi, con storie varie che finiscono per intrecciarsi con quelle dell'ispettore e di Mo Yan stesso quando si reca in visita dal suo corrispondente. Temi: bambini stufati, asini stufati, l'alcol in tutte le sue possibili manifestazioni e conseguenze, nidi di rondine, bambini messi al mondo per essere stufati, e via andando. Veramente troppo per chiunque, neanche Dante ce l'avrebbe fatta a tenere sotto controllo tanta esuberanza, e in effetti questo libro è abbastanza illeggibile.
Allora perché l'hai letto? mi chiederebbe chiunque, se qualcuno mai leggesse questo blog solitario. Be', certo perché sono testa quadra e detesto lasciare a metà un libro quando l'ho cominciato; ma soprattutto perché, pur tradotta e in questo caso con la mediazione dell'inglese, la scrittura di Mo Yan mi incanta e mi seduce, mi sorprende, mi convince, ma soprattutto mi piace come mangiare un piatto che amo e non mi stanca mai (per i personaggi di questo libro bambini fritti, genitali di asino e asina composti nel piatto "fenice e dragone", e nidi di rondine - che non sembra niente di che ma andate a leggere che cosa sono e come si raccolgono, poi mi direte). Insomma per me Mo Yan potrebbe scrivere anche i tre moschettieri cominciando dal fondo che baderei più a come lo scrive che a quel che scrive. E qui sorge una questione cruciale. Quanto conta, in una storia, il contenuto in relazione a come è raccontato? Io propendo a dare la precedenza al come. Quando finisco di leggere un libro, il più delle volte quello che diventa permanente è un'immagine, un giro di parole, una frase, un tic stilistico. In questo periodo collaboro a un corso di scrittura creativa e mi sforzo di comunicare agli allievi questa necessità, che io stimo fondamentale, di riflettere sulla parola, ma vedo che l'interesse è scarso per l'argomento. Per loro conta molto di più la vicenda raccontata, sia come comunicazione di un contenuto che come soddisfazione per il racconto medesimo. Il che è molto frequente in chi legge, ma dovrebbe esserlo meno, secondo me, in chi scrive.
Non è che voglio fare la crociana, distinguere forma e contenuto, è solo che sovente mi rendo conto che il piacere che ricavo dalla scrittura, come nel caso di Mo Yan, agli altri non arriva per niente, e allora mi chiedo da che cosa derivi questa differenza. Per consolarmi penso che la letteratura hindi, per secoli, ha raccontato sempre le stesse storie, e ogni autore si distingue solo per come le ha raccontate. Come se qui da noi continuassimo a riscrivere la Divina Commedia e I promessi sposi all'infinito. Per la prima niente da dire, ma all'idea di rileggere il secondo mi viene male. O forse no: io trovo superindigesto lo stile di Manzoni, magari riscritto potrebbe persino piacermi (scherzo, anche la storia dei PS mi fa senso).
Comunque, malgrado tutto l'amore che gli porto per un po' non credo che leggerò un altro Mo Yan. Talvolta l'amore si nutre di assenza.

venerdì 9 gennaio 2009

Strenua me exercet inertia

Non è che l'anno nuovo mi abbia addolcita né che improvvisamente i motivi di irritazione siano spariti. Sono sempre i soliti, purtroppo, e se non ne scrivo è perché appunto c'è poco di nuovo da segnalare. Gli arcinemici sono ancora 1) "fare sesso" (mi fa senso persino scriverlo), 2) l'ormai universale "a me colpisce", "a me stupisce", "a me irrita" e così via, 3) i vari burocratico-efficientisti-necrologici-neologismi verbali del tipo "spiaggiare" di cui ho recentemente sentito un bell'esempio da una famosa e esperta giornalista, "quelle persone sono state attenzionate", che mi ha fatto venire, come si dice a casa mia, la giassina ai denti, anche se i più creativi restano "attovagliati" e "masterizzati" (nel senso di chi ha fatto un master). Vorrei segnarmi ogni nuovo motivo di dolore linguistico, ma noto che devo aver sviluppato un meccanismo di rimozione per cui ogni volta me ne dimentico. Inoltre, come dice il titolo di questo post, la pigrizia mi spiaccica in ogni attimo della vita. Questa citazione oraziana mi piace tantissimo ma non posso usarla troppo perché un mio amico ce l'aveva come motto sui biglietti da visita (un colpo di genio, secondo me) e mi sembra sempre di rubargli un'idea.
Tutto questo fumoso discorso per dire che vorrei scrivere più sovente su questo argomento ma mi infurio, mi imbufalisco poi rimuovo i motivi. E finisco per ripetere sempre le stesse cose.
Concludo con un'altra citazione latina (mi piacciono e non me ne vergogno, solo cerco di non farlo sapere in giro) rubata a Leo Pestelli che teneva una rubrica di lingua sulla Stampa nella prestoria, anni sessanta o settanta: La linguistica, lei sì, curat de minimis. Ma è rimasta drammaticamente la sola a farlo.