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giovedì 21 febbraio 2013

L'albania delle donne, l'Albania delle madri: Anilda Ibrahimi, Non c'è dolcezza.



Continuando la marcia di avvicinamento all’Albania, ho letto Non c’è dolcezza di Anilda Ibrahimi, di cui mi era piaciuto molto il fresco Rosso come una sposa e molto, molto meno L’amore e gli stracci del tempo. Neanche Non c’è dolcezza mi ha convinta granché. C’è una storia anche troppo melodrammatica ma poco chiara, in certi punti tirata via in scene troppo sintetiche e superficiali. Forse una vicenda simile, che sbocca in tragedia per poi tornare sui propri passi, avrebbe bisogno di un passo antico, un tono da romanzo ottocentesco, e anche di una costruzione psicologica più solida. Così com’è non acchiappa, non emoziona malgrado sia del genere che sulle emozioni fa continuamente leva, tra maternità e allattamenti, segreti letteralmente sepolti e segreti svelati. Anilda Ibrahimi scrive molto bene, è capace di raccontare benissimo un mondo a metà tra arcaismi e modernità, ma sembra sempre sul limite, come se non volesse essere troppo legata a quella Albania semplice e contadina cui le sue storie riportano. Inoltre penso che non giovi la scelta della narrazione al presente, che diluisce l’aspetto narrativo in una serie di scene staccate e toglie peso e profondità all’aspetto accattivante dell’ambientazione lontana nel tempo e nello spazio. In un villaggio in riva al mare che possiamo immaginare dalla parti della sua natia Valona, due ragazze, Lila di famiglia benestante e Eleni figlia di un pastore, stringono un’amicizia strettissima sulla base dell’amore condiviso per Andrea, un ragazzo bellissimo che non le guarda neppure. Crescendo la vita le divide, Lila sposa il fratello di Andrea e vive nella capitale, Eleni rimane al villaggio aspettando chissà che. Quando il suo destino si presenta, è molto più crudele di quello che potrebbe sembrare, e ritorna a intrecciarsi indissolubilmente con quello di Lila. Protagonista è il bambino Arlind, la cui nascita è un insormontabile ostacolo tra le due amiche. E qui mi fermo perché il plot è articolato e rivelare gli snodi narrativi sarebbe una cattiveria. Intanto intorno il mondo cambia, il regime comunista che ha retto l’Albania dal 1946 al 1990 crolla portando con sé le vite di molti, niente rimane uguale a come lo conoscevano i personaggi del romanzo, e questa è la parte più affascinante su cui mi sarebbe piaciuto che Anilda Ibrahimi si soffermasse di più. Però forse non può lasciarsi andare ai ricordi, alla nostalgie dell’infanzia, per lo stigma obbligatorio che ogni regime comunista ormai si porta con sé. Mi ha molto interessato il rapporto tra i contadini e i gitani, di grande simpatia e affinità, anche una certa ammirazione da parte degli abitanti del villaggio per i quali l’arrivo annuale dei gitani era una grande festa. Questa armonia crolla dopo il 1990 come altre sicurezze, e i gitani ne subiscono amarissime conseguenze.
Un romanzo che mi ha lasciata un po’ insoddisfatta, ma che sicuramente piacerà a chi cerca una narrazione moderatamente esotica, molto di pancia, molto di donne, molto leggibile, di superficie, veloce, leggera malgrado la drammaticità delle vicende. Magari sono io che non l’ho saputa apprezzare.      

giovedì 12 marzo 2009

AA. VV. M'AMA? Il Poligrafo, 2009

Sottotitolo Mamme, madri, matrigne oppure no. Una gran bella lettura. Ho già confessato la mia insana passione per le antologie che mi porta sovente a comprare e successivamente leggere delle grandissime lamate, inutili, appiccicate con lo sputo a argomenti senza senso, eppure continuo imperterrita perché una bella antologia mi fa felice. E questa è bella, con un livello ottimo, composta da racconti tutti necessari e interessanti oltre che ben scritti e sovente anche originali. Già, perché questo argomento abbastanza scivoloso ha suggerito alle venti autrici altrettanti racconti che sfuggono ai soliti cliché sulla maternità e il rapporto madre-figlia o madre-figli. Nel paese delle mamme non tutto è idillio. E c'è anche chi con coraggio veramente eroico, qui appunto nel paese delle mamme, afferma che non è necessario né indispensabile scegliere di essere madre. I nomi raccolti in questo volume sono davvero importanti, e senza volere fare torti a nessuna citerò Antonella Cilento (anche curatrice insieme a Saveria Chermotti e Annalisa Bruni), Anna Maria Carpi, Rossella Milone, Antonella del Giudice, Antonia Arslan, Emilia Bersabea Cirillo, Francesca Mazzucato, Marosia Castaldi, Lia Levi. Molto sovente in queste storie ci sono intrecci di vite, personaggi molto differenti, come se fosse difficile focalizzare su un solo personaggio un argomento così complesso e universale. Voglio ricordare l'originale e incisivo Bestiario familiare di Antonella Ossorio, dove la ricostruzione del momento della propria nascita attraverso il racconto della levatrice si trasforma nella "bestializzazione" della madre stessa, A casa di Elisabetta Baldisserotto dove i doveri della casalinga, espletati con meticolosa cura, sono contrappuntati da letture di brani filosofici e fantasie di come sarebbe la vita se gli amati familiari morissero, l'inquietante Lo scaffale di Giacomo in cui Anna Toscano attribuisce a una famiglia iperdisfunzionale la scelta estrema di una madre (e non so se abbia scritto prima lei il racconto o si sia ispirata a un analogo episodio avvenuto a Moncalieri qualche anno fa, che ricordo mi aveva colpita moltissimo, come credo abbia colpito tutti quelli che ne sono venuti a conoscenza), l'agretto come il suo titolo Il racconto dei limoni di Antonia Arslan, breve ricordo di una cattiveria infantile nei riguardi della propria bella mamma, il bellissimo Stabat Mater di Emilia Bersabea Cirillo che dà voce con eccezionale efficacia a un personaggio tragico che di solito non arriviamo a conoscere, la madre dell'assassino, Madre nostra che sei nei cieli di Saveria Chemotti in cui ci vuole tutta una vita per digerire un segreto troppo pesante, e riconciliarsi con il passato, il doloroso cammino dell'adozione in Il paese dei bambini di tutti di Elisabetta Liguori, lo sconvolgente, e non riesco a definirlo altrimenti, Una storia da non raccontare di Morena Tartari, che insieme a Cirillo e Toscano va a cercare dietro ai fatti di cronaca la realtà crudele di chi quei fatti li subisce pur non essendo la vittima. Diciamo che le madri non ne escono bene da questo libro se a parlarne sono le figlie. Inadeguate, fredde, anaffettive, egoiste, lontane. Va meglio se parlano in prima persona, ovviamente. Però l'impressione generale è che tra figlia e madre ci sono tanti rancori da tirare fuori, e certe storie hanno l'aria di essere delle rese dei conti abbastanza spietate. Mi sono domandata che cosa avrei potuto mandare io se mi avessero chiesto un contributo. La risposta più immediata è Regina, il racconto uscito sull'ultimo Fata Morgana (che ha per sottotitolo Porte, Passaggi, Varchi, Barriere) dove una figlia–rapace uccide la madre a colpi di becco, oppure un vecchio racconto intitolato Una storia di fantasmi in cui tre figlie uccidono la madre e trascorrono il resto della vita ossessionate dai fantasmi del senso di colpa, o La sposa innamorata, dove una donna partorisce pesci e il marito se li mangia fritti, o Resurgam, in cui è la Dea Madre a risorgere per rimettere a posto i disastri creati dal Dio Padre, e per ricreare, deve prima distruggere... Insomma anch'io ho fantasie poco rassicuranti a proposito della maternità. Però devo dire che ho anche scritto un racconto, Il gioco della masca, in cui una figlia evira il padre e ne viene uccisa. Eppure, giuro, avevo ottimo rapporti con i mei genitori.
Per concludere due osservazioni. Primo, sedici racconti su venti sono in prima persona, qualcosa vorrà dire. Secondo, questo libro dovrebbe essere letto anche dai maschi, e non per motivi didattici o contenutistici, ma solo perché è un bel libro. Però, come ho sentito dire in pubblico da un uomo colto, intelligente, curioso e scrivente mentre presentava il libro di una donna, gli uomini non leggono mai i libri scritti dalle donne. Il motivo mi sfugge e preferisco non indagare. Peccato per loro, però.