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sabato 28 gennaio 2012

Alina Bronsky, La vendetta di Sasha

Il piacere che ho ricavato dalla lettura di Le ricette più piccanti della cucina tatara, della stessa autrice, mi ha spinto a cercare questo suo romanzo d'esordio, uscito in Italia nel 2010. Anche qui c'è una protagonista femminile che racconta in prima persona, però, rispetto al secondo romanzo, non sono sfruttate tutte le possibilità di ambiguità e di divertimento offerte dalla distanza tra il punto di vista dell’io narrante e quanto il lettore intuisce. Quindi Sasha, ragazza diciassettenne dalla vita complicata, è un personaggio interessante e ben costruito ma non regge il confronto con la fantastica Rosa. Ciò detto, dimenticatelo e leggete la storia di Sasha che ne vale la pena. La famiglia di Sasha, di origine ucraina emigrata in Germania dove si svolge la vicenda, è composta da lei, dalla madre Marina e dal marito Vadim, che non è padre di Sasha ma dei suoi due fratelli minori, Anton e Alissa. Marina è bella, libera, curiosa e avventata; caccia lo squallidissimo Vadim e inizia una relazione con Harry, giovane tedesco molto amato anche dai ragazzi. Ma Vadim, divorato dalla gelosia, non può sopportarlo e spara alla coppia uccidendola alla presenza dei figli che ne escono variamente segnati. Il delitto, compiuto nel quartiere degradato in cui vivono gli immigrati russi, suscita un grande scalpore nei media e tra i connazionali. I tre fratellini vengono affidati a una cugina di Vadim che arriva apposta da Novosibirsk senza sapere una parola di tedesco. Tutto ciò costituisce la premessa al romanzo, che descrive le vicende faticose della vita quotidiana della famiglia. Sasha è forte, anche troppo, è il perno che tiene insieme la casa, sorveglia, comanda e decide: ma è anche una ragazzina inquieta e difficile. Non tutte le sue vicende sono facili da decifrare. Cerca amore dalle persone meno adatte, aiuta gli altri ma è facile ai crolli. Ha due obiettivi: uccidere Vadim e scrivere un libro su Marina. Un’intervista a Vadim su un quotidiano mette in moto una serie di incontri e vicende che porteranno a uno snodo narrativo anche troppo clamoroso e al più inatteso degli epiloghi. Alina Bronsky, nata nel 1978 in Russia e cresciuta in Germania, è narratrice abilissima, riesce a tenere il lettore avvinghiato al personaggio (praticamente Sasha è l’unica attrice in campo, gli altri impallidiscono davanti alla sua prorompente personalità) con una scrittura veloce, piena di dialoghi, vivace, assolutamente moderna e priva di compiacimenti, reticente ma chiarissima. La traduzione non sempre impeccabile è di Monica Pesetti. Un romanzo vivamente raccomandabile perché con una leggerezza magistrale riesce a far pensare divertendo molto. Però se vi piace, poi correte a leggere Le ricette più piccanti della cucina tatara.

domenica 11 dicembre 2011

Alina Bronsky, I piatti più piccanti della cucina tatara

Finalmente un romanzo esilarante e appassionante, di quelli che non riesci a mollare un po’ perché vuoi vedere quello che succede nella pagina dopo, un po’ perché staccarsi dalla protagonista è un dispiacere. Vi sono narrate con grande leggerezza e senza mai cadere nel grottesco vicende anche turpi e dolorose, fa ridere, molto, e poi pensare. Non leggete la quarta di copertina, è sviante. La voce narrante, nell’efficacissima traduzione dal tedesco di Monica Pesetti, è quella di Rosalinda detta Rosa, donna di origine tatara che vive nell’Unione Sovietica senza vantarsi delle proprie radici etniche, anzi. Parla russo perfettamente, è bellissima e ha classe da vendere, sa sempre che cosa fare e soprattutto quello che devono fare gli altri. Tutte queste notizie ovviamente le veniamo a sapere da lei, che di tutto può essere accusata tranne di avere dubbi su alcunché. Ha un marito, Kalganov, anche lui tataro russizzato, di cui non tiene alcun conto; una figlia diciassettenne, Sulfja, brutta, sbilenca e tonta. Quando la figlia scopre di essere incinta, secondo sua madre può avere concepito solo in sogno, e Sulfia che è molto conciliante concorda. Nasce una bambina, Aminat, di cui Rosa si impossessa immediatamente. Di qui in poi si dipana una vicenda di cui non svelo troppo perché, come ho già detto, il lettore è acchiappato anche dalla certezza che, pagina dopo pagina, incontrerà continue sorprese. Rosa è una voce narrante di granitica sicurezza e totale inaffidabilità. La vita è dura nel 1978 in una cittadina sovietica di provincia, ma lei sa, senz’ombra di dubbio, di conoscere i suoi famigliari meglio di come si conoscono loro stessi, di essere in grado di manovrarne i destini risolvendo qualsiasi situazione e trovando una soluzione per qualsiasi problema: infine, di avere un gusto infallibile. Così dirige la povera Sulfia come una barchetta in acque agitate conducendola attraverso matrimoni, divorzi e gravidanze, tutti finalizzati a dare una vita migliore alla nipote Aminat, da cui si aspetta moltissimo, in primo luogo la bellezza e l’intelligenza della nonna. Quando le cose non vanno come vorrebbe lei non si ferma davanti a niente. La fine dell’URSS porta miseria e instabilità sociale, ma Rosa riesce a manipolare anche Dieter, un inquietante tedesco che invita le tre donne in Germania, dove la sua instancabile lotta continua adattandosi alla nuova situazione. I disastri che causa non la toccano, non li vede, e bisogna dire che la stessa autrice è vittima del fascino del suo personaggio e le fornisce fino all’ultimo opportunità un po’ fiabesche.
Il piacere di questa lettura deriva in primo luogo dalla ricostruzione dei fatti che si opera nella nostra mente, nel confronto tra il punto di vista di Rosa e il nostro, tra il suo pensiero positivo privo di debolezze e le macerie dei suoi rapporti affettivi, poi dall’ammirazione sconfinata che questo personaggio suscita (è difficile continuare a tenere gli occhi aperti senza soccombere alla sua energia, alle sue convinzioni prive di dubbi, al suo coraggio, alla sua capacità di risorgere dopo ogni batosta), infine dalla ricostruzione dall’interno della vita negli ultimi anni dell’Unione Sovietica, dei mille stratagemmi e delle mille strategie di sopravvivenza messi in atto dagli strenui abitanti. Il tono è sempre oggettivo, non concede nulla all’introspezione, la narrazione procede a passo di carica come la vita di Rosa. Tutto il romanzo è disseminato di piccole osservazioni, particolari, parole sfuggite alla protagonista quasi per caso, che ne disegnano l’umanità con una perizia e un’efficacia davvero stupefacenti, di modo che alla fine le perdoniamo tutti i difetti (e non sono pochi né veniali) che ha. Al suo confronto gli altri personaggi, l’apparentemente mite e impotente Sulfja (una gran bella figura in verità, che appare in filigrana nel monologo materno), la povera Aminat che paga più di tutti la volontà di potenza della nonna, Kalganov che trova tardi una soluzione per salvarsi, il viscido Dieter, Michail Rosenbaum e i suoi genitori, l’inglese John a metà tra Babbo Natale e un angelo custode, impallidiscono, ma il loro spessore risalta proprio dalla distorsione delle parole di Rosa.
Alina Bronsky è nata nel 1978 in Ucraina e vive in Germania. Certamente leggerò La vendetta di Sasha, il suo debutto letterario pubblicato nel 2010 da e/o.