lunedì 29 aprile 2013

Le dimenticate, 1 - L'Italia pagana e misteriosa di Vernon Lee




Di recente c’è stata un’invasione di Sellerio a prezzi d’occasione che mi ha spinto a comprare molti volumi di autori che non avevo mai neanche sentito nominare. E soprattutto di molte autrici. La cosa che mi ha colpito è che si tratta di autrici molto conosciute ai loro tempi, che hanno scritto moltissimo, con biografie sovente interessanti, e sprofondate nell’oblio come sassi in uno stagno di petrolio. Alcune ahimè divenute illeggibili, o noiosissime, altre folgoranti.
Cominciamo con una di cui conoscevo il nome e un’opera, un racconto che ammiro e amo moltissimo: Vernon Lee, pseudonimo di Violet Paget (1856-1935). Il racconto è Amour dure, pubblicato in Hauntings, nel 1890, in cui Spiridion Trepka, studioso polacco del rinascimento, si trova in una tenebrosa cittadina medievale del centro Italia sulle tracce della bella e fatale Medea da Carpi, modellata sulle figure di Bianca Capello e Lucrezia Borgia e ivi vissuta nel ‘500. Come è immaginabile ben presto Spiridion soccombe al fascino malefico e spettrale di Medea, sullo schema di Oliver Onions e della sua magnifica La bella adescatrice. Vernon Lee è un personaggio molto interessante: di nazionalità britannica ma nata in Francia da genitori inglesi espatriati, tornò sovente a Londra ma visse la maggior parte della sua vita in Italia, negli ultimi anni nella villa di Palmerino sulle colline di Firenze. Seguace di Walter Pater, studiosa di storia dell’arte, considerata ai suoi tempi tra i massimi esperti di Rinascimento italiano, amica di intellettuali e pittori, lesbica, democratica, femminista, pacifista, sempre vestita à la garçonne, scrisse oltre quaranta libri di critica d’arte e di narrativa fantastica. Sembrerebbe un personaggio, se non una scrittrice, difficile da dimenticare, invece fuori dalla cerchia dei cultori di storie soprannaturali ben pochi la conoscono. Di Vernon Lee ho trovato Dionea e altre storie fantastiche, 2001, e L’avventura di Winthrop, 2003, entrambi tradotti da Simonetta Neri. Introvabile Possessioni, 1982, traduzione di Attilio Brilli, che però ho potuto scaricare da Amazon in inglese con meno di 2 euro. Dionea (di cui potete leggere qui una bella recensione di Silvia Treves) è un racconto epistolare in cui un anziano dottore narra a una sua nobile amica e benefattrice la singolare storia di una bambina giunta naufraga sulle spiagge di Montemirto Ligure, immaginario paesino delle Riviera di Levante. Dionea è una creatura selvaggia, inconsapevolmente fatale, giunta dal passato più oscuro e dimenticato… Suggestioni della mitologia classica e oscura potenza femminile ne fanno un racconto fascinoso e molto importante è la collocazione spaziale, in una Liguria genericamente mediterranea, tra suore e artisti squinternati. Notevole anche L’orecchio di Marsia, in cui un blasfemo abbaglio ancora legato al mito greco porta miracoli e sventure in un’antica chiesa di Dunes, sulle coste settentrionali della Francia, mentre Il cassone nuziale è una cupa storia di violenza, sesso e morte di ambientazione rinascimentale, con un tocco di necrofilia ben assestato. L’avventura di Winthrop poi è una classica, godibilissima, storia di fantasmi che unisce i temi della musica ritrovata, del ritratto fatale (presente anche in Amour dure) e della casa hantée ambientata nella grassa pianura padana tra meliga e pioppi, contadini che leggono I reali di Francia alla luce del focolare, temporali e città murate nella pianura. Davvero perfetto nel suo genere. Vernon Lee è scrittrice molto esperta, accurata, virtuosa nelle descrizioni e capace di risuscitare i tempi andati creando atmosfere incantate e realistiche, trasportando sapientemente il lettore in scenari di magica intensità. Non si capisce proprio perché la sua fama si sia sfaldata e dissolta con il passare del tempo che lei riusciva a mantenere vivo con le sue parole.   

sabato 20 aprile 2013

L'ultimo romantico: uno struggente noir torinese, Francesco Gallo, Almeno gli alberi hanno le foglie



Francesco Gallo è un esordiente che non sembra affatto tale. Di lui so pochissimo, è un giovanotto simpatico e disinvolto nato nel 1977, vive a Torino, come recita la quarta di copertina “lavora in giacca e cravatta, ma deve ancora capire che cosa fare della propria vita”, scrive benissimo e ha vinto l’edizione 2011 del Premio Alga con Almeno gli alberi hanno le foglie, dietro al quale ci devono essere anni di scrittura e soprattutto di letture. È un noir appassionante e super romantico, dal passo lento, che ci dice molto sulla generazione che oggi è sulla trentina e al tempo in cui si svolge il romanzo, presumibilmente il 2008 dagli accenni all’Onda studentesca e alle manifestazioni contro la riforma Gelmini, era variamente scaglionata lungo la ventina; è anche un romanzo di formazione, come qualsiasi romanzo che ha un giovane come protagonista e io narrante. Che è Gabriele Pazienza (un omaggio al grande indimenticato Andrea, ma anche una caratterizzazione che in un certo senso non stona affatto con il personaggio), in possesso di una laurea, precariamente impiegato in un’agenzia di investigazioni dopo una serie di lavori persi o rifiutati. Gli viene affidato il primo caso di pedinamento: deve seguire Lucia, studentessa figlia di un ricchissimo borghese che vorrebbe saperne di più sulle attività che la tengono fuori casa notte e giorno. Presto Gabriele capisce che la storia non è così semplice, Lucia è un mistero molto più complesso del previsto, il padre non la conta giusta. Comincia così per lui un’avventura che gli sconvolgerà la vita, portandolo a scelte senza ritorno. Gabriele è disperato e allo stesso tempo dotato di principi e convinzioni, pronto a giocarsi l’esistenza per il bel gesto, l’atto eroico che persegue una giustizia personale e ingiusta, è l’ultima incantevole personificazione del superomismo autolesionista. Non cerca di rendersi simpatico a nessuno, tranne forse ai bambini. Non è ribelle, è lucido, forte e critico, un perfetto eroe romantico che alla fine sceglie il beau geste  perché qualsiasi ritorno alla vita “normale” sarebbe un abbassarsi. Importanti, e molto interessanti, sono le figure femminili, identificabili nella femme fatale, la mamma (anzi due, c’è anche la mamma vera) e la compagna di giochi. Le donne giovani sono sempre caratterizzate dall’aggettivo piccolo, piccolo mento, piccole mani, e dal contrasto tra la forza morale, caratteriale, e la vulnerabilità fisica. Le vediamo sovente addormentate, ne ammiriamo collo e nuca. Per contro, il mondo maschile è legato a una  virilità romantica e tutto sommato limitante: con gli uomini si compete, si beve, ci si scazzotta, si scherza; con le donne non si scherza mai, si scopa e si parla. I vari personaggi giovani sono studenti, fuoricorso, sottoccupati e precari. L’università e gli studi non hanno più nessun valore, non sono né occasione di riscatto né costituiscono una barriera sociale da opporre ai meno privilegiati, la laurea non porta da nessuna parte, la si prende per poi buttarla via lavorando come manovale in nero in un cantiere. Belle, benissimo delineate con una sorta di affettuosa commozione, le figure sullo sfondo della madre e di Vincenzo, l’operaio meridionale con le mani grosse che le ha restituito la serenità dopo anni difficili. I padri, nel complesso, meglio perderli che trovarli.
La grande differenza tra l’“essere contro” di Gabriele e le ribellioni giovanili che hanno percorso la seconda metà del ‘900 è che lui è solo, il suo gesto è isolato, non cerca la condivisione né un’eco sociale, non conosce l’esaltante coscienza di fare parte di un movimento, anzi: sia lui che i suoi coetanei sono individui e basta. Torna più di una volta il ricordo del G8 di Genova, dove Gabriele ha sperimentato la violenza e l’ottusità del potere, e forse ancora si è sentito parte di un’esperienza collettiva, ma questo è già il passato. Le manifestazioni in cui si trova coinvolto inseguendo Lucia non sono tali, non si manifesta niente, non sentiamo slogan, sono solo occasioni per contrapporsi faccia a faccia, petto a petto con la polizia, conquistarsi l’ambigua medaglia dei lividi da manganellata. Infatti, chiosa Gabriele non si sa se più stoico o più disincantato, Gli studenti furono sconfitti, la riforma si fece. I precari furono sconfitti, la riforma non si fece. Gabriele non ha cose da chiedere, utopie, aspirazioni: l’odio per l’“orco” che rappresenta per lui tutto quanto è disprezzabile al mondo, e l’amore disperato e assoluto per Lucia sono altrettanto improvvisi, inesplicabili, privi di sostrato, di pensiero, di motivazioni basate sulla conoscenza: puro, romantico abbandono all’istinto della coscienza che riconosce solo a se stessa il diritto di giudicare. L’ambientazione in una Torino straordinariamente reale dove si mescolano San Salvario e Crimea, Corso Regina e i centri sociali, Porta Nuova vista dall’alto di un cavalcavia e le birrerie, le gradinate di Palazzo Nuovo e il Valentino ai primi caldi, è affascinante come un basso continuo che non prevarica mai la linea melodica principale. Piangemmo insieme, sperando che il bambino non si svegliasse e scoprisse quanto può essere brutale la vita di due ragazzi qualunque in questa città che qualunque non sarà mai. Fondamentale anche la colonna sonora che accompagna tutta la vicenda. Infine, dal mio punto di vista strettamente personale due meriti in più: primo, l’orribile segreto che emerge dal passato è almeno una variazione sul tema più abusato e stucchevole degli ultimi anni, e i personaggi, pur praticandolo spesso e volentieri, non usano mai l’orripilante espressione “fare sesso”. Il romanticismo e il superomismo perdente sanno molto bene come scegliere un linguaggio all’altezza del proprio valore.

   

mercoledì 10 aprile 2013

Lettera a un'amica molto cara, che non la leggerà mai


Mia cara amica, questa lettera è proprio per te, anche se non è fatta di fogli fruscianti e macchie di biro. Se solo tu fossi nata qualche anno dopo avremmo la stessa dimistichezza con lo schermo del computer. Sei così attenta a quello che succede nel mondo, curiosa e lucida nei tuoi giudizi, non è certo per pigrizia che non sai niente di informatica. Il fatto è che hai novantaquattro anni, una bella età comunque la si guardi. Io la guardo su di te e vedo che è bellissima. Come te. Hai le guance rosa e i capelli bianchi, le mani trasparenti, gli occhi di cui non si capisce più il colore. Sei stata operata di cataratta per cui vedi molto meglio di me, leggi la guida del telefono senza occhiali. Sei un po’ golosa, ma mangi poco e due etti di cioccolatini ti durano al lungo. Soprattutto sei una gran chiacchierona, hai sempre un sacco di aneddoti da raccontare, complicate parentele e riassunti di vite lunghissime. Posti che hai visitato in epoche favolose, dolori terribili che nel trascorrere del tempo hanno assunto una patina nebbiosa, si sono smussati come ciottoli di mare. Li racconti molte volte, anche immediatamente di seguito, e ogni volta ci sono delle variazioni che mi sorprendono. Ti fermo e ti interrogo, e nelle tue risposte cambi ancora versione. Mi chiedi le stesse cose a distanza di pochi minuti, e le mie risposte scivolano via sulla tua memoria come le mie domande. Parlare con te è un incanto, le tue storie hanno l’andamento sinuoso della linea di schiuma sulla battigia, e lasciano tesori sulla sabbia proprio come le onde. Vanno e vengono, sempre uguali e sempre un pochino diverse. In confronto le cose che potrei raccontarti io sembrano acqua stagnante. Ti dico quattro volte dove ho passato l’estate scorsa, cinque volte quali film ho visto ultimamente, sei dove penso di andare l’estate prossima, sette che cosa sto scrivendo in questo periodo. Sei cortese, sai fare conversazione e ti interessi sul serio a me. Che ti dimentichi quello che dico nell’istante stesso in cui l’ho detto non conta, conta la tua premurosa gentilezza e la generosità con cui ti racconti. Ecco, questo è l’unica ragione per cui ti scrivo questa lettera. In fondo ci siamo viste ieri, anche se quando tornerò da te la settimana prossima mi dirai meno male che ti fai viva! ero proprio spersa, è tantissimo che non ci vediamo!. Però non ti ho mai ringraziato per essere diventata mia amica pochi anni fa, quando i novanta erano già vicini. Hai avuto voglia di avvicinarti a una nuova amica e scoprirti con generosità, raccontarmi i momenti più ricchi della tua vita. Per questo ti dico grazie, grazie della tua amicizia che mi ha fatto sentire importante. Forse tu mi dimenticherai, per poco o per sempre, ma io no. Almeno finché la memoria mi sosterrà.