venerdì 27 aprile 2012

QUATTI QUATTI, O CON FRAGORE - Gente che scappa di casa e non torna più



Giovanni, perché pioveva.

Clelia e Giovanni, giovani sposi di buone possibilità economiche, abitavano in una cascina ristrutturata in collina, a dieci minuti di macchina dal centro. Clelia aveva voluto le pareti della camera da letto di un tenerissimo rosa carne. Nell'ex tinaia avevano messo un grande tavolo di legno, una credenza liberty con una collezione di piatti spaiati, mazzi di ortensie secche, un braciere cinese di bronzo e un forno a legna.
"Soprattutto, niente barbecue", aveva detto Clelia, recisa.
"Barbecue, per la carità!" le aveva fatto eco Giovanni. Ridendo, si erano versati un bicchiere di Ferrari e avevano brindato alla loro nuova casa. Alla felicità coniugale, anche, naturalmente.   
Clelia era fotografa, Giovanni copywriter in una società pubblicitaria. Sulla casa ristrutturata splendeva sempre il sole, gli amici accorrevano numerosi nei fine settimana ad assistere alla gioiosa e giocosa convivenza. A Clelia piaceva civettare, a Giovanni corteggiare. Lei amava gli abitini sottoveste di seta impalpabile, lui i jeans strizzapalle con camicie Oxford buttondown.
Una sera di ottobre ci fu un temporale tremendo. Per una settimana dopo piovve a dirotto, il fiume, giù in basso, straripò, crollarono case in tutta la regione, paesi interi rimasero isolati, mucche gonfie galleggiavano sull'acqua e bambini arrampicati sugli alberi venivano strappati via dalla corrente. I morti furono centinaia.
Il tetto della cascina ristrutturata era solido, ma il vento strappò via qualche tegola. Il tenero rosa carne della camera da letto fu macchiato da lunghe colate marroni.
"Porcamianonna!" gridò Giovanni. "In questa casa non si può vivere. Te l'avevo detto io che non ha senso stare fuori città. La gente normale abita nel centro storico.  Fanculo te e il tuo stupido barbecue".
Prese le chiavi della Thema e sgommò via tra schizzi di fango.
Clelia si versò una vodka lemon e guardò fuori dai vetri rigati di pioggia.  
"Barbecue?" rifletté. "Va be' che è molto sdato, non è trendy, ma a me piacciono da matti le salcicce ben bruciate e i pomodori arrosto. Ci penserò".

Luigi, per amore.

Ogni volta che usciva dal portone e attraversava la strada per raggiungere la fermata del 61, Luigi, anche se era in ritardo, perdeva qualche minuto a guardare nella vetrina dei sarti. Dentro c'erano due uomini tra la mezza età e la vecchiaia, con la bocca piena di spilli, le mani di gessetti e forbici, gli occhi di vuoto. Quando tornava dall'ufficio erano ancora lì. Quando andava al cinema con Amalia, al secondo spettacolo, erano ancora lì. Quando tornava, non c'erano più.
"Ma non avranno una casa?" diceva Amalia. "Niente moglie, né figli o nipoti? Niente gatti? Piante da bagnare? Sapranno che esiste la televisione? Quasi quasi domani glielo chiedo".
"Se lo fai ti picchio. Guai a te se spingi quella porta".
"Basta aspettare la primavera, che la tengono aperta. Ci sarebbe la tua giacca di tweed verde, ti ha sempre fatto difetto sulla spalla..."
Era una sartoria da uomo. Veramente era un bugigattolo, arredato con un manichino coperto di mezze giacche e brani di cappotti, la macchina da cucire, due sedie e un tavolo non più grande di un banco di scuola. Le pareti erano gialline, dal soffitto pendeva una lampadina senza paralume, però da cento watt. I due sarti non si parlavano mai, ma lavoravano in continuazione.
C'era una cosa che Luigi non capiva. In sette anni che abitava di fronte alla bottega, non vi aveva visto un cliente.
Un sabato mattina che faceva la spesa, interrogò il macellaio di fianco. 
"Lei si serve alla sartoria qui vicino? Sono bravi?"
"Quale sartoria?"
"Quella tra l'antiquario e il bar Castello".
"Sa che non l'ho notata? Non esco mai di bottega, quando chiudo sono di fretta".
I figli di Luigi, Marcella e Vittorio, portavano solo giubbotti, jeans, minigonne e T-shirt che appena si scucivano erano da buttare. Amalia, impiegata al Comune, cucinava scatolette e surgelati dal lunedì al venerdì, lasagne al forno e melanzane alla parmigiana. Gli avanzi li dava al gatto. Non le piaceva tanto scopare, ma si sforzava di gemere e muovere le anche per fare contento Luigi. Nello stesso tempo, faceva attenzione che i ragazzi non sentissero suoni strani provenire dalla stanza da letto.
Una sera Luigi non tornò a casa dal lavoro. Verso le nove, quando già la famiglia agitatissima aveva interpellato ospedali e carabinieri, telefonò da una cabina. Si sentiva il traffico in sottofondo.
"Chiamami tua madre," disse a Marcella che rispose con il fiato corto.
"Luigi, dove sei? Cazzo ti è successo? Sono fuori di me dall'ansia".
"Sto benissimo, non ti preoccupare. Non tornerò più a casa. Ho un'altra donna, vado a vivere con lei. Ti farò telefonare dal mio avvocato".
"LUIGI!!!"
Luigi si era innamorato della cassiera del bar Castello. Si trasferirono in un'altra città, dove c'era una filiale della ditta in cui lui lavorava. Lei, che aveva un po' di soldi, aprì un'erboristeria. Due anni dopo ebbero una bambina che chiamarono Veronica. La separazione, e poi il divorzio, gli costarono un sacco di soldi.
I sarti non c'entrano niente, ma erano lì a lavorare prima, durante e dopo il misfatto. Se è per quello, sono ancora lì.

Mario e Benedetta, contemporaneamente.

Mario insegna fisica all'università e vuole molto bene a Benedetta, dietologa d'ospedale. Hanno un figlio solo, Giorgio, che sta facendo un master in economia all'MIT e vive con una ragazza cambogiana, ex profuga e brillante analista di mercato.
Ora, Mario ha una profonda crisi esistenziale. Scopre, lui marxista positivista materialista da sempre, che le convinzioni che hanno sorretto tutta la sua vita non gli bastano più. Di nascosto comincia a frequentare un gruppo di meditazione di cristiani sconcertati, un po' buddisti, un po' mistici, un po' bahai, un po' arancioni. È molto gratificato dal fatto che la sua formazione scientifica gli dà autorità. A ogni questione teorica viene interpellato. A lui piace dire che non ha risposte, invece ne ha sempre una pronta.
Benedetta non vuole tanto bene a Mario. Gli serba rancore per la freddezza sessuale, per la spocchia maschile, per le garbate prepotenze della vita coniugale. Comunque, è suo marito. Però c'è una sua collega giovane, o almeno abbastanza giovane, che le si appoggia in tutto, la cerca, la corteggia. Perché no? Benedetta sperimenta un rapporto omosessuale. La scoperta la sconvolge. Forse tutta la vita ha desiderato proprio questo, e adesso non vuole rinunciarci.
Mario decide che ha bisogno di un periodo di ritiro nella casa centrale della setta, in Himachal Pradesh, India del nord.
Benedetta decide di andare a vivere con l'amica, nel suo grazioso appartamento di semiperiferia.
Mario non vuole far del male alla moglie.
Benedetta non sa come dirlo al marito.
Mario dà le dimissioni, mette a posto tutti i suoi affari, versa un sacco di soldi sul conto comune. Torna a casa a metà pomeriggio, fa i bagagli, manda un'email alla moglie. "Dillo tu a Giorgio, vi voglio bene," è l'ultima frase. Se ne va stringendo passaporto e biglietto d'aereo tra le mani sudate.
Benedetta torna a casa poco dopo. Non entra nello studio, fa i bagagli con cura, bagna le piante, butta via gli avanzi del frigo, lava la vasca da bagno e fa una lavatrice con le lenzuola del letto coniugale. Lascia un foglio in bella vista sul tavolo di cucina. "Dillo tu a Giorgio, non tornerò," è l'ultima frase. Uscendo, non dimentica di inserire il sistema d'allarme.
Nell'appartamento abbandonato il computer acceso ronza dolcemente, lo schermo ormai nero per il risparmio energetico. Le piante dopo qualche giorno penzolano assetate, il biglietto in cucina si copre di polvere. Le tarme svolazzano, gli scarafaggi escono da sotto al lavello, il frigo puzza. Ogni tanto il telefono squilla. La segreteria risponde cortesemente: "Non siamo in casa, ma se volete lasciare un messaggio, vi richiameremo. Parlate dopo il segnale acustico. Grazie!"

 Camilla, per distrazione.

Una mattina Camilla, moglie di un politico affluente e telegenico, uscì di casa per andare dal pedicure. Al ritorno si accorse che aveva dimenticato le chiavi.
"Guardi che io ne ho una copia," disse la portinaia, solerte.
"Scherza?" rispose Camilla.
Mollò la spesa davanti alla porta, e sparì. Fortunatamente si era ricordata di prendere la carta di credito e il libretto degli assegni.

Stefano e Silvia, insieme, felici.

Un matrimonio d'amore come quello di Stefano e Silvia non s'era mai visto. Belli, giovani, sensuali e fortunati, scopavano come ricci dalla mattina alla sera nei giorni di festa e dalla sera alla mattina durante la settimana. Stefano, idraulico, guadagnava bene, e Silvia, estetista, non era da meno. Quando giunse il primo figlio ebbero un premio dalla Nestlé per il neonato più bello e grosso dell'anno. Lo chiamarono Kim. La seconda, Giada, fu esibita alla trasmissione televisiva "Cuccioli allo sbaraglio", ma non passò la prima selezione. Dalla rabbia, Silvia fece causa a Mediaset, e la vinse, dimostrando che quel giorno Giada aveva il raffreddore. Nacque ancora un terzo figlio, Oronzo come il nonno paterno, affettuosamente detto, in famiglia, Zorro dai genitori e Stronzo dai fratelli.
Stefano e Silvia continuavano a scopare, con qualche precauzione in più. Tre figli erano tanti da allevare. Crescendo, i bambini dettero qualche problema. Giada, figlia mezzana, soffriva di enuresi notturna. Kim rubava tutto quello che gli capitava a tiro, dalle merendine dei compagni ai soldi nella borsa della madre. Zorro picchiava gli amichetti all'asilo e toccava le bambine in punti delicati. I genitori, incolti ma informati, consultarono psicologi, assistenti sociali, maghi e santoni, ottennero un'udienza privata dal papa per fare benedire i figli, tentarono un esorcismo con un monsignore africano, parteciparono a "La vita in diretta" per narrare la propria odissea. Niente da fare. Raggiunta l'adolescenza, Kim si drogava, Giada si prostituiva e Zorro frequentava un vecchio pedofilo affettuoso.
Stefano e Silvia si erano conservati giovani, malgrado le traversie. Continuavano a guadagnare bene. Amavano i figli, ma avevano voglia di scopare in pace senza doversi interrompere continuamente per correre in questura o alle Molinette a ricuperare l'uno o l'altro. 
La sera in cui Zorro compì quindici anni, dopo il taglio della torta, i due coniugi baciarono i tre ragazzi, consegnarono a ognuno un assegno non trasferibile, scrissero a pennarello il numero di telefono dei nonni sulla tappezzeria dell'ingresso, e se la filarono all'inglese. Ora lavorano in un villaggio vacanze di Grenadine, dove Silvia trucca e depila le turiste, mentre Stefano si occupa della manutenzione degli impianti idraulici. Vivono in un bungalow con il tetto di foglie di palma, bevono daiquiri e margaritas, ballano tutte le sere sotto una tettoia decorata con festoni di lampadine e scopano, scopano moltissimo, non sempre insieme. Si sono fatti sterilizzare entrambi. Non telefonano mai a casa, e hanno cambiato le schede Sim dei loro telefonini.   

lunedì 23 aprile 2012

La giornata del libro e un'ecatombe di scrittori

Oggi è la giornata mondiale del libro (qualsiasi cosa voglia dire) e mi adeguo, parlando di libri. Non è una novità? Be', so fare poco altro per cui abbiate comprensione. Comunque, per combinazione oggi è anche il compleanno di uno scrittore che amo moltissimo, Halldor Laxness, pubblicato da Iperborea, di cui vi consiglio qualsiasi cosa sia stata tradotta ma soprattutto Gente indipendente. Nato il 23 aprile 1902 in Islanda, ha avuto il Nobel nel 1955 ed è morto nel 1998. E' uno scrittore potentissimo, coraggioso e pieno di immaginazione, parla di posti inimmaginabili e di vite che si stenta a credere possano esistere, crea personaggi che sprizzano vita e energia malgrado il freddo, il buio, la fame, le disgrazie. Quando si finisce di leggere un suo libro ci si sente più ricchi. E ho detto tutto.
Altri compleanni non ne ho, ma in compenso un'ecatombe di scrittori morti in questa data.
Il più impressionante è il 1616: il 23 aprile in un colpo solo muoiono tre giganti, che dico, tre vette della letteratura, come se nello stesso giorno venissero giù l'Everest, il K2 e l'Annapurna. Cominciamo con Garcilaso de la Vega, nato nel 1539. Proseguiamo con Miguel de Cervantes, nato nel 1547, e terminiamo con William Shakespeare, nato nel 1564. Chissà che cosa si sono detti incontrandosi lungo la strada.
Nel 1850 muore in questa data William Wordsworth, nato nel 1770. E nel 1996 muore Pamela Lyndon Travers, nata nel 1899, la più cara al mio cuore in quanto creatrice di Mary Poppins e autrice di quattro immortali libri che hanno allietato la mia infanzia facendomi sognare un mondo di magie. E dimenticatevi assolutamente la melensaggine dell'omonimo film di Disney, che però ne ha oscurato la fama tanto che su Wikipedia non c'è nessuna voce a lei dedicata.
Non riesco a mettere le immagini non so perché, ho fatto tutto quello che dovevo ma alla fine non mi risultano dove le ho caricate. Misteri del web. Comunque, cercatevele, almeno quelle di P.L. Travers in costume di scena come Titania o con una peccaminosa sigaretta in mano. Altro che Julie Andrews e un poco di zucchero. Mary Poppins era fatta di tutt'altra pasta.

 

lunedì 16 aprile 2012

Non prendetemi alla lettera


                       

         Non me ne sarei mai accorto se non fossi stato disturbato da un leggero raschiare che mi fece sollevare lo sguardo dal giornale. Mi caddero gli occhi a terra e prima che riuscissi a riacchiapparli finirono sotto il divano dov’era acquattato un topolino.
I topi in casa mi danno un gran fastidio, mi deprime il senso di sciatteria e sporcizia che si tirano dietro nelle loro rapide fughe, come la purea di patate e il pollo bollito che mi facevano mangiare da bambino quando avevo l'influenza. Sinceramente avrei preferito non vederlo.
Mi chinai a raccattare a tentoni i miei begli occhi dall'iride azzurro mare, la cornea bianca come la panna, appena appena venati di rosso sul dietro, e me li rinfilai con cura nelle orbite. Anche questa era una cosa che mi irritava: tutto quel vorticare di coglioni dentro ai pantaloni, quel cuore che mi sanguinava o si metteva a piangere attraverso il petto, quel trovarmi ogni sorta di oggetti sulla punta della lingua quando cercavo una parola, mi stancava. Per questo avrei voluto avere un corpo un po' meno letterale, capace di riconoscere una metafora quando la incontrava, ma non c'era niente da fare, ero sempre stato così fin dall'infanzia. Prendevo tutto alla lettera, ero troppo serio, me lo diceva sempre mia mamma buonanima. Mi era rimasto un velo di polvere sulle pupille che fluttuava alla corrente d’aria. Decisi che avrei finalmente licenziato Rosa, la donna delle pulizie: era diventata davvero troppo trascurata.
Prima di uscire mi diedi una spolveratina agli occhi e sistemai una trappola con l'esca avvelenata sotto al letto. Niente pietà per il topolino di città. Avevo un appuntamento con Valeria, la mia nuova fidanzata, e speravo di riuscire a portarla su quel medesimo letto di lì a poco.
Non mi ero reso conto che la temperatura era calata e appena fui in strada, con la mia leggera giacca di canapa sulla maglietta a maniche corte, mi coprii di pelle d'oca. Gialla, grassa, spessa, irta di peluzzi e piumette, sporgeva dai polsi della giacca e dallo scollo della maglietta in maniera veramente fastidiosa, ma non avevo tempo di tornare a casa a cambiarmi. Per fortuna Valeria mi aspettava in un bar dove faceva un bel caldino.
"Ciao amore," mi salutò lei, con un sorriso che avrebbe fatto arrapare un merluzzo surgelato. Un sorriso che allargava il cuore, ed ecco che il mio cuore si allargò tanto da deformare la maglietta, tump tump tump, pulsando indiscreto fuori dalla giacca. Mi detti un pugno sul petto per rimettere ordine e le sedetti accanto.
Non mi ci volle molto per convincerla a venire a casa mia. Stretti stretti, la mano nella mano, salimmo le scale fino al mio appartamento. Per fortuna, non avevamo gli occhi negli occhi, non so se sarei stato in grado di districarli.
La trappola era ancora vuota, me ne assicurai mentre Valeria era in bagno per un ultimo veloce controllo alle sue grazie. Mi spogliai e mi infilai sotto le lenzuola, in ansiosa attesa. Lei giunse leggera e bellissima, nuda come la verità.
"Ti amo," disse in un soffio, mentre le sue mani si spingevano lungo il mio corpo in curiosa esplorazione. Io mi limitai a un "Ah" molto sentito ed espressivo. Il linguaggio dell'amore è pieno di trabocchetti per un corpo privo di sensibilità metaforica.
Più tardi, seduti al tavolo di cucina davanti a una tazza di tè, ci guardammo tenendoci per mano. Avevo finito lo zucchero, ma il tè mi parve dolce lo stesso.
"Ti amo," disse Valeria. Non aveva una conversazione brillante.
"È stato bellissimo," aggiunse.
"È stato fantastico," dissi io. Neanche la mia conversazione era brillante, ma bisogna considerare il fatto che ci conoscevamo appena. Non sapevo quasi niente di lei, a parte il fatto che guardandola mi veniva in mente una cosa sola.
Si alzò aggiustandosi la gonna che le era scivolata su per le cosce.
"Mi accompagni a casa?"
"Certo, tesoro. Aspetta solo che mi infilo un pullover".
Mentre ero in camera da letto suonò il campanello della porta.
"Apri tu," gridai, affaccendato a scegliere un golf che stesse bene con i miei occhi.
Sentii un mormorio di voci femminili e mi affrettai ad andare a vedere chi era arrivato. Era Marianna, la mia ex fidanzata, che mi faceva una brutta sorpresa. Solo che lei non sapeva ancora di essere ex.
Mi guardò con occhi pieni di lacrime.
"Sono due settimane che aspetto una tua telefonata. Ti ho lasciato decine di messaggi sulla segreteria. Adesso ti trovo con una donna. Che cosa succede, Francesco? Che cosa ti ho fatto per essere trattata così?"
Mi sentii improvvisamente una merda, e non fu piacevole per nessuno dei tre, ve lo assicuro. Fortunatamente il topo scelse proprio quel momento per uscire dalla camera da letto (si doveva essere goduto tutto lo spettacolo, quel piccolo guardone) e attraversare il corridoio sfiorando i piedi di entrambe le ragazze.
"Francesco!" gridò Valeria.
"Francesco!" gridò Marianna.
Tanto bastò perché mi sentissi nuovamente uomo, e afferrata una scopa mi esibii di fronte alle due terrorizzate fanciulle in una caccia che più maschia non si poteva. Alla fine, vincitore, afferrai il topolino tramortito per la coda sottile e lo feci dondolare davanti ai loro occhi. Loro si guardarono, facendo una smorfia speculare.
"Che crudeltà," disse Marianna.
"Che schifo," disse Valeria.
Mi sforzai di resistere con tutte le mie forze, cercai di pensare a come si comportavano le due stronzette in certi momenti intimi, mi ripetei una te la sei appena scopata, l'altra piangeva per te dieci minuti fa, ma non potei fare a meno di sentirmi un gran coglione. Il guaio era che non ero solo, e le squinzie che assistevano allo spettacolo lo trovarono molto ridicolo.
Ridendo come matte, ma in pieno possesso delle loro facoltà mentali, Valeria e Marianna se ne andarono sottobraccio. Io rimasi solo con il topo che si riprese subito e mi lanciò uno sguardo velenoso prima di infilarsi in cucina. Poco dopo sentii il rumore fastidioso e insolente dei suoi dentini che sgranocchiavano i biscotti nella scatola sulla tavola.
Quando riuscii a riprendermi andai in cucina a preparami qualcosa da mangiare. Le emozioni mi fanno sempre venire fame. Il topo schizzò via senza degnarmi di un'occhiata. Mi sentivo uno straccio, e questo mi rese molto difficile manovrare pentole e fornelli. Comunque, alla fine riuscii a cucinare due uova al burro.
Non avevo sonno, per cui mi misi davanti alla televisione nel tentativo di distrarmi dall'umiliazione. C'era un programma che di solito mi appassionava, una specie di salotto dove un gruppo di persone confessava le sue più riposte e vergognose depravazioni, ma non riuscivo a seguire il cicaleccio. Nessuno mi sembrava più abbietto di me. Un paio di volte mi sciolsi in lacrime, e non fu facile ricompormi. Alla fine andai a letto con un libro, ma dal gran piangere avevo la testa in fiamme e dovetti perdere più di mezz'ora per spegnere l'incendio del cuscino e pulire il pasticcio che avevo combinato. Non volevo addormentarmi subito perché avevo il cuore in gola e rischiavo di soffocare nel sonno. Mi infilai due dita nella strozza per rimetterlo al suo posto, con il risultato che mi venne immediatamente da vomitare. Chino sul water, scosso dai conati, avevo un solo pensiero in testa:
"Non devo vomitare anche l'anima!"
Finalmente mi addormentai e dormii un sonno di piombo. C'è da stupirsi? La mattina dopo avevo tutte le ossa rotte, un sapore schifoso in bocca e un principio di avvelenamento. Strisciando sul pavimento, mi trascinai fino in cucina per bere un po' di latte come antidoto. Quando riuscii a tenermi dritto sui femori rinsaldati e riprendere il controllo di falangine e falangette, cancellai con molta cura i numeri di telefono di Valeria e Marianna dalla mia agenda. Dopo mi sentii più leggero. In effetti, pesandomi sulla bilancia del bagno, vidi che ero calato di quindici chili.
Però in quel lontano giorno di primavera mi sono fatto una promessa che non ho mai più infranto: ricordarmi sempre di lasciare una fidanzata prima di farmene una nuova.


 


sabato 14 aprile 2012

SPECCHI


Posted by Picasa
Rimase di sasso a vedere nello specchio, sopra alla sua camicetta, una faccia che non corrispondeva affatto a quella che si aspettava.
Sua non era di certo, però le ricordava qualcuno. Stette a osservare le palpebre senza ciglia che sbattevano, i canini acuti, i due peli sul mento e la macchia (fiore di senilità, la chiamavano poeticamente i dermatologi) sulla tempia destra.
"Certo", disse ad alta voce allo specchio sporco delle ditate di molti ospiti precedenti, "ti conosco benissimo, sei mia madre."
La faccia le rimandò un sorriso amichevole. Non era la prima volta che Ida vedeva il volto della madre al posto del suo, ma fino a quel momento le era successo solo quando si guardava di sguincio, per caso, magari in una vetrina, o quando proprio non si aspettava di trovarsi davanti una superficie riflettente. Si era preoccupata, aveva chiesto alla sorella e alle amiche se anche a loro accadeva lo stesso fenomeno. Tutte avevano risposto di sì.
Però questa volta era diverso, non si trattava di un'impressione fuggevole, il viso di sua madre era lì e lì rimaneva, qualunque smorfia lei cercasse di fargli fare.
"Ho capito", disse Ida, voltandosi a prendere una spazzola "sono diventata vecchia".
Si spazzolò i capelli all'indietro come li portava la madre, li cotonò un poco come faceva lei per nascondere il fatto che stavano diventando radi. Si sfoltì le sopracciglia con una pinzetta, le sottolineò con la matita nera, passò un po' di ombretto azzurro sulle palpebre.
"Niente rimmel, tanto le ciglia non le ho più", pensò, "e devo comprare un rossetto viola, e della cipria, e un piumino".
Aprì l'armadio per scegliere qualcosa di adatto alla sua faccia, ma nessuno degli abiti che aveva portato andava bene. Nemmeno a casa, d'altra parte, aveva abiti che sua madre avrebbe indossato. Alla fine indossò una gonna grigia e una camicia di seta chiara, gli unici, tra i suoi vestiti, che poteva immaginare addosso alla madre. Poi sedette sulla poltrona a righe gialle e marroni, dietro alle tende arancioni che schermavano completamente la porta finestra. Fuori, sul terrazzino, s'intuiva un tramonto glorioso, di quelli che fanno brillare i vetri e accecano gli automobilisti.
Forse si assopì un pochino, e nel dormiveglia le tornarono in mente certi pomeriggi simili a quello, quando andava a trovare la madre e stava seduta in poltrona davanti a lei, guardando il sole dietro le tende, impaziente che venisse l'ora giusta per dire Ciao mamma, io vado, e uscire nell'aria inquinata e allegra della sera. Mentre la madre le parlava (Hai telefonato a Gianna? Perché non venite domenica dai Rossi! Potresti essere un po' più gentile con tuo fratello! E con Piero, che cosa avete deciso di fare quest'estate? Ti sei ricordata di portare Enrico al controllo dal dentista? Ma perché non ti metti mai le perle che ti ha regalato tua suocera? Ti trovo proprio un po' spettinata, mettiti un po' di rossetto, sei così pallida, Marta non sembra proprio figlia tua con quelle guance rosse!) lei l'osservava, osservava la pelle delle guance troppo morbida, coperta da una peluria  sottile che risaltava in controluce, il collo raggrinzito, i capelli sottili e opachi, le mani magre macchiate di scuro, le palpebre flosce, e il cuore le si stringeva. È vecchia, pensava tra sé, è diventata vecchia. Non è più una donna, è una vecchia.
Adesso è capitato a me, pensò risvegliandosi di colpo. Sono diventata vecchia anch'io. Eppure continuo a sentirmi una donna. Come è possibile? Io pensavo che mia madre si sentisse vecchia anche dentro, pensasse da vecchia, vedesse attraverso occhi da vecchia. Ma io mi sento sempre uguale. Se non ho uno specchio davanti, sono sempre la stessa Ida abituata a sentirsi gli occhi degli uomini addosso, che si vergogna un po' a entrare in un negozio per paura di non essere presa sul serio, che non osa sedersi in autobus perché le sembra di non averne il diritto. Invece, forse chi mi incontra per strada vede in me una vecchia signora degna di rispetto, cui spetta di sicuro un posto a sedere, che non fa perdere tempo ai commessi, anzi, si merita tutti i riguardi. Una sensazione di gelo le scese dalla bocca dello stomaco al ventre. Anche Marta ed Enrico mi vedono così? Mi osservano per contarmi le rughe, pensano È  vecchia mentre io parlo e parlo, provano per me quell'amore fatto di compassione lancinante, noia, rispetto, fastidio, nostalgia per la donna ormai sparita, che io provavo per mia madre?  E Piero?  Pensa Questa non ha niente a che vedere con la donna  che amavo, questa è una vecchia, patetica irriconoscibile estranea, che nessun uomo può più desiderare? 
Nella stanza si era fatto buio. Ida si alzò e guardò l'ora. Erano quasi le otto, presto suo marito sarebbe arrivato per cambiarsi e portarla a cena. Corse in bagno e si pulì il viso, si spazzolò i capelli per riportarli alla solita pettinatura a caschetto, si truccò gli occhi con rimmel e kajal. Per le sopracciglia c'era poco da fare, bisognava aspettare che ricrescessero. Nella luce cruda del neon il suo viso le parve un po' più familiare. Si fece un bel sorriso che stese i contorni del mento, annullò le rughette che segnavano la bocca, ma ne creò altre molto più profonde intorno agli occhi. Si tolse la camicia di seta e indossò una maglietta extralarge di jersey che scivolava lasciando una spalla scoperta, con una collana di pietre colorate a tre giri, comprata su una bancarella da un africano. Poi tolse la collana e se la arrotolò attorno al polso, si mise degli orecchini lunghi, cambiò la gonna grigia con un paio di pantaloni di lino. Ma ogni volta che si guardava nello specchio grande appeso di fronte al letto, era sua madre travestita da figlia che la guardava a sua volta.
"Cazzo, cazzo, cazzo", gridò. Ma era la bocca di sua madre che pronunciava per la prima volta una parola imparata dalla figlia maleducata.
Quando Piero arrivò, Ida era pronta, con una gonna corta di seta a fiori neri e rossi, un top nero scollato e una giacca  rossa.
"Caspita, come ti sei bardata", disse lui, spogliandosi per fare una doccia veloce, "guarda che non andiamo mica in un locale elegante".
Ida aggiunse ancora una catena d'oro al polso e orecchini a cerchio. Se Piero non fosse uscito in fretta dal bagno, avrebbe finito per mettersi tutti i gioielli che aveva portato.
"Sei troppo scollata", disse Piero infilandosi la camicia, "il collega con cui andiamo a cena è un vecchio porco e la moglie una cariatide".
Ida si tolse qualche etto di bigiotteria, e sostituì il top nero con una camicia che le stava altrettanto bene. Sua madre la guardò dallo specchio con approvazione.
In ascensore Piero controllò la rasatura nello specchio a parete. Dallo specchio guardò Ida,  interdetto.
"Che faccia strana che hai. Hai cambiato pettinatura?"
"Ho messo il rossetto", rispose Ida, che non ne aveva mai posseduto uno in vita sua.
"Ah, mi sembrava che ci fosse qualcosa di diverso. Poi dici che non ti guardo mai!", disse lui, baciandola sulla guancia.

mercoledì 11 aprile 2012

Anne Tyler, La bussola di Noè


Anne Tyler è una sicurezza. Incominciare un suo romanzo significa immergersi in un bagno tiepido, con la prospettiva di passare qualche ora piacevole. La storia può essere poco interessante, i personaggi (come spesso succede, anche in questo romanzo) antipatici, ma la lettura sarà comunque gradevole: potenza della sua scrittura avvolgente, accattivante, priva di artifici, tanto trasparente da diventare invisibile, così come l’autrice che si nasconde completamente dietro ai suoi personaggi e alle loro vicende. Qui il protagonista è un uomo, Liam Pennywell, che a sessant’anni, perso il lavoro, si ritrova nella necessità di cambiare casa trasferendosi in un quartiere poco sicuro. La sera del trasloco Liam va a dormire nel suo nuovo appartamento, e si sveglia in ospedale. È stato aggredito, ma ha perso completamente la memoria di quanto è avvenuto. Dalla sua fissazione di ricuperare quelle ore perdute nasce tutta la vicenda che lo vede interagire con le sue tre figlie e la ex moglie e fare conoscenza con una giovane donna, Eunice. Se La bussola di Noè fosse un film potremmo dire che la sceneggiatura ha un po’ di buchi e si perde per strada. Visto che è un romanzo, mi limito a dire che non bisogna chiedere troppo a un’autrice così affabile. In fondo la storia di Liam ci acchiappa comunque, anche se si può dire che succede solo un’altra cosa prima della conclusione. Condividiamo le sue giornate prive di eventi, in cui l’arrivo della figlia adolescente Kitty porta un certo scompiglio, mentre l’amicizia con Eunice sembra una ventata d’aria nuova. In altri tempi, Liam sarebbe stato definito un inetto. Qui, secondo l’antipatico uso inglese diventato ora di moda, viene chiamato perdente. Il grande mistero della letteratura e di un bravo autore (e sicuramente Anne Tyler lo è) consiste proprio in questo: Liam Pennywell, se fosse il nostro vicino di casa, non ci farebbe simpatia né compassione e probabilmente non perderemmo tempo a fare due parole con lui neanche in ascensore. Nelle pagine di un libro, seguiamo i suoi passi con interesse e con il desiderio di sapere dove va, perché ci va, che cosa troverà, come si sentirà, dandogli per il tempo della lettura la precedenza sui nostri casi personali. Traduzione impeccabile di Laura Pignatti.

martedì 10 aprile 2012

R. Raj Rao, The boyfriend - Il mio ragazzo


Un romanzo molto divertente, molto curioso, molto interessante e anche molto ben scritto. Ci racconta un’India che probabilmente non molti occidentali conoscono. Siamo a Bombay quando ancora si chiamava così, nei primi anni ’90 del secolo scorso. Yudi, giornalista free-lance poco più che quarantenne, di casta bramina, orfano di padre, vive solo benché sua madre sia ancora viva: e questo suscita stupore nella società indiana familistica e bigotta. Ma Yudi vuole vivere come piace a lui, e portarsi a casa i ragazzi che incontra soprattutto nei gabinetti delle stazioni ferroviarie per un po’ di sesso senza strascichi. E una volta incontra Milind, diciannovenne fuori casta che diviene ben presto il suo ragazzo, il suo amore. Tutto li separa: l’età, la posizione sociale, la cultura, il denaro, il desiderio di Yudi e l’ambiguità di Milind. Ciononostante la relazione funziona, i due vanno anche a fare un viaggetto fino a Sravanabelagola, famoso centro di pellegrinaggio jainista in Karnataka (ma le motivazioni che li spingono non sono purissime…). Io non vi racconto altri fatti, se volete un riassunto dettagliato leggete l’edizione Penguin che ha una quarta di copertina che fa venire voglia di sparare a chi l’ha scritta. Certo The boyfriend non è un giallo, ma ha senso bruciare tutti, ma dico tutti gli snodi narrativi senza pietà? E io che mi danno per scrivere recensioni che dicano qualcosa senza rivelare niente del plot? Mah. Misteri dell’editoria inglese. Comunque nella vicenda c’è posto per l’amore, il dolore, le contraddizioni sociali, le convenzioni e le tradizioni (la cacofonia è voluta), con un’apertura ottimista e vagamente cinica nel finale. R. Raj Rao è scrittore molto smaliziato, ma qui, a differenza dei racconti, non si lascia andare a sperimentazioni o vezzi di stile. Racconta in maniera diretta, priva di sentimentalismi, con molto humour in controluce, sa essere crudo senza mai superare il limite del compiacimento, diverte e fa pensare parecchio. In tutto ciò c’è un personaggio femminile, Gauri, che è il più stupido, da un punto di vista narrativo, che abbia mai incontrato. Una specie di grottesca caricatura di donna, talmente esagerata e scervellata che in certi punti viene da chiedersi se R. Raj Rao abbia mai rivolto la parola a una donna reale in vita sua. Però, però… siccome, l’ho già detto, è uno scrittore molto smaliziato, probabilmente sapeva benissimo quello che stava facendo. Ho pensato all’effetto che devono avere sui lettori maschi le schiere di uomini grezzi, insensibili, traditori, gnocchi, noiosi, che popolano i romanzi scritti da donne: forse lo stesso che a me fa la povera Gauri.
Un romanzo consigliato a tutti, di argomento agrodolce e di lettura veloce e spigliata, molto interessante per chi conosce l’India e sicuramente fuori dai cliché dei romanzi scritti in inglese per conquistare il pubblico anglofono con folklore e luoghi comuni sui “colori e profumi” d’India.
Il mio ragazzo di R. Raj Rao è pubblicato da Metropoli d’Asia con traduzione dall’inglese di Sara Fruer, glossario a cura di Sara Bianchi.