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lunedì 30 maggio 2022

Quando una serie Netflix turca ti toglie la parola di bocca! La famiglia Uysal


 Quattro mesi che non pubblico una riga, davvero una vergogna. La vita si riprende dappertutto, ma io faccio ancora fatica a rimettermi in sesto. E una delle attività che non ho ripreso come prima è leggere: leggo poco, con pochissima concentrazione, arranco, e anche per questo esito a fare recensioni o anche semplici segnalazioni, ho paura di dire sciocchezze. I libri sono stati sostituiti, udite udite, dalle serie Netflix. Qui si potrebbe dare inizio a un discorso serio e articolato, perché sull'argomento ho delle idee che farebbero rizzare i capelli in testa a molti, e probabilmente ci guadagnerebbero molto da un confronto con qualche testa più fina della mia, ma non è né il momento né l'occasione giusta. Quella su cui vorrei riflettere un attimo è una cosa che mi ha molto, e molto piacevolmente, colpita. 

Ho visto una serie turca (ammetto che sono le mie preferite) che si chiama "La famiglia Uysal". Molto originale devo dire, totalmente fuori dagli stereotipi sia come storia che come personaggi. La famiglia Uysal è composta da padre e madre, media borghesia - lui architetto, lei casalinga, due figli, il padre di lui più altri personaggi minori (soprattutto femminili) ma con un loro peso. Istanbul ai giorni nostri, senza la presenza della pandemia di Covid ma con accenni criptici, e scorribande nella campagna dove l'architetto si reca con il suo capo che deve costruire il penitenziario più grande del mondo. Sulla metropoli incombe una nebbia che rende impossibile il traffico - o è inquinamento come sostiene l'opposizione? Qui mi fermo e passo al dunque. Ognuno dei personaggi ha dei segreti nella sua vita. Il padre coltiva una seconda identità punk immergendosi in ambienti alternativi, la madre fa uso di chirurgia estetica per ricominciare a lavorare ma finisce per ritrovare la giovinezza girando locali, sballando e bevendo tutta la notte con un'altra donna che basa la sua esistenza sulla menzogna, il figlio è pazzo e coltiva la sua pazzia con amore e coraggio, il nonno, ex donnaiolo e inaffidabile, cerca a tutti i costi di trasformarsi in marito e padre fedele e affettuoso nella sua tarda età. Persino la bambina di dieci anni sfiora segreti molto più grandi di lei. 


Insomma, mutatis mutandis, esattamente le stesse cose che racconto in "Le case di paglia e le case di pietra". Ognuno ha dentro di sé abissi oscuri e misteriosi, e di chi ci sta vicino non sappiamo niente. La verità è sempre molto più complessa di quello che appare. Soprattutto, mi ripeto, non sappiamo niente di coloro con cui condividiamo la vita. 

Il fatto di avere ritrovato questo stesso significato malgrado ambientazione, personaggi, storie siano completamente lontani mille miglia, non in un romanzo ma in una serie televisiva, mi ha riempita di piacere e soddisfazione. Non importa il medium quando evidentemente il senso converge. La serie televisiva è incomparabilmente più attuale del romanzo (e qui si inserirebbe il discorso cui accennavo prima), più adatta ai tempi, e ciò significa che... no, non lo voglio scrivere qui quello che penso. Comunque, così è.    

martedì 12 ottobre 2021

Questa volta ho fatto tredici: Le case di paglia e le case di pietra


Finalmente, grazie all'impagabile Elisa Labanca di Buckfast Edizioni, vede la luce Le case di paglia e le case di pietra. E' un romanzo corale, ambientato ai giorni nostri, i cui protagonisti si conoscono o si sfiorano soltanto, a Torino, a Pollone, in Liguria o in paesi stranieri come l’India, il Portogallo e la Grecia.

Vi sono narrate le vicende di una dozzina di personaggi (tra principali e secondari) alcuni dei quali hanno qualche punto in comune, più o meno importante, e altri no. Alla fine convergono nello stesso luogo dove rimangono bloccati in un ingorgo, ma questo non significa che si incontrino. Ovviamente ho ben presente il riferimento a Thorton Wilder, Il ponte di San Luis Rey


La struttura è caratterizzata da un alternarsi di parti più o meno lunghe dedicate ai vari personaggi, ognuno dei quali è costruito attraverso le sue azioni presenti e episodi del suo passato, non necessariamente legati ai fatti e alle azioni del presente, cioè non in forma di flash back esplicativi ma di veri e propri racconti autonomi (in particolare per il personaggio principale, Olimpia) che, non limitandoli al presente, li rendono figure a tutto tondo, complesse e vivaci, di cui il lettore può seguire lo sviluppo nel tempo. Questa struttura a “racconti nell’azione” è voluta e cosciente, e l’ho utilizzata in altri miei libri, ad esempio Irene a mosaico e Il cuore in ballo.

 

Alcuni hanno qualche punto in comune, più o meno importante, e altri no, ma tutti sono accomunati dal fatto che nelle loro vite esistono fantasmi e segreti non condivisi neppure con le persone più vicine. Così Olimpia che in apparenza ha realizzato tutto non si accontenta di una vita sola, tra Stella e Aysel si frappongono la colpa e il dolore, Elena deve caricarsi di segreti non suoi, Richi e Pietro rincorrono sogni senza il coraggio di svegliarsi. E anche se alla fine ci pensa il caso, o il destino, a farli convergere nello stesso luogo, non è detto che si incontreranno, o si riconosceranno. Si potrebbe riassumerne il senso così: la vita di chiunque è molto più complessa di quello che appare, e non sappiamo niente di chi ci sta accanto.

Un assaggio, Richi in India:

 La delusione era così cocente che Richi Scotti rimase fermo in mezzo alla stanza per dieci minuti senza decidersi a fare i gesti abituali di ogni arrivo. Con rabbia aprì la valigia, portò in bagno la borsa da toilette, si tolse calze scarpe e camicia, infilò le infradito, prese il portatile e si sistemò nella veranda. Il piano di vetro del tavolino era rotto, la poltrona di vimini non aveva cuscino, nella rete antizanzare della porta c’erano buchi grossi come piattini. E pensare che ho sognato questo albergo per anni. Il famoso Eastern Railways Hotel, bella roba! Sarà stato bello vent’anni fa, quando arrivando dalla spiaggia la sera con Elena ci appariva magico, la veranda illuminata, i clienti eleganti allungati sulle sdraio a bere aperitivi, il prato umido e i rospetti che saltavano sotto i piedi. Quelle due o tre birre servite dai camerieri in divisa come una concessione benevola a due inferiori (non residents not allowed in the restaurant) me le sono ricordate come bevande degli dei, e ho sempre pensato che se mai tornavo a Puri questo sarebbe stato il mio albergo. Bene, adesso non sono più un ragazzo spiantato, posso scegliere quel che voglio, e l’Eastern Railways è diventato una spelonca cadente e vuota. Vorrei poter telefonare a Elena per dirglielo. Domani me ne vado, non posso certo restare in questo sfacelo, chissà che brulicare di topi e scarafaggi ci sarà col buio. E quella zanzariera sul letto, piena di polvere e rammendi… Sarà una notte tremenda.      

Di fronte alla sua stanza, oltre la veranda, si apriva una grande terrazza e il golfo del Bengala respirava azzurro e liscio come seta con lunghe onde ordinate, silenziose. Doveva rivedere qualche passaggio della relazione sull’incontro del giorno dopo, controllare dei dati inseriti all’ultimo momento. Non gli interessava tanto, in fondo non era la sua linea quella prodotta a Puri, aveva accettato di venirci per amicizia verso la collega responsabile di quel settore del progetto, incinta al sesto mese. Aveva già abbastanza problemi, povera donna, l’azienda le faceva pagare la gravidanza come un tradimento. Ma no, sapeva benissimo che le sue motivazioni non erano così altruistiche. Si era offerto di sostituirla per tornare a Puri, e andare all’Eastern Railways Hotel. Il groviglio di pensieri gli impediva di lavorare, lasciò passare il tempo finché l’oscurità cadde quasi senza preavviso sul terreno incolto davanti alla spiaggia dove fino a poco prima dei ragazzi giocavano a cricket, inondò la veranda e la terrazza tanto che gli parve sentirla salire su per le gambe e il petto. Fredde luci al neon si accesero nei negozietti sparsi lungo la strada, i fari sobbalzavano sul fondo sconnesso, tra gli alberi volavano in cerchio frotte di pipistrelli. In giardino i sentieri erano segnalati da lampade nascoste tra le bordure fiorite. Si perse dietro al ricordo di Elena. Proprio lì aveva capito che la loro storia non sarebbe durata. Lei era troppo insofferente, lui troppo appassionato di lei. Al rientro in Italia, si erano detti addio all’aeroporto e non si erano mai rivisti. Non era un corso di pensieri da incoraggiare. Infreddolito, oppresso dal senso di abbandono che emanava dall’albergo vuoto, spense il computer.    

 

E per concludere:

[…] il tempo corre veloce, non si fa acchiappare volentieri. In un attimo ci si ritrova all’età delle rimpatriate, delle tremende cene con i compagni di scuola. In realtà non sempre le cene con i compagni di scuola sono tremende. In fondo bisogna ammettere che si vedono con piacere, perché sono la prova che si è stati giovani. Gli unici testimoni che siamo stati giovani. […] Eppure, dovremmo sempre ricordare che una sera andiamo a dormire che abbiamo trent’anni, e la mattina dopo ci svegliamo che ne abbiamo settanta. Ma dentro, dentro siamo uguali sempre. E quando ci destiamo di notte e il cuore ci si stringe al pensiero di (tutto) quello che abbiamo perso lungo la strada della vita, è lo stesso cuore di quando le facce dei nostri compagni ci erano così familiari, di quando dormire era facile e svegliarsi un dispiacere, di quando si correva dietro al tram seminando fogli e matite. Per fortuna il tempo aggiusta tante cose, quasi tutte, almeno quelle che non distrugge.