giovedì 28 maggio 2009

Marisa Porello, La sbadante

Questo libro è molto consigliato alle persone che ci tengono a avere gli occhi ben aperti anche sugli aspetti meno confessabili e gratificanti della vita. A quelli che non temono di vedersi nello specchio con tutte le rughe le occhiaie e i brufoli che impediscono di illudersi sul proprio aspetto. Anche se qui non di immagine si tratta, ma di anima.
Lorenza è una giovane come tante, con delle passioni e dei progetti, un fidanzato, degli studi in corso. Si trasferisce dalla provincia a Torino, e siccome è una brava ragazza, va a fare visita a dei vecchi zii cui non è particolarmente legata, ma sono gli unici parenti che ha in città. Ben presto lo zio muore e a Lorenza rimane l'ingrato compito di occuparsi della zia, abbiente ma insopportabilmente lamentosa e ostinata. Da quel momento la sua vita cambia indirizzo, e la cura della zia, prima da sola poi con un girandola di badanti, ricade totalmente sulle sue spalle. Il grande merito dell'autrice è che riesce a rendere molto gradevole da leggere questa storia piuttosto dura, con una scrittura pulita e veloce, e soprattutto evitando qualsiasi giudizio, pur non nascondendo né i particolari meno attraenti né i pensieri più inquietanti. Non c'è giudizio, solo l'esposizione oggettiva delle difficoltà che si incontrano da vecchi e con i vecchi, le tentazioni dell'avidità, la grettezza, i sensi di colpa, le stanchezze, i moti d'affetto. E una fantastica galleria di badanti provenienti da ogni angolo del mondo, di cui Marisa Porello scruta pregi e difetti con occhio spassionato e acutissimo.
Termino citando le parole dell'autrice, che ha voluto lasciare da parte il buonismo e cercare di dare rilievo anche alla parte nostra che a un certo punto non ce la fa più e si prende la libertà di trovare insopportabili i vecchi, le vecchie, le badanti, la gestione malata della vecchiaia in questo paese, il potere ricattatorio della gerontocrazia.
Un libro né pietoso né spietato, in cui si sente comunque la vita che lotta con le unghie e con i denti per difendersi, perché questo desiderano tutti, vecchi o giovani, privilegiati o in difficoltà: vivere, e se possibile, ogni giorno un po' meglio di quello precedente. Credo che possa aiutare molti che si trovano a affrontare questa situazione ormai diffussima, mettendoli davanti ai sentimenti che certamente hanno provato anche loro magari vergognandosi, e far capire che, come diceva Terenzio, "nulla di ciò che è umano mi è estraneo".
Pubblicato nel 2009 dalla Neos edizioni.

sabato 9 maggio 2009

Gli amici del Bar Margherita

Gli amici del Bar Margherita di Pupi Avati è un film che ho trovato molto irrilevante e un po' irritante. E' anche un film bonario, di non grandi pretese, che non deve essere costato troppo. Che si può vedere, non fa danni, ma ha la stessa forza di uno starnuto nel fazzoletto. O del classico bicchiere d'acqua fresca.
Una giovinezza nel 1954 a Bologna (cui presta le sue viuzze e i suoi portici Cuneo) raccontata con un eccesso di voce fuori campo e un po' di incertezza tra comico e patetico. Anche qui tutto già visto: il bar solo per uomini, il pappagallismo e il vitellonismo, i tipi "originali", le puttane, la mamma, il nonno. La goliardia crudele, lo sfruttamento della bella prostituta per salvare l'amico gonzo dal matrimonio con la brutta disperata, lo scherzo all'amico che vuole partecipare al festival di Sanremo, il vecchio libidinoso... mancava solo un po' di sacrestia per togliere del tutto l'aria, che già sapeva di chiuso e claustrofobico. Chissà perché si coltiva in giro l'idea che gli anni '50 fossero così cretini e meschinetti. C'erano un sacco di idee in giro in quegli anni, speranze e paure, e il fatto che un gruppo di menti non eccelse si trovasse tutti i giorni al bar non mi sembra così interessante e soprattutto per fortuna non costituisce un modello. Non a caso, nel gruppo figurano un paio di menti deboli (tra cui il sempre simpatico Neri Marcorè) e un demente euforico (Luigi Lo Cascio, raramente in parte dal suo esordio ne I cento passi, neanche qui molto incisivo), più un illuso privo di senso della realtà (Fabio De Luigi, bravo e simpatico, qui con un padre che sembra più giovane di lui), un barista gnugnu e altri casi umani. Le donne, nella fattispecie la madre Katia Ricciarelli, le due puttane Laura Chiatti e Luisa Ranieri (come sempre bella, simpatica e spiritosa), e la fidanzata abbandonata sono meglio, almeno sembrano avere un cervello tra le molte curve. Malgrado la tipizzazione maschilista su cui non insisto, è voluta e inevitabile. C'è anche la più carina stronzissima, non poteva mancare.
Per finire degli anacronismi irritanti: l'uso di gridare grande!, il gesto di vittoria a due mani a pugno che abbassano, l'uso di baciarsi sulle guance per salutarsi, e soprattutto il vestito da sposa della fidanzata abbandonata con una scollatura tale che che se avesse provato a entrare in chiesa conciata così, sarebbe stata immediatamente cacciata a pedate (e presa a schiaffi se per caso avesse incontrato l'allora onorevole Oscar Luigi Scalfaro).

Questione di cuore

Quando ho iniziato a tenere questo blog ho scritto che avrei parlato anche di film, ma poi non l'ho mai fatto più che altro per pigrizia. Adesso non so perché mi è venuta voglia di parlare di qualche film che ho visto ultimamente. A cominciare da Questione di cuore di Francesca Archibugi. Un film non originale ma gradevole, con un bel tot di cliché che si fanno perdonare per il bel cast. E qui vorrei capire: perché tutti trovano così bravo Antonio Albanese e citano solo lui? Io non penso che sia così bravo come si dice, ha una faccia di gomma non tanto piacevole da guardare e un'espressione sempre uguale. In compenso ho trovato bravissimi, pieni di intelligenza e sensibilità, Kim Rossi Stuart e Micaela Ramazzotti, che passano sempre in seconda linea dopo il divo televisivo. Putroppo è così, le facce da TV colpiscono cento volte più di quelle cinematografiche ormai, e se poi si stabilisce il dogma - Albanese è un ottimo attore - tutti lo ripetono senza più interrogarsi se l'hanno pensato o se è vero. La storia, bella, è quella della strana amicizia nata in sala rianimazione tra due colpiti da infarto, un intellettuale e un meccanico di borgata, che non si sarebbero mai incontrati fuori di lì. L'intellettuale è Albanese: sceneggiatore sciupafemmine compulsivo, scialacquatore, sostanzialmente solo malgrado gli amici famosi, con fidanzata venticinquenne (la freddina Francesca Inardi) che forse sta con lui, brutto quarantacinquenne, per calcolo, e lo lascia nel momento del bisogno (ma poi si scopre che lo ama veramente e viene da chiedersi perché mai, visto che oltre tutto il resto lui da un bel po' non la frequenta più carnalmente). Tutto questo vi sa di cliché? Anche a me, ma gli intellettuali non sono tanto originali. Il meccanico, arricchito e con la febbre del mattone, è Kim Rossi Stuart, un po' meno bello del solito in quanto iperpeloso, ma insomma sempre più che attraente. Con moglie popolana verace, passionale, bella e incinta, Micaela Ramazzotti, due figli carini, una mamma protettiva, un'attività avviata in cui si sporca le mani e guadagna un fracco di soldi. Anche qui, niente di nuovo, anzi, ma anche i popolani sono evidentemente fatti con lo stampino. Quello che possiede una vita è il meccanico che apre casa e cuore all'altro che non ha più niente, e questa è la parte più bella, in cui le due vite si confondono anche se non come vorrebbe l'amico generoso. Le cose non vanno mai come previsto, anche se la fine è nota. Grande merito è che il film non diventa mai melenso e non dice mai troppo espressamente, non vuole dimostrare niente ma accenna e suggerisce, soprattutto l'eccelso Kim Rossi Stuart che riesce a esprimere molto socchiudendo gli occhi. Anche Albanese, figuriamoci, ma mooolto meno.

domenica 3 maggio 2009

Maggi, Pasquali, Ramos


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JULIE MAGGI, ELISABETTA PASQUALI, FRANCESCA RAMOS
Tre autrici esordienti che in realtà hanno alle spalle una lunga frequentazione con l’espressione artistica, in diverse forme: musica e disegno ma anche scrittura giornalistica, blog, racconti. I loro romanzi sono molto diversi tra di loro ma nello stesso tempo ci sono rimandi, punti di contatto, che mi hanno fatto molto pensare. Prima cosa è la centralità in tutti e tre dell’amore vissuto come dramma, anzi in due casi come tragedia vera e propria. Le protagoniste di questi romanzi , che parlano tutte e tre in prima persona, sono personaggi tormentati, inquieti, segnati, e le loro “antagoniste”, le donne che amano, lo sono altrettanto se non di più. Eppure sono tutti e tre romanzi fortemente intrisi di vita, che viene guardata con occhi mai delusi, mai scoraggiati. Anche dove non c’è il lieto fine si sente che la vita continuerà malgrado tutto. Altrettanto centrali in Pasquali e Ramos sono la famiglia, e la malattia. C’è molto alcol, molto sangue e morte soprattutto. Poco sesso, tranne in Una come me. L’omosessualità è scontata, non si presenta come problema in Elenoir, sparisce nella difficoltà di amare e è accettata da tutti in Il gusto del picchio; è un condizione assoluta ma fonte di conflitti (la seconda malattia) in Una come me.
Julie Maggi è nata nel 1983 a Manduria, vive a Roma, è pittrice, fumettista, illustratrice, colorista, impaginatrice e grafica. Ha tre siti, juliemaggi.blogspot.com, iraccontidipoe.blogspot.com e jelenoir.blogspot.com.
Elisabetta Pasquali, laureata in Lettere Moderne e Storia Medievale, vive a Bologna dove insegna alle scuole superiori. È giornalista pubblicista, ha lavorato come segretaria di produzione e autrice di testi per varie televisioni.
Francesca Ramos è nata a Milano nel 1961, ha viaggiato per alcuni anni suonando in un gruppo.
JULIE MAGGI, ELENOIR, Foschi editore
Elenoir è una ragazza di ventidue anni che si tormenta perché ha perso il suo amore, Valentine. Cerca di capire, cerca spiegazioni, e la sua ricerca attraversa vari luoghi e incontri in una collana di capitoli abbastanza autonomi tra di loro, e ognuno dedicato a un personaggio, in una città senza nome e in una contemporaneità priva di precise indicazioni. E’ in un certo senso una discesa all’inferno, ma anche un percorso di salvezza durante il quale si svelano segreti. E’ anche un racconto fortemente onirico, spesso surreale, e malgrado la tragicità dell’argomento ci sono anche momenti ironici, divertenti, e argomenti pesanti trattati con molta leggerezza. Ambientato a nostri giorni in una città senza nome, non fa riferimenti riconoscibilii né ai tempi né ai luoghi.
E’ un romanzo illustrato, e le illustrazioni dell’autrice sono importanti non solo per il loro valore intrinseco ma anche perché sottolineano momenti o personaggi particolarmente significativi. Unisce due espressioni artistiche, la parola e il disegno, in modo nuovo perché la scrittrice e l’illustratrice coincidono.
Un aspetto che ho molto apprezzato è l’importanza attribuita agli amici. All’inizio Elenoir dice i genitori sono le uniche persone che ti amano davvero, ma poi si scopre che la sua vita è piena di amicizie vere, persone importanti che non l’abbandonano nel momento del bisogno: Lov, Ska, Karina. In compenso c’è un cattivo, un personaggio abbastanza enigmatico, Blake, determinante per lo sviluppo della storia. C’è molto sangue in questo romanzo. Morte. Ma anche un finale aperto alla speranza, non un lieto fine tradizionale, anzi, questo è un romanzo parecchio noir, ma un’apertura, una luce in fondo alla galleria. Elenoir parte, e la partenza è un inizio. Elenoir è un personaggio smarrito ma anche molto coraggioso. In un certo senso un’Alice nel paese delle difficoltà della vita, forse ingenua ma determinata.
Ci sono molte notazioni precise, un occhio attento. I vestiti di Elenoir che si fa guidare dall’umore del momento quando si veste. L’episodio della discoteca e dello sballo, dove Elenoir cade nella trappola di uno sconosciuto senza rendersene conto, per distrazione più che per ingenuità.
E il fantastico capitolo intitolato Jesus, dove Julie Maggi riesce nel miracolo di equilibrare i toni in modo da non cadere né nel melenso né nello sberleffo, e il personaggio di Jesus diventa più che umano senza perderci in dignità, anzi. Non c’è molto sesso, poca sensualità, ma tanta disperazione e leggerezza.
ELISABETTA PASQUALI, IL GUSTO DEL PICCHIO, Robin Edizioni
Romanzo molto particolare, in cui la cosa che per prima mi ha colpito è l’importanza che vi assume la famiglia. È ambientato ai giorni nostri a Bologna, ma senza storicizzazione, ciò che conta è la vicenda personale della protagonista, Elena de Pisis, psicoterapeuta giovane ma già autorevole per studi e background. Tutta la vicenda ruota intorno al suo incontro folgorante con Clara, una paziente mandatale dal suo supervisore, maestro e guru, il dottor Hermann. Elena si ammanta di freddezza chirurgica, derivatale forse per imitazione dal padre neurochirurgo. È (o vuole essere) dura, manca di empatia apparente con i pazienti anche se poi in momenti chiave dimostra di essere capace di coinvolgimento. Professionale, stimata, ma nell’insieme quello che le manca è la fiducia in se stessa. La sua vicenda umana si risolve nelle ultime 35 righe di cui taccio, anche se tracce sono sparse qua e là nel testo. La sua amata poi amante, Clara, è una donna profondamente ferita, dal vissuto pesantissimo e insieme molto fragile, dipendente da una madre davvero spaventosa e dalla mancanza d’amore da parte del padre, assente e traditore, e del compagno molto simile. Il rapporto tra Elena e Clara è controverso e segnato dalla malattia di Clara e dal desiderio di Elena di salvarla, di liberarla, anche se forse in fondo vuole sottrarla alla famiglia non per renderla libera ma per legarla a sé.
Elena ripete continuamente “sono una terapeuta” come se non ci credesse fino in fondo. Malgrado Clara le tolga le luci del palcoscenico con le sue plateali manifestazioni di disagio, questo personaggio è il più problematico, il più tormentato. L’autrice parla più volte di “famiglia importante” a proposito di Elena e di Clara, nel senso di “padri che hanno un posto importante nella società cittadina”, come se questo aspetto contasse molto. In realtà appare più che altro come una metafora per “famiglia pesante, famiglia da cui non ci si emancipa”. In senso totalmente negativo per Clara, positivo per Elena che ha un rapporto molto bello con il padre, meno con la madre che però si riscatta alla fine. Nel romanzo ci sono molti padri. Elena ne ha uno biologico, saggio anche se malato e a poco a poco privato anche della parola, una coscienza serena. Uno d’elezione, Hermann il guru che la consiglia e aiuta in tutto, la sostiene nei momenti di sfiducia, e anche la nutre e la cura con le sue frizioni al cuoio capelluto. Infine c’è Gildo, forse meno importante ma caldo legame con l’infanzia, anche lui prodigo di cure, affetto, cibo. Sono rapporti affettivi ma anche carnali, l’affetto passa attaverso le parole e anche attraverso il contatto fisico e il cibo. Inoltre tutti e tre la incoraggiano nel suo rapporto con Clara, la accolgono e approvano. Solo la madre ha dei dubbi vedendo che non c’è più distinzione tra la sua vita professionale e quella privata. Il personaggio di cui sappiamo meno è Clara. Anche se la cura psicanalitica è rivolta a lei, rimane ambigua fino alla fine, non riusciamo a penetrare davvero le ragioni del suo andirivieni tra Elena, Filippo e la madre.
Alla fine sembra che Elena rimanga sola con sua madre. Dice: continuo a camminare avvinghiata a mia madre. Una sorta di lieto fine se il rapporto con la madre è così importante, malgrado la vita di Elena appaia molto buia e disperata.
Il romanzo è pieno di metafore, frequentissime, e alcune più importanti, il picchio e il tronco, il tarlo, la cartomante, compaiono più volte. Il sesso, la sensualità sono quasi inesistenti. La carnalità tra Elena e Clara si esprime soprattutto attraverso le mani intrecciate.
FRANCESCA RAMOS, UNA COME ME, La Tartaruga
Questo è l’unico dei tre romanzi che ha una contestualizzazione storica precisa, siamo nei primi anni Ottanta e gli ambienti rispettano questa collocazione, anche i frequenti flash-back sono attenti alla storicizzazione. La struttura è abbastanza complessa, il romanzo comincia quando la vicenda è già conclusa – Lucida, la protagonista, si trova sola a Barcellona dopo la fine del suo amore con Julia Baumann, detta JB, con cui ha trascorso alcuni mesi a Formentera nel paesino di La Mola, sereno rifugio degli ultimi hippy. Nelle ore febbrili che la separano dalla partenza per l’Italia, Lucida ripercorre la sua vita intrecciandola ai ricordi dell’amore con Julia. Ha 22 anni come Elenoir, alle spalle un’infanzia segnata dalla malattia, ha un polmone solo, che l’ha costretta a lunghi periodi lontano da casa e cure continue, e dal dolore della morte prematura del padre, di cancro, quando lei aveva undici anni. Un bagaglio pesante. Ha un fratello poco amato e una madre con cui ha un rapporto conflittuale da quando ha scoperto la sua omosessualità e l’ha colpevolizzata, umiliata e rifiutata. Lucida è un personaggio complesso, sfaccettato, molto interessante, mescolato com’è di debolezza (la malattia, il conflitto con la madre) e rabbia, desiderio di affermazione, che la fa essere protagonista nel rapporto con Julia malgrado lei sia così sfuggente, sbagliata, fonte di dolore. Dice Lucida che l’omosessualità è la sua seconda malattia. Una malattia dapprima amata, considerata il suo giardino segreto, finché non si rende conto che non è accettata in famiglia. Addirittura ne rifiuta il nome. Una terza malattia è quella del padre, che rivela la sua fragilità in una scena clou che è quasi una scena primaria, tanto che Lucida può chiedersi se è perché ha visto troppe volte suo padre a letto che non vuole un uomo nel suo.
La storia d’amore tra Lucida e Julia è molto forte, ma fin dall’inizio abbiamo un senso di ineluttabilità, sappiamo che è destinata a finire lasciandosi molto dolore dietro. Questo potrebbe rendere il libro un po’ malinconico, ma la forza di Lucida, che ne è consapevole, lo riempie con la sua rabbia e la sua volontà di vivere.
I personaggi sono molto ben costruiti, anche le molte figure minori, dal barista Miguel ai frequentatori del suo bar fumoso, da Paca la Tomate al ragazzo canadese che Lucida incontra nella lavanderia a gettoni, alle figure dell’infanzia – penso al tremendo inverno trascorso a Cervinia, così come l’ambiente, Barcellona, Formentera, Milano, le vacanze nelle Marche, le terme, per cui la narrazione pur essendo in un certo senso intimista è anche fortemente concreta, e visiva.
Il corpo è molto importante per Lucida. Afferma che ha disseminato pezzi del suo corpo in Italia e Svizzera durante le lunghe cure e gli esami cui si è sottoposta, e si interroga sulla minore dignità di questi pezzi, che non meritano né sepoltura né benedizione. Anche la sessualità è forte e esplicita, certe volte anche aggressiva, rabbiosa, persino rivendicativa. Esprime molto bene il personaggio di Lucida, che vive l’amore come una colpa.
Apparentemente alla fine c’è una ricomposizione, ma la visione della famiglia, della madre, rimane negativa. Anche se Julia dice non è sterminando la famiglia che ci si può emancipare, poi aggiunge bisogna imparare a difendersi senza farli fuori tutti, altrimenti al mondo non ci resta nessuno. Eppure Lucida torna dalla madre, consapevole che a modo sua la ama, che la malattia ha creato tra loro un legame strettissimo.
La scrittura è molto forte, molto coraggiosa, e anche decisamente esperta. Nelle scarne note biografiche di Francesca Ramos si legge che nel 2000 ha frequentato un corso di scrittura creativa e questo è il suo primo romanzo. Questa scrittura sembra però troppo originale, troppo sua, e troppo cosciente di sé per essere una prima prova. Ci sono immagini fulminanti, frasi che sorprendono anche quando sono semplici (es: la bambina non cresce, neppure in bottiglia). Posso solo ipotizzare che l’autrice abbia strappato molto prima di pubblicare.

sabato 2 maggio 2009

Fata Morgana 12

E poi, tutti quanti alla Biblioteca Shaharazad di via Madama Cristina 41, Torino, dove in collaborazione con l'8° Circoscrizione e la Fiera del Libro si presenta Fata Morgana 12, Porte, passaggi, varchi, barriere. Gloriosa antologia di racconti cui immeritatamente partecipo con il racconto Regina, e poi ci sono Silvia Treves, Massimo Citi, Davide Mana, Massimo Soumarè, Fabio Lastrucci, eccetera eccetera per un totale di diciassette succulenti racconti.
Quindi non potete mancare.
Lunedì 18 maggio, alle ore 18.
Non si accettano giustificazioni. Corsivo

Una passione algerina

Sabato 16 maggio alle 18 alla Fiera Internazionale del Libro di Torino
Simona Marino e Paolo Mauri presentano il libro di Wassyla Tamzali
Una passione algerina, una donna tra rivoluzione e libertà
Filema Edizioni
Sarà presente l'autrice
Al Lingotto, Piazza Italia, padiglione 1, D42 - E41

Una passione algerina

Proveniente da una conosciuta famiglia di notabili algerini, che svolgerà un ruolo importante durante la guerra di liberazione, Wassyla Tamzali è nata in una grande casa colonica in riva al mare. La sua giovinezza non le ha lasciato che ricordi di felicità e profumi d’aranci. Un evento drammatico cambierà tutto: nel 1957, suo padre è assassinato da una giovane recluta del FLN. Malgrado questo tradimento, dopo la nazionalizzazione delle proprietà familiari, la giovane donna si entusiasma per la costruzione della nuova Algeria, di cui fa sue tutte le utopie, prima che muoiano le illusioni, negli anni del terrorismo islamico. Questo appassionato racconto ci introduce nell’intimità di una realtà misconosciuta, che aveva puntato sia all’indipendenza che alla preservazione dell’eredità acquisita a caro prezzo dalla colonizzazione.