martedì 30 giugno 2020

L'Odissea dal punto di vista femminile: Calipso e le altre, un racconto vecchissimo (e si vede)





                              ------------------------------------------------------------------DCALIPSO E LE ALTRE

Il sole era alto sull'isola quando Calipso si svegliò e andò a lavarsi alla sorgente che sgorgava vicino al suo antro. L’aria era già calda, ma la brezza faceva stormire le fronde degli alberi e agitava le foglie e i grappoli verdi della vite che cresceva sulla pergola all'entrata. La ninfa si im­merse nelle acque fredde e rabbrividì. Dopo il bagno sedet­te di fronte al mare che si intravedeva tra i rami dei pi­ni, piatto e scintillante, per mangiare i semplici cibi a cui era abituata, dal momento che non c'erano fumi di sacrifici né ambrosia nella sua vita solitaria: ancora una volta du­rante la notte era stata tormentata dai sogni, che le avevano riportato i giorni felici in cui non era sola.
Da anni ormai i sogni la tormentavano: ma il tormento nasceva al risveglio, quando questi rivelavano la loro natura ingannevole. Di notte Calipso era felice, e non avrebbe mai voluto svegliarsi. Tutto era come lei avrebbe sempre desiderato, Ulisse era con lei, l'amava, le chiedeva per pietà di essere tenuto sull'isola, le giurava che l'amava, che l'avrebbe amata sempre, solo lei. Ma la mattina tutto tornava come sempre: l'isola era vuota, il sole scintillava sulla superfi­cie del mare privo di vele, la voce della sorgente era l'uni­ca a spezzare il silenzio, e le ore erano lente a passare, lente come pietre che affondano in uno stagno melmoso, fin­ché la sera portava tramonti di fiamma e d'oro liquido sulle onde piatte dell'insenatura tra gli scogli, da dove tanti an­ni prima era partita la zattera che portava via l'uomo che aveva rifiutato l'immortalità. Le bruciavano ancora le guan­ce dalla vergogna a quel pensiero. Pur di andarsene, pur di ritornare dalla sua sposa, Ulisse aveva rifiutato di diventa­re simile a un dio. Aveva passato anni con lei, mangiando il cibo cucinato dalle sue mani, dividendo con piacere il suo letto - al ricordo di quelle notti sentiva ancora un brivi­do - tuttavia di giorno ipocritamente piangeva la sposa e la patria lontana e chiedeva incessantemente di poter parti­re, come se lei fosse stata la sua carceriera e lui un povero prigioniero maltrattato. Ma la sera scordava tutto, Penelope e Itaca, il mare che lo chiamava e la nostalgia del ritorno, e si ricordava solo di lei, la cercava e l'amava... Così so­no gli uomini, mortali o dei, sempre pronti a buttar via quello che hanno per partire alla ricerca dei loro fantasmi.
    Eppure con Penelope era stato sì e no un anno, e con lei in­vece aveva trascorso sette lunghi anni di vita quotidiana, di amore notturno, di giorni condivisi nei boschi e sulle spiag­ge dell'isola. E in tutti quegli anni lui non l'aveva mai a­mata, l'aveva sopportata solo perché era una dea e non avrebbe mai potuto sottrarsi ai suoi voleri; e quelle lacrime quotidiane l'avevano offesa più di qualunque torto avesse mai ricevuto... Ma questi erano pensieri da scacciare. Era meglio pensare a ciò che aveva sognato, ai baci sinceri di Ulisse nel sogno, ai suoi giuramenti, alla sua tenerezza. Nei sogni era la verità, non nei ricordi amari e dolorosi. Eppu­re, allora era stata felice perché intanto lui era lì, a riempire la sua vita; e lei non aveva mai amato così né prima né dopo.
Nell'antro che era la sua casa, dove stava il suo telaio, Calipso teneva un bacile pieno d'acqua in cui nelle ore calde scrutava le immagini di chi le stava a cuore. Lì aveva visto le vicende del ritorno di Ulisse, e non le era sfuggito che, malgrado l'ansia che aveva di tornare dalla sua sposa, era riuscito a trascorrere un periodo molto piacevole in com­pagnia di una giovane principessa di nome Nausica. Le venne la curiosità di vedere quale fosse ora la sorte delle donne che erano state sue rivali nel cuore di Ulisse, quelle di cui lui le aveva parlato o di cui aveva appreso l'esistenza at­traverso il bacile magico: Penelope, Nausica, Circe.
La preparazione dell'incantesimo era lunga e solo al tramonto fu pronta a interrogare le acque. Quale vedrò per prima? si chiese. Scelse l'altra immortale che aveva amato Ulisse, quella che forse non lo aveva rimpianto quando era partito per sempre. Quando l'acqua torbida del bacile si schiarì, Circe le apparve vestita di porpora, seduta a ban­chetto con una compagnia di marinai sfrontati, che la circon­davano senza timore né timidezza: lei versava personalmente il vino nelle coppe, prodiga di sorrisi e generosa nel far intravedere la propria bellezza attraverso il peplo, senza veli sul viso; e il banchetto si protraeva nella notte. Era chiaro che Circe sapeva quello che voleva. Sorrideva sull'or­lo della sua coppa a un giovanissimo marinaio dagli occhi azzurri, e a un certo punto si allontanò con lui dalla sa­la, mentre gli altri travolti dall'ubriachezza si lasciavano andare sul pavimento vomitando senza ritegno o russando a bocca spalancata.
"Ulisse" le sussurrò una voce senza corpo, provenendo dall'aria intorno a lei come un presagio.
"Ulisse?" disse Circe, aggrottando le sopracciglia. "Come mai mi è venuto in mente questo nome? Non l'ho mai sentito pri­ma."
Sostenendo il marinaio che barcollava lo trascinò ver­so una stanza interna, dove i due crollarono sul letto ab­bracciati, lui dimentico dei compagni, lei dell'altro mari­naio che aveva allietato le sue notti tanti anni prima.
"Benedetta la memoria corta di Circe" disse Calipso, e ripeté le formule magiche sul bacile per continuare nell'indiscreta indagine, spinta dal suo cuore geloso e no­stalgico. Questa volta apparve la stanza di un gineceo di Scheria, il paese dei Feaci. Com'era diversa la donna che l’abitava da quella che aveva spiata durante il viaggio di ri­torno di Ulisse! Nausica era ormai una matrona ispessita dal­le molte maternità, autorevole nella sua maturità, resa fredda dall'impatto con la realtà della vita. Giaceva ancora sveglia nel letto, perché il marito era a un banchetto con altri uomini e chissà quando sarebbe tornato.
"Quindici co­perte filate e tessute di mia mano" pensava Nausica, "sette pepli ricamati e venticinque tuniche semplici per mio marito... Non è male come lavoro di un anno. I miei figli maschi crescono tutti sani e abili nell'amministrare le no­stre ricchezze, dacché gli dei ci favoriscono e Scheria è sempre più prospera. Pensare che quand'ero giovane abbiamo rischiato di perdere tutto sfidando la volontà degli dei per aiutare uno straniero naufragato qui per caso, come si chia­mava? Non lo ricordo più. Com'è sciocca la gioventù, per un attimo ho pensato di amarlo povero e nudo com'era, e persino che avrebbe potuto fermarsi qui con me." Rise tra sé nel dormi­veglia. "Se le mie figlie si dimostrassero così stupide da innamorarsi di un ospite perseguitato dagli dei e bisognoso di una tunica per coprirsi, le legherei al letto per impedire loro di fare stupidaggini. Davvero i giovani sono sventati e inesperti! Per fortuna i Feaci hanno perso l'abi­tudine imprudente di dare ospitalità e aiuto a tutti gli stranieri che arrivano alle loro spiagge."
Nausica chiuse gli occhi soddisfatta della sua giornata, si coprì le membra ab­bondanti con una coperta tessuta con le sue mani, e sprofon­dò in un sonno sereno.
Calipso rabbrividì nel suo antro umido e si chiese se qualcuno, oltre a lei, conservasse ancora il ricordo di Ulis­se com'era un tempo, bello e forte.
"Sua moglie sicuramente, almeno lei" pensò "sarà felice di essere amata da una tale eroe, un uomo che molti hanno scambiato per un dio. O sono io l'unica vittima del suo fascino? Non è possibile. Circe e Nausica lo hanno cancellato perché non hanno avuto scelta, come me: e hanno potuto sostituire con un marito o molti a­manti il ricordo di quell'uomo unico, ecco perché hanno di­menticato. Ma Penelope, nella sua posizione privilegiata di sposa, non può che essere felice."
Ancora una volta il bacile docilmente le mostrò quello che succedeva a Itaca.
Neanche Penelope dormiva, ma si rivoltava in preda all'inquietudine. Era ormai vecchia, e priva di quella bel­lezza che aveva attirato per tanto tempo nella reggia di U­lisse i pretendenti pronti a sostituirlo nel suo letto oltre che sul trono. E ora si rivoltava tra le coperte al fianco del suo anziano sposo che Calipso ancora sognava, e che aveva i capelli grigi e pochi denti in bocca.
"Certo la mia vec­chiaia è onorata" pensava Penelope "ma quanti anni ho perso! Quando in me il sangue scorreva ancora veloce, quando il mio corpo aveva ancora bisogno dell'uomo nella sua potenza viri­le, io dovevo tutte le notti ritirarmi sola nel mio letto de­serto e pensare a Ulisse, per consolarmi della mia solitudi­ne... Ma lui? Lui faceva l'amore con chi gli capitava, dea o mortale, e non soffriva della lontananza dalla sposa e dalla casa se non nel ricordo... E infatti che cosa è stato il suo ritorno? Tre o quattro notti d'amore, e poi il mio posto è stato preso da una schiava giovane e fresca, ed è norma­le... Avevo già compiuto il mio dovere di generare un figlio maschio, perché avrebbe dovuto avere ancora il desiderio di me? Ora sono avvizzita, e anche quando lui è tornato a ca­sa avevo già molti capelli bianchi, anche se le mie carni erano ancora sode mi mancava l'attrattiva della giovinezza per attirare il mio sposo, costante se pur non fedele. Sette anni è vissuto con quella ninfa... E se io, invece di un ma­schio, gli avessi generato una figlia? Sarebbe mai tornato da me? Chissà che destino diverso il mio se a­vessi accettato la corte di qualcuno dei miei pretendenti... Non tutti miravano solo al trono di Ulisse. Ad esempio, Euri­maco mi sembrava animato da una vera tenerezza nei miei con­fronti... Chissà, con un cuore meno rigido e attaccato al ricordo, forse la mia giovinezza infelice sarebbe stata meno sterile? Quanti figli avrei potuto generare se non fossi sta­ta fedele al marito che, nel frattempo, ha sparso il suo seme tra dee e mortali senza risparmio né rispetto per me, che intanto nella sua casa conservavo la sua stirpe e i suoi a­veri senza averne altra ricompensa che una vecchiaia serena e noiosa... Eppure, ho avuto i miei pretendenti!"
L’anziana Penelope si agitava tra le lenzuola con l'inquietudine di chi non è soddisfatto della vita che gli è toccata in sor­te, e Calipso soffiò rabbiosamente sull'acqua per cancellare l'immagine. Non aveva riconosciuto Ulisse nel vecchio steso sul letto, o forse non l'aveva nemmeno guardato.
"Ingrate!" esclamò la dea. "Donne viziate, stupide, in­coscienti della felicità che vi è toccata! Una è stata a­mata come un sogno impossibile e adesso rinnega quell'amore, un'altra ha potuto dimenticarlo perché anche se dea è una gran sgualdrina, un'altra infine lo ha riavuto definitivamen­te vicino a sé e non è nemmeno riconoscente per la sua for­tuna! E io allora chi sono? A che cosa mi serve essere una dea, se nell'amore valgo meno di chiunque altra, se per libe­rarsi di me l'unico che ha colpito il mio cuore non ha badato né a quello che perdeva, né ai pericoli cui andava incon­tro? Solo io l'ho amato, e come avviene tra gli uomini, solo me lui non ha mai amato. Solo io ne coltivo il ricordo e con­tinuo a venerarlo come il migliore tra gli uomini, solo io penso che non ci sia nulla di più dolce che averlo a fianco giorno e notte. Vuol dire che sono la più stupida tra tutti gli esseri di sesso femminile? La più fedele, o la più te­starda? O forse, l'unica che non ha avuto niente altro a cui pensare in tutti questi anni? Zeus, non dovresti permettere simili ingiustizie!"
Rovesciò il bacile pieno d'acqua con rabbia, preparò un po' di cibo, formaggio e uva, e si se­dette a mangiare. Era ormai l'alba e i gabbiani volando le facevano compagnia con grande stridore, ma né uomo né dio si accostava alla sua isola verde. E dopo il pasto Calipso spezzò il bacile perché non le venisse mai più la tenta­zione di spiare la vita che si svolgeva nelle terre lontane dove gli uomini si affaccendano; e nell'isola solitaria ri­prese la sua vita immortale, sempre attendendo e temendo l'arrivo di un naufrago bisognoso delle sue cure.








giovedì 25 giugno 2020

Visita guidata a Bolzaretto Superiore: A' chacun ses madeleines, racconto


                 
                           A CHACUN SES MADELEINES

    Proprio dietro al Mattatoio Comunale, dove comincia la campagna coltivata a meliga e
grano, a Bolzaretto Superiore c'era un grande spiazzo polveroso, dove in altri tempi si faceva la fiera del bestiame e approdava ogni tanto un carro di Tespi o un circo, di quelli con solo due leoni e qualche cavallo oltre ai giocolieri e agli acrobati. D'estate vi si teneva la fiera del santo patrono di Bolzaretto, San Rocco, a cui era dedicata una chiesetta sulla piazza davanti al castello. Ora lo spiazzo è tagliato a metà dalla circonvallazione su cui sfrecciano le macchine di chi se ne infischia di Bolzaretto e vuole soltanto allontanarsene per arrivare in fretta a Torino o all'autostrada che passa a qualche chilometro di distanza, ma un tempo ci si arrivava solo da una viuzza che partiva dalla piazza della Parrocchia; ed era bello sbucare dal buio nella luce polverosa delle bancarelle e delle giostre. Sul fondo una fila di pioppi stormiva in continuazione disturbando le rappresentazioni teatrali e facendo immaginare immensi spazi di campagna buia al di là, dove i bambini ogni tanto, smettendo di leccare gelati e tirare palle ai pesci, si buttavano ad acchiappare le lucciole.
    Quando arrivava il circo o una compagnia di attori girovaghi, chiunque avesse i soldi per il biglietto cenava presto e poi usciva munito di tutto quello che gli poteva servire per la serata: abiti caldi e scialli da mettere sulle gambe se era inverno, cuscini per le panche dure, cartocci di castagne abbrustolite o bollite da mangiare negli intervalli. I bambini andavano tutti, anche quelli piccoli che non pagavano perché stavano seduti sulle ginocchia della madre e poi nel bel mezzo di una scena drammatica o quando i tamburi rullavano prima del triplo salto mortale si mettevano a piangere urlando a gran voce che volevano andare a casa. Dopo lo spettacolo, le famiglie si fermavano fuori dal tendone per commentare quello che avevano visto, e s'intrecciavano dialoghi fitti di gomitate e "Ti', e quando..." o "Hanno lavorato proprio bene"; poi tutti rientravano, camminando svelti se era inverno, o perdendo tempo se era estate. I fidanzati si baciavano dietro ai cantoni, e gli altri giovani si davano gran spintoni ridendo forte.
    La festa patronale, poi, era il clou dell'estate, ne segnava il punto più alto e insieme avvertiva che stava per finire, la cartiera riapriva pochi giorni dopo e gli studenti dovevano decidersi a cominciare i compiti delle vacanze. Le giostre si fermavano per tre giorni, e per tre giorni lo spiazzo era tutto un roteare di gabbie e uno sventolio di altalene, e il terzo giorno c'era una gran processione per tutto il paese con la statua d'argento di San Rocco in testa, le bambine dell'oratorio vestite da angeli che lanciavano petali di rosa dai panierini, le Figlie di Maria vestite di bianco con il nastro azzurro sul petto, un gran recitare rosari e cantare inni nel caldo soffocante del pomeriggio. Le strade erano tutte pulite e dalle finestre e dai balconi pendevano copriletti di seta e damasco rosso, tovaglie di pizzo, e anche qualche stendardo con l'immagine del santo o della Madonna; fin dalla sera prima le edicole agli  angoli delle strade erano state ornate con mazzi di fiori e piante in vaso, e tutto il paese brillava di lumini  e file di lampadine colorate. Poi, la sera, certi anni si facevano anche i fuochi d'artificio; non sempre, perché il comune di Bolzaretto a quei tempi non era molto incline agli sprechi. La mattina dopo, lo spiazzo dietro al Mattatoio si riempiva di ragazzi che stavano lì a osservare in silenzio i giostrai e i bancarellari che smontavano i loro esercizi tra la polvere e lo stormire dei pioppi, e tutto ritornava alla norma.
    A tutto questo pensava Giacomo Rebaudengo, una mattina di agosto, mentre, sdraiato accanto alla moglie su di una spiaggia sarda, lottava inutilmente contro il vento per tenere aperto il giornale. Il mare era chiarissimo ma increspato, l'acqua fredda, e niente poteva essere più lontano del caldo senza requie di Bolzaretto in estate.
    "In questi giorni" disse rivolto a Flavia, la moglie, che se ne stava immobile a occhi chiusi, ma ben attenta a non strizzarli per non farsi venire le tremende rughette bianche che deturpano l'abbronzatura più accurata "a Bolzaretto Superiore si celebra la festa patronale di San Rocco."
    Flavia si voltò sulla pancia e gli rispose dal cerchio delle braccia su cui aveva   appoggiato la testa.    
    "Bolzaretto? E dov'è?"
    "Sai, il paese di mia nonna Maria, dove passavo sempre il mese d'agosto quando ero bambino. Era una bellissima festa."
    "Il paese delle mosche?"
  Lei era di origine romana, da bambina aveva sempre trascorso le
vacanze estive all'Argentario, e ne derivava una cosciente fierezza.
    "Il paese delle mosche, della meliga, e delle merde di vacca" rispose Giacomo con voce nostalgica "meglio definite come buse o druggia. Quando torniamo a casa ti porto una domenica a vederlo. Non ti piacerà, ma fa lo stesso, io ho voglia di andarci. Non ci torno da quasi trent'anni, da quando è morta la nonna e la sua casa è stata venduta."
    A settembre il rientro in città fu piacevole perché l'estate continuava con un tempo bellissimo e caldo, e anche il lavoro sembrava risentire ancora dei ritmi lenti dell'estate. I figli di Giacomo, ormai grandi, non avevano ancora ripreso gli studi ed erano in giro, ospiti di amici al mare o in montagna; Flavia era riposata e di buon umore perché la sua abbronzatura era un vero successo e si manteneva abbastanza bene. Così una domenica di sole radioso non fu difficile per Giacomo convincerla a fare una gita a Bolzaretto.
    "Ci sono certe trattorie sul Po" le disse per allettarla "dove fanno il pesce fritto o in carpione, mi commuovo solo a pensarci."
    Lei storse il naso all'idea di quel pesce pescato nel Po puzzolente e inquinato, poi si consolò pensando che era sicuramente surgelato.
    Giunsero a Bolzaretto a metà pomeriggio, quando il sole ancora alto illuminava la campagna creando ombre invitanti sotto i tigli che bordavano la strada e nei pioppeti ordinati che si alternavano ai campi.
    "E perché mai si chiama Bolzaretto Superiore?" chiese Flavia con tono polemico. "Non vedo che cosa ci possa essere di inferiore, qui è tutto piatto come un tavolo."    
    Giacomo rimase zitto, perché questa era una domanda che si era posto anche lui e non aveva mai trovato una risposta. In effetti la campagna era perfettamente piatta, le uniche cose emergenti erano gli alberi e qualche campanile; però all'orizzonte le Alpi si stendevano in un abbraccio maestoso, e il Monviso aveva una fisionomia del tutto diversa da quella che presentava a Torino. I campi di meliga quasi matura frusciavano come i pioppi, ma il rumore del motore non permetteva di sentirli.   
    Posteggiarono la macchina in un grande spiazzo asfaltato vicino al cimitero, e proseguirono a piedi sulla strada che si addentrava nel paese, tra motorini e motociclette e macchine; non c'era nessun altro che andasse a piedi. Faceva caldo e Flavia si sentiva sudata nella sua camicetta di seta. La piazza davanti alla parrocchia era intasata di macchine e due caffè avevano dei tavolini all'aperto, circondati da piante di ligustro e lauroceraso in grandi vasi di cemento, che non nascondevano la vista della gente seduta ai tavoli. Un gruppo di ragazzi a cavalcioni di grosse moto teneva i motori su di giri e chiacchierava a voce alta per superare il rumore.
    "Il Bar Evaristo!" disse Giacomo con entusiasmo, dirigendosi verso uno dei due recinti di piante. "Quando ero piccolo venivo sempre a prendere il gelato qui, la sera. Be', una sera ogni tanto." aggiunse, per amore di verità.  
    C'era un tavolino libero e sedettero, ordinando due bicchieri di tè freddo. Giacomo si guardava intorno, speranzoso di trovare una faccia nota, ma gli altri avventori erano per lo più giovanotti dai capelli pieni di gel e signorine infilate in vestitini di stretch viola o nero, squittenti davanti alle loro coppe di gelato decorate di ombrellini di carta.
    "Era molto diverso ai miei tempi" disse Giacomo sottovoce.
    "In effetti, di merde di vacca se ne vedono più poche" rispose Flavia bonariamente, assaggiando con precauzione il suo tè che era troppo zuccherato.
    In quel momento da una porticina della canonica accanto alla chiesa parrocchiale uscì un vecchio prete vestito con la tonaca nera, che attraversò la piazza a passo lesto per infilarsi sotto i portici della via principale.
    "Don Ferruccio!" esclamò Giacomo eccitato. "E' ancora vivo, pensa un po'! Quante sberle mi ha dato da bambino!"
    Flavia voltò il capo per guardare, ma non fece in tempo: don Ferruccio era già scomparso nell'ombra afosa dei portici.
    Tra i gas di scarico delle motociclette e il rumore dei motorini che caracollavano nella piazza, la sosta non era molto divertente, e così i due si alzarono e andarono a fare un giro per il paese. Giacomo, perso nei suoi ricordi, si abbandonava a rievocazioni di persone che a Flavia non dicevano niente; le vie erano calde e polverose, e fuori della piazza principale non si vedeva anima viva.
    "Ecco" disse Giacomo indicando il portale di pietra di una casa a due piani in una via laterale. "Qui abitava il farmacista, il dottor Veniero Callieri, quel genere di vecchio gentiluomo erudito e un po' strambo di cui una volta la provincia abbondava. Si diceva persino che fosse il padre naturale dello scemo del paese, ma io non ci ho mai creduto. Qui, in questo cortile, ci stava Tomalino, il mio migliore amico, figlio di un impagliatore di sedie e nipote del sacrista, chissà che fine avrà fatto?"
    Scrutò speranzoso i nomi sui citofoni a fianco del cancello di ferro grigio che chiudeva il cortile; ma erano tutti nomi sconosciuti e per di più suonavano un poco esotici per Bolzaretto: Vocaturo Vincenzo, Gerace Antonino... Giacomo scosse le spalle e afferrata Flavia per un braccio, la trascinò svoltando e risvoltando in corte strade fiancheggiate da casette nuove di due o tre piani, con facciate coperte di listelli di granito grigio o piastrelle marroni. Ogni tanto si intravvedeva qualche giardinetto fiorito di rose tardive e di dalie.
    "E pensare che qui c'erano solo casette di campagna, ognuna col suo giardino davanti, o col cortile interno, e in ognuna c'erano galline e conigli e un po' d'orto, dei pomodori che non ti dico... non sono mai più riuscito a mangiare dei pomodori cosi`."
    Flavia aveva caldo ed era annoiata, e pensava che anche quelle erano casette di campagna, in ogni caso.
    "Non penso che fosse molto igienico tenere i polli in paese" disse "puzzano così tanto."
    "C'era persino chi teneva delle mucche" disse Giacomo con tono bellicoso, "e nessuno si è mai lamentato."
    Improvvisamente sbucarono sulla tangenziale e furono di nuovo nel rumore delle moto sgommanti e delle macchine. Dalla parte opposta della strada c'erano villette unifamiliari con giardinetti fioriti di canne e aceri giapponesi, alcune costruite in cima a collinette di riporto ornate di rocce. Più in là, si vedevano due grosse costruzioni dalle facciate tutte vetri, sormontate da insegne mastodontiche: "Mobilificio Bauchiero" diceva l'una, "Casa del Lampadario" l'altra.
    Giacomo rimase fermo sull'angolo per qualche istante, poi si volse verso destra con aria determinata, tenendosi sul bordo erboso del fosso per non essere investito dalle macchine che passavano a forte velocità, e guardandosi alle spalle ogni volta che era costretto a scendere sull'asfalto per aggirare un paracarro. Flavia gli arrancava dietro maledicendo i sandali coi tacchi, messi perché le sembravano adatti alla cena in una romantica trattoria sul Po, che immaginava con tavole di pietra e ferro imbandite sotto grandi ippocastani da cui pendevano festoni di lampadine. Dopo qualche minuto, Giacomo si fermò di scatto, tanto che Flavia andò a sbattere contro la sua schiena. Davanti a loro c'era, sul lato del paese, uno spiazzo polveroso adibito a parcheggio, e dall'altra parte della circonvallazione un supermercato con le vetrine coperte di avvisi colorati e serrande di ferro.
    "Qui" disse Giacomo a voce bassa "si faceva la festa di San Rocco, e certe volte c'era il circo."
    "Il circo non mi è mai piaciuto" disse Flavia "tutti quei poveri leoni spelacchiati con l'aria stanca, e poi l'ho sempre trovato uno spettacolo noiosissimo." 
    Giacomo non disse nulla e riprese a camminare, infilandosi in una strada che portava all'interno del paese. Sbucarono in una piazzetta in cui si fronteggiavano una chiesetta gialla con il portale chiuso e un castello di mattoni rossi con un'alta torre cilindrica attorno alla quale centinaia di rondini volavano stridendo impazzite. In un angolo una pizzeria modesta aveva messo fuori tre o quattro tavolini di plastica grigia.
    Giacomo si avviò verso il cancello di ferro che interrompeva il muro di cinta del castello. Sui pilastri spiccavano le spie del sistema d'allarme e un videocitofono. Improvvisamente il cancello si aprì silenziosamente, azionato dal dispositivo di apertura elettronico, e ne uscì un fuoristrada giallo guidato da una ragazza molto giovane e abbronzata; Giacomo fece un balzo di lato per non essere investito e tirò giù una bestemmia. Si infilò in una stradetta che costeggiava il fianco della chiesa e Flavia gli arrancò dietro.   
    "Vieni" disse "qui c'è la casa di mia nonna. E' una di quelle case gialle col cortile sul fianco, e l'orto. E' a due piani e ci abitano più famiglie. D'estate, mia nonna che abitava al pianterreno tirava fuori una sedia e si sedeva in cortile, e le vicine che stavano al piano di sopra uscivano sul ballatoio e si appoggiavano con i gomiti alla ringhiera, e se ne stavano lì tutta la sera a chiacchierare tra un piano e l'altro. Noi bambini giocavamo in cortile, e qualche volta, quando volevano fare dei discorsi che noi non dovevamo sentire, ci davano i soldi per il gelato e ci spedivano in piazza."
    Camminava velocemente e svoltò in una strada laterale.
    Ma nella strada non c'era nessuna casa col cortile di fianco, solo due file di bassi condomini di mattoni rossi con una striscia di giardino comune davanti, tenuto a prato e in quel momento piuttosto rinsecchito, e balconi coperti di piante d'edera e vite vergine, molti gerani e tende di plastica. Giacomo fece ancora qualche passo, poi si voltò e prese Flavia per un braccio.
    "Torniamo alla macchina" disse "non c'è altro da vedere."
    Ormai era quasi il tramonto ma il caldo non era affatto diminuito. Dalle griglie chiuse del cimitero si vedevano le tombe ordinatamente disposte in file divise da sentierini ghiaiosi, mentre tutt'intorno, contro il muro di cinta, le cappelle delle famiglie più abbienti esibivano le loro architetture eterogenee, che nemmeno la luce dorata del sole ormai mezzo nascosto dalle montagne riusciva a rendere aggraziate.
    "Sono stanco" disse Giacomo, e Flavia aprì tutto il finestrino della macchina per fare uscire due mosche che ronzavano affaticate.
    "Almeno le mosche ci sono ancora" disse per consolare il marito, ma lui non raccolse la battuta e mise in moto senza parlare.
    Flavia si accorse che avevano preso la direzione di Torino, ma non disse nulla. Nella luce dorata che ancora illuminava i campi persino le foglie rigide della meliga assumevano contorni più dolci, e l'aria che entrava dal finestrino era più fresca e quasi profumata. Solo quando furono in vista del castello di Moncalieri e della verdeggiante quinta delle colline, si decise a chiedere:
    "Dove andiamo a cena? A casa non c'è niente, neanche un pezzo di pane."
    "Andiamo a una bocciofila in collina" rispose Giacomo "almeno fa fresco e si può mangiare qualcosa di leggero. Mi basta un'insalata, non ho proprio fame. Anzi, col caldo che ho preso, ho quasi la nausea."    
    Flavia sorrise, di colpo di buon umore.
    "Io ho una fame da lupi" disse. "Ci credo che hai la nausea, quel tè che abbiamo bevuto avrà avuto dentro mezz'etto di zucchero."    
    Gli dette un bacio veloce su una guancia e si passò un kleenex sulla faccia, per toglierne le tracce di polvere e sudore che il pomeriggio vi aveva lasciato.